Speciale

Colpiti nel cuore / La morte non doveva raggiungerci

1 Aprile 2020

Questa volta siamo stati colpiti nel cuore. Temiamo di non riuscire a respirare. Al mattino ci schiariamo la gola, sperando che il leggero mal di gola di ieri sia sparito. Gli eventi ci hanno travolti e ripetiamo parole come: “improvvisamente”, “di colpo” “dall’oggi al domani”. Negli ultimi decenni avevamo letto le riflessioni sociologiche sull'accelerazione nella nostra società. In mezzo secolo le parole dette in un minuto di televisione si sono raddoppiate. Ci riconoscevamo nella descrizione della nostra vita fatta da Hartmut Rosa in Accelerazione e alienazione. Per una teoria critica del tempo nella tarda modernità (Piccola biblioteca Einaudi). Secondo il sociologo tedesco, sia gli aspetti strutturali che culturali delle nostre istituzioni sono contrassegnati da un "restringimento del presente". Ma poiché noi stessi ci trovavamo dentro a quel veicolo, la percezione dell’accelerazione era rimasta piuttosto astratta. Ora qualcosa è cambiato. Da quando i nostri corpi sono stati costretti a fermarsi, vediamo l’accelerarsi attorno a noi con più chiarezza. Il morire stesso accelera. Ieri due, oggi quattro, domani otto, dopodomani sedici, dopo una settimana 256 bare, tutte dello stesso legno chiaro, disposte nella navata della cattedrale di Bergamo. Non c’ è più spazio all’interno, sono allineate anche fuori sulla piazza. Non ci sono persone attorno, solo due camion dell’esercito che caricheranno le bare e le porteranno via. Nessuna preghiera, nessun discorso, nessun abbraccio. Questa fila di bare abbandonate potrebbe assomigliare a un’installazione d’arte contemporanea. A Bergamo non si udivano come nelle altre città italiane canti e musica sui balconi, il silenzio veniva interrotto solo dalle sirene delle ambulanze. Scrive un medico:

 

La maggior parte degli anestesisti rianimatori e degli infermieri che con noi collaborano, non ha ancora effettuato un cambio mentale dal concetto di "curare" a quello del "prendersi cura", quest'ultimo assai più consono ad uno stato di guerra. Per questo vivono un certo disagio emotivo e professionale. Si sentono impotenti quando, in realtà, hanno fatto gesti meravigliosi di dedizione al paziente. Rischiando spesso la propria vita per la reale scarsità di misure protettive. Riutilizziamo tutto anche se monouso.

 

 Tutto questo sarebbe ancora sopportabile. Ma non abbiamo sviluppato difese immunitarie contro qualcos’altro che continua a ferirci: la solitudine, nella quale un paziente di coronavirus muore. Non c’ è un parente ad accompagnare chi giace con gli occhi sbarrati, che ricordano lo sguardo del medico di Wuhan che aveva lanciato l’allarme per primo ed era morto due settimane più tardi.

Al paziente anziano e molto grave si avvicina una figura bianca, incappucciata, e gli porge un tablet con due frasi. Gliele indica, e gli occhi del malato si rilassano per un secondo. Il figlio del malato che ha scritto le due righe sa che la morte da Covid 19 avviene per mancanza graduale di respiro. Nessuno è colpevole di tutto questo, eppure si mette in moto un enorme senso di colpa. Gli infermieri e i dottori sono i primi ad esserne travolti: è irrazionale e irreparabile, come un'onda atipica. C'è aiuto? Psicologi e psicoterapeuti offrono sessioni gratuite (mi riferisco alla iniziativa “Accogliere le ferite di chi cura”: contattopsicologi@gmail.com): ma, dopo un turno di otto ore in un ritmo di lavoro serratissimo forse un medico o un’infermiera non desiderano altro che chiudere gli occhi e non pensare più a niente. Ci vorrà ancora del tempo, finché questi “angeli” – come li chiamano i giornalisti – possano sentire il bisogno di condividere la loro vulnerabilità con qualcun altro.

