Un libro del grande Satchmo / Louis Armstrong: un lampo a due dita
Quaranta acri di terra e un mulo. È quanto il Governo Federale degli Stati Uniti promise, pochi mesi prima dell’assassinio del presidente Lincoln, agli ex schiavi di colore. S’era nel gennaio del 1865. Ai proprietari degli Stati Confederati, con quel provvedimento, sarebbero stati confiscati 400.000 acri di terreno, una striscia di terra che si estendeva da Charleston, nella Carolina del Sud, al fiume St. John in Florida, lungo la costa della Georgia. Più di 160.000 ettari di terra coltivabile di cui alcune famiglie di afro-americani avrebbero potuto rivendicare la proprietà. Fu il primo tentativo di riparare ai torti subiti dalle popolazioni afro-americane su suolo americano. A pensarci oggi, e questioni razziali a parte, qualcosa di colossale per le implicazioni politiche che avrebbe comportato: un provvedimento del genere, se messo in atto, avrebbe trasformato il governo degli Stati Uniti nel primo governo socialista della storia.
Di quella solenne promessa non restò nulla. Nell’autunno del 1865 l’ordine fu revocato dal presidente subentrante Andrew Johnson, e i proprietari delle piantagioni del sud tornarono in possesso delle loro terre. Quaranta acri e un mulo. Molti anni dopo quella promessa il regista afro-americano Spike Lee battezzò così la sua casa di produzione cinematografica: Forty Acres and a Mule Filmworks. Possedere della terra, per gli afro-americani, restò a lungo un miraggio, proprio come ricevere un’istruzione. Saper leggere e scrivere, per uno schiavo, poteva comportare delle severe punizioni corporali. Lo stato della Virginia, uno degli stati in cui la repressione nei confronti dei neri si rivelò particolarmente dura e tenace, promulgò una legge che proibiva l’istruzione dei bambini di colore, schiavi o liberi che fossero, e assicurava delle multe salate o la prigione ai bianchi che si fossero adoperati a tale scopo. Il popolo nero andava mantenuto nella povertà e nell’ignoranza. L’alfabetizzazione dei neri d’America fu una delle sfide più difficili nei decenni che seguirono il proclama di emancipazione di Lincoln, ed è facile immaginare quel che deve aver significato, per gli afro-americani, acquisire infine, e con tanta fatica, gli strumenti che consentissero loro di poter leggere e scrivere. La terra poteva aspettare, ma i libri no. I libri nutrivano la mente e permettevano di proiettare la libertà ben oltre quei quaranta acri e un mulo.
La premessa è fondamentale per apprezzare appieno un libro come Un lampo a due dita, pubblicato da poco nella collana Chorus dell’editore Quodlibet (edizione italiana a cura di Stefano Zenni, traduzione di Giuseppe Lucchesini, 321 pagine, € 25). Il volume presenta un’antologia di scritti del trombettista jazz americano Louis Armstrong curata, nell’edizione originale, dal musicologo e professore alla Duke University Thomas Brothers. Louis Armstrong era sì un musicista, forse il più importante musicista jazz di sempre e certo uno dei più amati, ma la musica per lui, nato e cresciuto a New Orleans negli anni in cui il jazz codificava la sua prassi esecutiva, era come respirare, un fatto naturale. “Ciò di cui sono realmente fiero”, dichiarò anni dopo in un’intervista, “è la mia capacità di parlare e scrivere in buon inglese”. L’intervistatore, forse colto di sorpresa, provò a stuzzicarlo: “Sei anche uno scrittore, Louie?” Armstrong replicò senza esitazioni: “Diavolo! Sono un lampo a due dita sulla mia macchina per scrivere portatile”.
Ovunque andasse, fra biancheria e sordine, Armstrong portava sempre con sé un vocabolario e un dizionario dei sinonimi e contrari: “Li tengo a portata di mano quando scrivo delle lettere. Così se salta fuori una di queste parole difficili, io ho già la risposta in tasca. Non ho studiato molto da ragazzo, e quindi sto ancora imparando”. Louis Armstrong, nato nel 1901, era cresciuto in povertà in un quartiere di New Orleans chiamato The battlefield – il campo di battaglia – e frequentò una scuola segregata fino all’età di 11 anni. Dopo di allora fu soltanto lavoro e musica. Studiare era un lusso. Per lui, come per molti altri, la priorità era anzitutto guadagnarsi da vivere. Siccome aveva del talento, e siccome era nato in una città dove la musica offriva delle opportunità di guadagno – limitate, ma pur sempre meglio che vendere il carbone alle prostitute nel quartiere a luci rosse per un nichelino al secchio, o pulire le tombe al cimitero di Girod Street, come Louis aveva fatto da ragazzino – il suo destino si compì quasi senza sforzo.
