Letteratura mondiale e metodo / Erich Auerbach, storia e stile
Il capolavoro critico di Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale “è coscientemente un libro scritto da una determinata persona, in una determinata situazione, all’inizio degli anni quaranta”. Ho riportato tra virgolette questa affermazione perché è di Auerbach stesso e la si legge negli “Epilegomena zu Mimesis” pubblicati nel 1953.
La localizzazione storico-geografica e ancor più quella biografico-autoriale intendeva rispondere alle numerose prese di posizione, talora critiche, che il libro aveva suscitato. La si potrebbe però anche leggere come un’enunciazione sintetica del suo metodo critico.
Questa giustificazione autoriflessiva del proprio lavoro si trova oggi in un volume di scritti del critico tedesco, raccolti e curati con raffinata intelligenza da Guido Mazzoni per nottetempo nella neonata collana ‘extrema ratio’ sotto il titolo di Letteratura mondiale e metodo.
Il volume accoglie anche il fondamentale “Filologia della Weltliteratur” (1952), le “Quattro ricerche sulla storia della cultura francese (1951), gli studi su Vico, che hanno impegnato Auerbach dal giovanile lavoro del 1921 fino agli anni cinquanta, e infine una serie di riflessioni critiche che si misurano con il lavoro di figure di primo piano della critica letteraria a lui contemporanea: Spitzer, Olschki, Curtius, Wellek.
L’originalità di questa raccolta sta nell’avere individuato i due assi strategici del lavoro del critico tedesco: da un lato la filologia, ossia l’interrogazione concreta del tessuto linguistico di cui si compongono le opere e, dall’altro, la loro collocazione in una prospettiva geistesgeschichtlich, ossia nel quadro di una lettura filosofico-storica che assegna all’artefatto letterario una valenza simbolica.
Osservata da lontano, questa polarità disegna due sagome ideali della critica letteraria che hanno dominato in larga parte il XX secolo; secolo breve per la storiografia, secondo la celebre formula coniata da Hobsbawm, ma straordinariamente lungo se lo si osserva dalla specola della teoria letteraria.
Da un lato, nel Novecento, giunge a maturazione il lungo processo di immersione scientifica della filologia, avviato a fine Settecento con la nascita di una scienza delle forme artistiche e di una scienza del linguaggio, che avrà il suo approdo più solido e duraturo un secolo dopo nel Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure. Da quest’ultimo prenderà avvio la linea di sviluppo che porterà all’affermazione di una funzione eminentemente poetica della lingua letteraria in opposizione alla sua funzione mimetica. Il laboratorio ampio e diversificato del formalismo russo a partire dagli anni dieci del Novecento e la ripresa successiva di quelle istanze nello strutturalismo francese disegneranno l’arco lungo di questa affermazione di autonomia del letterario rispetto al mondo.
L’orientamento di segno opposto – ma in realtà sono qui in gioco due diversi paradigmi scientifici – è quello che avrà il suo fondamento definitivo nella filosofia hegeliana e nei suoi sviluppi successivi, la cui formulazione originaria risale alla Scienza nuova di Gian Battista Vico. È la linea che congiunge il sapere filologico a quello storico, ciò che Auerbach chiama “il senso della prospettiva storica”.
Nei saggi vichiani di Auerbach questa primogenitura del pensiero storico attribuita al filosofo napoletano viene non solo riconosciuta ma anche esplorata con l’amorevole attenzione di chi intende denunciare un mancato riconoscimento della cultura europea. “Vico – dice Auerbach – avrebbe dovuto essere riconosciuto e ammirato come un precursore, così come lo furono Shaftesbury e Rousseau, e forse anche più di questi”.
La Scienza nuova non è stata capita, vuoi per il barocchismo della scrittura, vuoi per le ambiguità dell’esposizione, in bilico tra ammirazione e rifiuto del razionalismo cartesiano. Sta di fatto che l’intuizione centrale di Vico, ossia che il sapere umano può conoscere pienamente solo ciò che l’uomo ha realizzato da se stesso nel corso del tempo e che questo sapere si fonda su una ricerca minuta e attenta – filologica – delle testimonianze che di questo fare ci sono pervenute, è un pensiero che sarà fatto proprio da Herder, da Goethe e dai Romantici di Jena. La sua sistemazione filosofica definitiva sarà data da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito e, per quanto concerne l’arte, nelle successive Lezioni di Estetica.
