Essere foresta

10 Luglio 2023

«Avete allontanato il buio con il vostro grande sviluppo e le vostre pillole, e ora dovete ritrovarlo. E bisogna andare nella foresta per trovarlo il buio. […] “Entrare nella foresta” per trovare il buio apre un portale a incontri non-umani e ci propone una possibilità etica intra-soggettiva o trans-affettiva.» 

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Esteban Klassen.

«Se la foresta ci attrae e ci riempie di terrore è perché ci vediamo dentro di essa come Giona nel ventre della balena. Benché sia circoscritta, la foresta ci accerchia. Questa sensazione, familiare a chiunque conosca una foresta, nasce dalla duplice visione che abbiamo di noi stessi. Ci facciamo strada nella foresta e contemporaneamente ci vediamo, come dall’esterno, inghiottiti dalla foresta.»

Il primo è un pensiero che fonde neomaterialismo e cultura yoruba; soggetto del secondo siamo noi, cresciuti fin dalla culla a pillole di Pollicino, Hansel e Gretel, Cappuccetto Rosso e altri minacciosi mondi stregati. Li abbiamo artisticamente domati trasformandoli in paesaggi, in oggetti da guardare da un’ideale finestra, da consumare con gli occhi. Il buio della foresta – ma potremmo dire dell’altrove che mette in forse la nostra umana signoria – non va secondo l’arte occidentale attraversato. Il suo dentro non è il nostro dentro. Il territorio, parallelamente all’uso predatorio che ne è stato fatto, è andato sempre più configurandosi come una mappa squarciata: soglie, confini e voragini servivano a dividere il qui dal lì, l’alto dal basso, il centro dai margini, il bianco dal nero, l’umano da tutto l’altro vivente, la cultura dalla natura, il mio dal tuo, noi da loro, i conquistatori dagli autoctoni. Funzione storico-politica cruciale: chi ha paura della foresta e la tiene a distanza ha timore di riconoscersi dipendente e debitore, di essere stanato e poi divorato, spolpato e disossato. Secondo un’antica profezia dei nativi americani Creek, «Solo quando avrete tagliato l'ultimo albero, avvelenato l'ultimo fiume, catturato l'ultimo pesce, solo allora capirete che il denaro non si può mangiare».

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Alex Cerveny, Farmacopéia 2023.

È esattamente questo il tema di Siamo foresta, la mostra inaugurata il 23 giugno scorso a Milano, nuova avventura della lungimirante kinship Triennale di Milano/Fondation Cartier di Parigi. Il direttore artistico dell’esposizione, l’antropologo brasiliano Bruce Albert (autore, insieme a Davi Kopenawa, di La caduta del cielo. Parole di uno sciamano yanomami, Nottetempo 2018) l’ha definita un tentativo di moltiplicare gli sguardi. Via l’occhio assoluto della tradizione rinascimentale occidentale con la sua prospettiva a senso unico, via la visione gerarchizzante che crea il primo piano come posizione di predominio e lo sfondo come terreno di caccia o miniera a cielo aperto, via la distinzione dentro/fuori e la classificazione ossessiva che ipostatizza la superiorità di chi osserva e governa l’atto figurativo. 

La progettazione giocosa ed esuberante della mostra, affidata all’artista brasiliano Luiz Zerbini, oltre ad essere un’opera in sé, è un’incarnazione coraggiosa e plausibile del tema in questione. Coraggiosa, perché intelligentemente consapevole di una contraddizione: a denunciare la cancellazione storica su cui si fonda il gesto ‘civilizzatore’ occidentale è ancora una volta la metropoli bianca, ovvero chi la foresta continua a temerla e/o sfruttarla. L’appropriazione, in altre parole, è sempre in agguato, così come lo sono la contrizione e il moralismo, il perseverare di un se pur involontario o benintenzionato atteggiamento coloniale. Plausibile perché chi è cosciente dei guasti che il nostro modello di sviluppo ha provocato è tenuto non semplicemente a ospitare, ma a tentare di cedere il proprio spazio a altre visioni, altre immagini, a una diversa esperienza e idea di mondo. Lo si può e lo si deve fare, se non altro per prudenza. Pochi lo fanno.