 

 

La solitudine nella quale si muore da Coronavirus non è l'unico sconforto che sentiamo nei confronti del defunto. C’è anche una nuova e angosciante solitudine dopo la morte. È di questo che raccontano le bare sulla piazza. Non esiste un solo popolo sulla terra che non abbia sviluppato rituali funebri. Nessun morto viene lasciato mai solo, anche perché il tempo che trascorre tra morte e sepoltura è considerato rischioso, come tutti i momenti di passaggio. Se capitava che i morti venissero abbandonati, si trattava di condizioni eccezionali come guerre e epidemie. 

Ogni volta che non possono essere rispettati bisogni archetipici, cioè istintivamente radicati, l'equilibrio psicologico degli individui e della comunità traballa. La pandemia ci ha catapultato in un futuro che continuavamo a sospingere un po’ più in là. Preferivamo chattare sui social invece di andare a trovare un amico? Preferivamo il sesso online perché così si evitavano fallimenti fisici e complicazioni sentimentali? Tutti i vicini sono stati distanziati. Avevamo affidato bambini di otto mesi a delle app che li intrattengono? Da un giorno all’ altro tutto questo ha raggiunto la perfezione, ha fatto un balzo in avanti. Ora tra noi e qualsiasi altra persona c’è uno schermo. Guardare in faccia a qualcun altro, vedere la sua mimica non sfasata, la sua testa senza auricolari pendenti e sentire una voce non riprodotta meccanicamente, ci sembra ormai un lusso. 

 

Non possiamo supporre con faciloneria che, quando tutto sarà finito, inizierà un rinnovamento spontaneo, simile alla crescita di una foresta dopo gli incendi boschivi. Strizzare gli occhi a un "dopo" è pericoloso: prima di tornare a una specie di normalità i morti dovranno essere sepolti anche in senso metaforico. Questa è la legge psicologica di ogni epoca, di ogni cultura. Eppure poiché continuiamo a vivere in accelerazione, corriamo il rischio di non seppellire i morti, di non renderci conto di cosa è stato perso e in cosa potrà forse trasformarsi. Potremmo essere la prima generazione che non seppellisce per la fretta. Finora non abbiamo tentato di trovare un rito collettivo per accompagnare all'interramento le migliaia di persone che muoiono ogni giorno: alcuni di noi si stanno già annoiando a casa. Il tempo in cui viviamo è stato gravemente ferito dalla sua stessa accelerazione. Forse le restrizioni alla libertà possono aiutarci a prenderne coscienza. Guarire questo tempo ferito significherebbe anche prendere coscienza di questo: un'infinità di legami e di connessioni si sono interrotte questo ha sconquassato la nostra vita. Si è spezzato soprattutto il legame essenziale che implica tutto il resto: quello tra i vivi e i morti. 

 

Hermes, il dio alato, il protettore delle strade, il maestro della comunicazione e del cambiamento che ha determinato le nostre vite da quando fu inventata la ferrovia, ha subito un crollo un mese fa, nel febbraio 2020. Era al massimo della sua potenza: l'interconnessione globale non avrebbe potuto essere migliore per dare al virus la possibilità di trasmettere il suo materiale genetico, così facilmente replicabile in ogni singola persona sulla terra, per quanto distante, a una velocità inimmaginabile. Questa trasmissione è stata utile a qualcuno? No, ma è stata efficientissima. Le restrizioni che abbiamo ora imposto sono l'opposto di questa ubiquità mercuriale e potrebbero agire come nemesi. Nella migliore delle ipotesi, potremmo disconnettere questa accelerazione in determinati momenti, scoprendo che essa non era altro che un tentativo di escludere la morte. La morte non doveva raggiungerci, nella nostra fuga accelerata da essa. Le immagini delle bare allineate sulla piazza di Bergamo, con i camion dell’esercito che li caricheranno e li porteranno altrove, hanno fatto il giro del mondo: non a caso, racchiudono un alto significato simbolico. Preferiremmo forse guardarle come un’alienante installazione di arte contemporanea. Tuttavia sappiamo che le bare non sono vuote, che in ognuna c’ è la salma di una persona la cui vita si è conclusa in una immensa solitudine.

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