Ma al di là delle ampie campate del disegno filosofico-storico, al di là della ‘storia dello spirito’, le tracce vichiane sono visibili, secondo Auerbach, nell’idea romantica e goethiana della natura come mistero irrisolto e irresolubile, a dispetto dei progressi della ragione scientifica.
“Non vi è conoscenza senza creazione: soltanto il creatore conosce ciò che ha creato” afferma Auerbach nel saggio II contributo di Vico alla critica letteraria (1958), sintetizzando il pensiero vichiano. Al contrario, il “mondo delle nazioni” è più accessibile all’intelligenza umana perché è opera dell’uomo.
Per Auerbach Vico è stato l’iniziatore di un’epistemologia che ha saputo rovesciare la razionalità astratta di Cartesio nella cognizione concreta della storia, basata sul sapere erudito della documentazione. La sua influenza sui posteri è in altre parole assai più profonda e di lunga durata rispetto alla sua ricezione tedesca nella Goethezeit. Con Vico nasce l’ermeneutica storica, un sapere che si basa sulla convinzione che la cultura è physis e la mente umana evolve con l’evolvere della storia.
“ …il suo sforzo di comprensione – dice Auerbach – è concentrato essenzialmente sugli stadi più antichi dell’evoluzione, poiché questi sono i più difficili da capire; occorre possedere una notevolissima acutezza di mente per riscoprire, nelle modificazioni del nostro intelletto totalmente razionalizzato, i principi delle antiche forme di civiltà rette dall’istino e dall’immaginazione”. E da questi principi Vico ricava una definizione delle norme generali su cui si fondano tutti i processi di civilizzazione: “il suo punto di partenza, comunque, è la critica delle forme di espressione umana, della lingua, del mito e della poesia (“una nuova arte critica”)”.
Come dimostrano i saggi vichiani raccolti in questo volume, Auerbach baserà il fondamento epistemico della sua critica filologica sulla convergenza di storia e stile, di immaginazione collettiva ed espressione artistica, a cominciare dalle forme originarie che Vico ascrive all’età del poetico.
Mazzoni, nel bel saggio introduttivo al volume, si interroga sulla longue durée dell’influenza esercitata dall’autore di Mimesis: quella che ha chiamato il ‘paradosso’ di Auerbach. Ossia il fatto che una figura di critico così solidamente ancorato alla tradizione umanistica occidentale e al relativo canone letterario possa avere ancora oggi, nell’età degli studi postcoloniali e degli studi di genere, una risonanza e incontrare una ricezione così attive.
Il volume ora pubblicato dimostra chiaramente come la ‘paradossale’ longevità di un’opera, all’apparenza anacronistica, come Mimesis non dipenda dagli oggetti trattati ma dal metodo adottato che si fonda su una rigorosa ‘critica della ragion letteraria’ di ispirazione vichiano-romantica.
Da essa Auerbach ricava l’idea che la letteratura, al pari delle altre creazioni artistiche dell’ingegno umano, è lettera ed è spirito, è oggettività e concretezza ma anche espressione simbolica di una verità che le trascende. Per riprendere il celebre passo paolino della Seconda lettera ai Corinzi, la lettera dunque uccide solo coloro che non sanno esplorarla e che non ne intendono il significato ‘spirituale’. Nel lessico vichiano ripreso da Auerbach si tratta del passaggio dal certum della testimonianza concreta e reale della parola scritta o delle vestigia del passato – opere d’arte, istituzioni, leggi – al verum della verità filosofica. Qui sta l’originalità della Scienza nuova che Vico definisce “scienza dell’umanità o del mondo storico.
A leggere i saggi qui raccolti appare chiaro come la lezione di Vico sia stata per Auerbach un vero e proprio programma critico, un Wegweiser, che gli ha indicato la strada per unire l’interpretazione dei singoli passi dei testi al senso complessivo di un’epoca.
In “Gianbattista Vico e l’idea di filologia” del 1936, interrogandosi sul senso dell’opera vichiana, concludeva: “I vocaboli moderni che si presentano numerosi, come filosofia della storia, Geistesgeschichte, filosofia dello spirito, morfologia della storia universale, antropologia filosofica sono troppo vaghi e non colgono l’essenziale”. L’essenza del pensiero di Vico è sempre e soltanto la filologia: “… la filologia diviene la quintessenza della scienza dell’uomo in quanto essere che vive nella storia, e racchiude tutte le discipline che ne trattano e quindi anche quella che in senso stretto viene chiamata scienza storica”.
