Andrés Caicedo. Viva la musica!

21 Gennaio 2013

María del Carmen Huerta, la regina del Guaguancó, la sempreviva, così come lei stessa ama definirsi,  è un’immagine cinematografica, il ritmo sincopato di una melodia incalzante, una traccia d’inchiostro, il sintomo di un malessere generazionale, un gesto teatrale, insomma, un esperimento culturale vivente. Instancabile ballerina, festaiola sfacciata, curiosa consumatrice di droghe, she comes in colors ev’rywhere e attraversa la notte, sommersa dal piacere d’essere ammirata. Perché è bionda, biondissima, dello stesso colore del mango maturo. I suoi capelli hanno una lunga storia che lei racconta al lettore in prima persona, in un manoscritto che conclude nel dicembre del 1974, dopo avere lasciato il bel quartiere residenziale dove viveva con la famiglia per girovagare negli insani bassifondi di Cali e destreggiarsi nella sua nuova vita da nottambula.

Non ha un’infanzia, perché la nostalgia è un capriccio reazionario che non ha mai capito. Invischiata in una disperante coazione a ripetere, il suo passato è un ammucchiamento caotico di pomeriggi trascorsi nella rassegnazione tropicale aspettando la notte. Il sole è dannato fino alla prima pista. Poi, con le labbra amare e la fretta demenziale, è tutto più sopportabile. Si aprono le danze. E, con esse, l’impetuoso raccontare di una delle voci narranti più convincenti della letteratura colombiana della seconda metà del Novecento, plasmata dalla scrittura travolgente di Andrés Caicedo, autore tra i più intrepidi nel panorama della narrativa ispanoamericana degli anni Settanta.

 

Nulla a che vedere con remoti paeselli abitati da gloriosi capostipiti, saggi zingari corpulenti e bellezze verginali assunte in cielo tra lenzuola svolazzanti, lo scenario in cui si svolge l’azione di Viva la musica! (Edizioni SUR, pp. 229, euro 15, traduzione di Raul Schenardi) è uno spazio urbano antropofago,  caratterizzato da gravi disparità economiche e sociali e dalla violenza endemica di una stagione di guerre civili che in Colombia pare essere eterna e autorigenerante. Nel frattempo, proprio negli stessi anni delle scorribande allucinate di María, sono in atto feroci operazioni militari che azzittiscono, reprimendole, le forze progressiste presenti in tutto il continente. L’ingerenza statunitense è anche culturale e coincide, nell’opera di Caicedo, con un’originale assimilazione letteraria del mondo del cinema e della musica a lui contemporanei. Un vivo interesse per i miti hollywoodiani, il rock di matrice angloamericana (e la fraseologia che da essi deriva) si amalgama nel romanzo con lo spagnolo vivace della salsa brava interpretata da Richie Ray e Bobby Cruz, dando vita ad uno spassoso linguaggio colloquiale colorito dalla resa scritta, mai convenzionale, dell’argot di gruppi giovanili che si muovono sul filo dell’illegalità. Una sfida che il traduttore supera egregiamente, offrendo per di più al lettore italiano un’edizione del romanzo impreziosita da puntuali note al testo.

 

Sulla presenza costante di citazioni esplicite ai brani dei Rolling Stones e alla musica di stampo afrocaraibico diffusa dalla Fania Records si appoggia la caratterizzazione dei due personaggi maschili, Leopoldo Brook e  Rubén Paces, che, infatuati della protagonista, l’accompagnano in due momenti diversi del suo viaggio iniziatico, determinando un contrappunto narrativo costituito da due scene musicali antagoniste e da due immaginari diversi che affascinano in egual misura l’autore e il suo alter ego femminile.

Il primo, Leopoldo, è appena arrivato dagli Sati Uniti con la sua chitarra, il secondo, Rubén, è uno dei gestori della discoteca Ritmo Transatlántico. Fa il deejay ed è l’unico personaggio a cui la narratrice concede di parlare attraverso la sua bocca, prestandogli la voce durante un ballo in cui il sudore si mischia e gli sguardi si fondono nella percezione all’unisono della realtà che li circonda. Segue uno dei passaggi più esilaranti del romanzo, la cronaca farsesca, in differita, di quel lontano 26 dicembre 1969 in cui Bobby Cruz gli fece l’occhiolino dal palco mentre lui rimetteva l’anima e il vomito aveva tutti i colori della bandiera della sua amata terra, giallo come i frutti e le ricchezze della nostra patria, blu come il colore delle montagne lontane e rosso come il sangue versato dagli eroi (p. 148).

Il romanzo si conclude con l’apparizione in scena del terzo coprotagonista maschile, Bárbaro, l’indio che la invita a prendere la via per l’estremo Sud della città, oltre le pendici della cordigliera, dove le insegna a derubare i gringos inebetiti dagli acidi e a deliziarsi con l’esercizio della violenza e la perpetrazione dell’abuso psicologico sulle vittime. A questo proposito, il motivo reiterato del concedersi aggressivo di María ha ben poco a che vedere con l’idea di un’irriverente liberazione sessuale. La sempreviva, piuttosto, gioca d’anticipo, sottraendosi, in attacco, allo stupro. La chiusura sembra ribadirlo, con  il definitivo smascheramento della componente sadica e individualista presente nelle filosofie hippie della liberazione dell’individuo. 

 

Dopo avere ricevuto la prima copia stampata del romanzo, Andrés Caicedo, giovanissimo, si suicida. È il 1977, l’universo hippie si è già dissolto e un po’ dovunque ci si inizia a rasare i capelli, bucarsi le narici con le spille da balia e assistere a concerti  in cui i musicisti sputano sul pubblico. Tre mesi dopo la morte di Caicedo esce il singolo God Save the Queen. È l’inizio di una nuova epoca, nonostante la luminosità dei capelli di María continui, ancora oggi, a liberare dall’ombra generazioni di lettori febbrili dell’opera del suo creatore, vera e propria icona letteraria da (ri)scoprire.

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