Questo volume presenta degli scritti di Louis Armstrong che coprono un arco di tempo piuttosto ampio: dalla prima lettera spedita all’amico Isidore Barbarin pochi giorni dopo l’arrivo a Chicago, nel settembre del 1922, fino all’ultima lettera indirizzata ai fan del giugno 1970 (Armstrong sarebbe morto l’anno dopo, il 6 luglio del 1971). Accanto alle lettere troviamo testi che lo stesso Armstrong scrisse per dettagliare da un lato la sua biografia, e dall’altro per illustrare la scena musicale di New Orleans nei primi anni del Novecento. Sono testi rilevanti sia per lo studioso che per l’appassionato, e possono colpire per le ragioni più diverse. Lo scritto intitolato “Louis Armstrong + la Famiglia Ebrea a New Orleans, Louisiana, nell’Anno 1907”, espunto dell’autobiografia Satchmo, pubblicata nel 1954, racconta ad esempio la giovinezza di Louis, cresciuto in una famiglia ebraica, i Karnofsky (il Carnovsky del Nathan Zuckerman di Philip Roth non c’entra), dove accanto all’amore e all’incondizionata ammirazione per il popolo ebraico “per il loro costante coraggio a fronte di Tanti Abusi subiti per tanto tempo”, Armstrong non manca di esprimere biasimo nei confronti dei suoi simili: “i Negri non sono mai uniti e non lo saranno mai. Provano troppo rancore – Invidia nel profondo del cuore per i pochi Neri che ci provano”. È questo un rimprovero su cui Louis calca molto la mano, qualcosa che è facile immaginare lo toccasse in prima persona: “i Negri criticheranno un altro Negro perché cerca un qualcosa di abbastanza dignitoso. Arriveranno a criticarci per averci almeno provato. Preferiscono piuttosto Oziare e sprecare il loro tempo a non far Niente. O, siccome hanno un Titolo di Studio che alcuni di loro non avrebbero dovuto nemmeno ricevere, pensano che il mondo per questo gli debba qualcosa. E qualcuno di loro non sa neppure sillabare correttamente ‘cat’”.
Louis Armstrong, forse il musicista della storia del jazz che portava in dote il maggior numero di soprannomi (Dipper Mouth – Bocca a Mestolo – Boat Nose – Naso a Barca – Hammock Face – Faccia d’Amaca – Rhythm Jaws – Mascelle del Ritmo – Satchelmouth – Bocca a borsa, come la valigetta di un dottore – da cui un inglese derivò poi il soprannome più famoso: Satchmo), aveva un senso dell’umorismo che deve averlo tratto da molti impicci nel corso della sua vita, e di cui si serviva nei modi e nelle circostanze più diverse, anche solo per alleviare il peso di una dichiarazione fatalmente problematica (la facezia che i neri non sapessero sillabare una parola di una sola sillaba come cat, ad esempio). Questo senso dell’umorismo emerge in particolare quando Louis scrive, e lo fa spesso, della sua fissa per le purghe, una fissa che gli era stata inculcata dalla madre Mary Ann (“Figliuolo – Tieni sempre pulito il tuo intestino, e niente ti farà male”), e che nel Louis adulto, pur se col disincanto che gli era proprio, assume il tono di una personale battaglia contro l’ostruzione intestinale: “Sono certo che voi sapete cos’è una Buona Purga”. Nelle lettere al suo biografo Robert Goffin si firmava “Lassativamente Tuo, Louis Armstrong”, e per buona parte della vita assunse con regolarità un lassativo alle erbe chiamato Swiss Kriss. A tratti, nello scriverne, il racconto si fa di una comicità esilarante: “Mi sono svegliato con un po’ di brontolio nello stomaco, era un avvertimento – andiamo al Cesso. Hmmm, non ci ho fatto caso e mi sono rimesso a Dormire, ma solo per pochi minuti poi un brontolio più forte mi dice: ‘È lo Swiss Kriss, non camminare – Corri’. E vedi di non Inciampare, per favore”.