Come rileva giustamente Mazzoni, Auerbach si trova al bivio di due concezioni opposte di storicismo: quella di matrice idealistico-romantica, che nella cultura tedesca aveva preso avvio dallo Herder delle Idee per la filosofia della storia dell’umanità, e quella di matrice positivistica, attenta ai testi e alla loro composizione. Da qui deriva la sua doppia identità culturale e metodologica in cui si riflette la complessità polisemica della parola ‘storicismo’, solitamente assunta, anche in Italia, nella sola accezione filosofico-storica.
La lettura di questi scritti svela progressivamente uno scenario ricco di stimoli teorici, quasi un compendio delle maggiori direzioni che la riflessione sulla letteratura ha prodotto nei secoli a partire dall’idea aristotelica di mimesis passando attraverso la normatività astorica dei differenti classicismi e della distinzione degli stili e successivamente attraverso la rivoluzione filosofico-storica di Vico per approdare all’utopia goethiana della Weltliteratur.
L’idea di una letteratura mondiale induce Auerbach negli anni cinquanta a riflettere sul destino contemporaneo della letteratura e si chiede se sia in atto una mutazione tale da sconvolgerne lo statuto tradizionale e il sistema delle differenze con cui le forme letterarie nelle diverse culture si sono presentate e confrontate.
Goethe a inizio Ottocento poteva ancora concepire i “tratti comuni dell’umanità (…) sotto l’aspetto della fecondazione reciproca di una realtà molteplice”, poteva pensare a un dialogo tra forme, tecniche e sistemi metaforici differenti con esiti poetici fondati sull’incontro delle culture e su una visione transnazionale delle arti e dei sistemi valoriali, ma in un mondo che diventa sempre più piccolo, e meno vario, in cui le Lebensformen, le forme di vita, sono sempre di più simili è ancora concepibile, si chiede Auerbach, un dialogo creativo tra letterature differenti? Come può convivere la ricchezza del concetto goethiano con la reductio ad unum della nuova letteratura? Forse “bisognerà incominciare a pensare alla possibilità che sulla Terra, organizzata in modo unitario, rimanga viva una sola cultura letteraria, anzi, che in un lasso di tempo relativamente breve rimangano vive solo poche lingue letterarie, forse ben presto una sola. In tal caso l’idea di Weltliteratur sarebbe realizzata e al tempo stessa distrutta”.
Auerbach coglie chiaramente l’essenza del concetto goethiano, ossia che la sostanza vivente della letteratura non tollera la fissità del concetto e le classificazioni poetiche. E tuttavia sembra non vedere il nesso che lega questo pensiero della differenza alle forme originarie e archetipiche.
Non è un caso che negli anni della sua tarda maturità, in cui prende forma l’idea di letteratura mondiale, Goethe sia ritornato ai suoi studi di morfologia comparata avviati nel 1790 con la pubblicazione del Saggio sulla metamorfosi delle piante.
Il confronto tra mondi letterari differenti doveva condurre, nelle intenzioni di Goethe, ad esiti sincretici tali da comportare una progressiva messa in questione delle assiologie tradizionali.
La comparazione delle culture letterarie aveva assai più a che fare con la übersichtliche Darstellung, la rappresentazione perspicua, di cui parlava Wittgenstein nelle Note al Ramo d’oro di Frazer. Uno sguardo che dall’alto coglieva affinità e differenze al di là delle classificazioni e degli schematismi delle storie letterarie.
Una visione questa che Auerbach, legato com’era alla “prospettiva storica”, probabilmente non poteva cogliere. Del concetto goethiano Auerbach si è fatto un’idea forse un po’ troppo a misura sua, di certo a Goethe interessava assai più la morfologia del vivente rispetto alle ipostasi della storia.
Concludo citando un passo di Goethe che concentra con rara evidenza la questione epistemica discussa da Auerbach. Compare come epigrafe al libro di Walter Benjamin sul Concetto di critica d’arte nel Romanticismo tedesco:
“Innanzi tutto... chi compie un’analisi dovrebbe indagare o piuttosto dirigere la sua attenzione sul fatto se egli ha realmente a che fare con una misteriosa sintesi oppure se ciò di cui si occupa è soltanto un aggregato, una contiguità incoerente…oppure come tutto ciò potrebbe essere modificato”.
È il dilemma della critica, nel senso originario greco del krinein: scomposizione analitica e identificazione degli elementi che costituiscono l’insieme o intuizione sintetica del tutto? Un problema aperto e come tale sempre attuale a cui Auerbach ha trovato un punto solido di ancoraggio nel potere sintetico della storia. Con gli occhi di oggi è forse una felice illusione.