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I disegni, le tele, le incisioni, le sculture, le installazioni in mostra al primo piano della Triennale sono immersi – e i visitatori insieme ad essi – in un universo sensoriale, non solo visivo suggerito, dalla stessa struttura del Palazzo dell’Arte progettato dall’architetto Giovanni Muzio nel 1933. Zerbini ha giocato sulla relazione tra interno ed esterno creata dalle grandi vetrate affacciate sugli alberi del parco circostante e sul cielo per disegnare un percorso intricato e limpido, fluido e digressivo. Tutto porta a tutto: sta a ognuno di noi scegliere come arrivarci. Gli spazi espositivi, vere e proprie arene di luce dai confini labili e in costante movimento – in queste sale atmosferiche si avverte il respiro del vento, il trascorrere delle nuvole, lo spegnersi del giorno –, si sono trasformati in vortici vegetali, radure, passaggi segreti, bivi, arcobaleni. È il nostro sguardo a dislocarsi, insieme alla nostra immaginazione, per raggiungere le opere là dove si sono originate, talora fuori da ogni logica mercantile. È il caso dei numerosi disegnatori yanomami presenti in mostra.

André Taniki, per esempio, – spiega Carlo Zacquini, da cinquantotto anni missionario nell'Amazzonia brasiliana dove vive questo gruppo etnico in feroce estinzione, di cui ha sposato la causa con passione risoluta – è uno sciamano. I suoi disegni sono un modo di narrare mappando la realtà. Le sue cartografie dai colori brillanti somigliano a storyboard cifrati. A renderle ‘documento’ e dunque ‘esportabili’ sono stati la carta e i materiali da disegno arrivati con i bianchi. Prima quei segni per noi muti avevano come superficie la pelle umana o il legno degli alberi e venivano tracciati con i pigmenti vegetali e minerali offerti dalla terra. Erano destinati a coincidere con la vicenda effimera dei corpi, a morire con loro. Alla Triennale fanno capolino in mezzo a stretti cunicoli di piante ‘che non soffriranno’, perché ci sarà chi si prenderà cura di loro fino alla conclusione della mostra, il 29 ottobre prossimo. Sono state scelte e accostate con la consulenza del botanico Stefano Mancuso e una legenda sulla parete annuncia, come nei titoli di coda di un film, che nessuna di loro è stata e sarà maltrattata. 

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Andrè Zaniki.

È ormai sempre più chiaro che le specie co-evolvono, che gli esseri umani non fanno eccezione, che la materia è un elemento attivo nel divenire del cosmo, la sua matrice intelligente. I concetti di ibridità e relazionalità su cui si fonda la pratica metamorfica del ‘compost’ teorizzata dalla biologa femminista Donna Haraway e quello di intra-azione proposto dalla filosofa e fisica teorica queer Karen Barad ci ricordano che esseri viventi e mondo sono aggrovigliati. Non si tratta di riconoscere loro una reciprocità e di conseguenza una vicendevole possibile resa. Bisogna ragionare di inestricabilità e dunque di mutazioni successive, inedite e funzionali. Nulla resta se stesso, tutto slitta, si mescola, fermenta e preme. Non è frutto di allucinazioni psicotrope il trittico sapiente del peruviano Brus Rubio Churay, che mette in figura corpi mutageni simili alle ‘Camille’ annunciate da Haraway nel suo Chthulucene. Figlie del processo di composizione e decomposizione che è proprio della terra, dell’humus, le creature a venire immaginate dalla teorica californiana sono messaggere di un futuro possibile in cui l’umano si estingue o diventa simbiotico, multiforme e alieno, fuori misura, mostruoso. L’artista peruviano sembra invece estrarle da un passato remoto o da un presente che cede. Non teorizza, guarda.

In tal senso Siamo foresta, oltre ad essere una curatissima mostra d’arte, intende essere una dichiarazione politica e un invito a riflettere. La foresta in scena alla Triennale, descritta dal suo direttore artistico come «multiverso egualitario di popoli viventi, umani e non umani, […] allegoria di un mondo possibile al di là del nostro antropocentrismo», rischia altrimenti di essere un mercato chiassoso, non uno spazio dove «piangere la morte del mondo che si smembra».

In copertina, Brus Rubio Churay davanti al suo trittico.

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