Caratteristica che balza subito all’occhio nella scrittura di Louis Armstrong è la libertà con cui disponeva il segno grafico in pagina. Ogni lettera e ogni segno d’interpunzione erano per lui motivo di invenzione. Armstrong affrontava la scrittura con la stessa disinvoltura con cui avrebbe affrontato uno spartito: improvvisando, ponendo accenti non previsti, collegando le note (le parole) ogni volta in modo diverso e inconsueto, cercando, in una frase, il ritmo attraverso il quale gli sarebbe stato possibile non solo trasmettere del senso, ma uno stato d’animo o un’emozione. Da musicista scriveva per essere ascoltato oltre che letto. Per Armstrong era fondamentale trasferire la prassi improvvisativa del jazz (ritmo, armonia, modulazione, ecc.) anche nella scrittura. Leggendolo, e ponendo particolare attenzione all’aspetto grafico, non è difficile sentire le frasi con il ritmo e la “voce” dello stesso Louis:
Io – Amo, Davvero, I tuoi Assegni, Nelle, Mie TASCHE –
OH, Sembrano così carini, che detesto incassarli.
In quella stessa lettera, indirizzata al manager Joe Glaser e datata 2 agosto 1955, Louis giustifica il suo silenzio epistolare lamentando bonariamente la frenesia alla quale è sottoposto: “Mi piace scriverti Paparino, ma mi tieni il culo ‘Così Impegnato’ che ho tempo solo per ‘Caaacare, Raadermi e ‘Lavarmi” (nell’originale: Shhhit, Shhave and Shower). Il traduttore Giuseppe Lucchesini fa giustamente notare la curiosa diminuzione di h nelle tre parole – resa con le a in italiano – tre nella prima, due nella seconda, una nella terza. Il fatto è che Louis nello scrivere sta modulando una frase musicale. Per lui shhhit, shhave and shower è con ogni probabilità l’equivalente di un verso di una canzone: diciotto lettere, sei per ogni parola, lettere tenute a farsi anzitutto suono e a sovrapporsi a una melodia. Shit, shave and shower sarebbe stata una frase imperfetta sul piano ritmico ed espressivo, sprovvista di coerenza grafica e di ironia, e quindi: shhhit, shhave and shower.
Ognuno degli scritti presenti nel libro meriterebbe un’analisi a sé. A sorprendere, al di là dell’aspetto grafico e delle questioni sintattiche o grammaticali, è anzitutto la capacità di Louis di porsi di fronte alla pagina scritta in funzione dell’interlocutore al quale si sta rivolgendo. Louis Armstrong non aveva un solo stile di scrittura, ne possedeva una moltitudine. È probabile che trovasse naturale applicare alla pagina la stessa prassi che gli consentiva di suonare e cantare nei contesti e negli stili più diversi, tanto in sala d’incisione che su un palcoscenico. Gli esempi si sprecano, ma due lettere mi hanno particolarmente colpito.
La prima è indirizzata a un’ammiratrice, tale Betty Jane Holder. È datata 9 febbraio 1952, e Louis attacca la lettera evocando la sua esperienza in veste di “Re degli Zulù” il giorno del Mardi Gras al carnevale di New Orleans del 1949, quando guidò un carro con il volto truccato “da negro” come s’usava nei minstrel show. Per Louis, il massimo degli onori, qualcosa che sognava fin da bambino (“la mia ambizione di una vita”), ma qualcosa che molti afro-americani non mancarono di rimproverargli (“Louis è la macchietta da piantagione che tanti fra noi più giovani rifiutano” dichiarò Dizzy Gillespie alla rivista Downbeat pochi mesi dopo i fatti). Dalla lettera si evince chiaramente quanto l’essere stato il Re degli Zulù rappresentava un autentico onore per Louis, nonché un nostalgico ritorno ai tempi in cui, alla testa di un carro stipato di carbone, si aggirava per il Quartiere Francese orientando il suo mulo (“cerca sempre di avere una parola gentile per il tuo mulo quando, al mattino, entri nella sua stalla per aggiogarlo” si raccomandavano i saggi del vieux carré).
Louis fa del suo meglio per impressionare la signorina Holder, sciorinando pomposamente tutta una serie di meriti e onori – l’esser stato a Parigi (“Parigi in Francia”) a suonare alla Salle Pleyel (“una sala simile alla Carnegie Hall di New York”); l’aver suonato di fronte al sindaco di New Orleans, di aver tenuto un ballo nella sala del Municipio, il fatto che il sindaco gli si rivolgesse chiamandolo familiarmente Satch, e che la sua impresa in veste di Re degli Zulù fosse addirittura finita sulle pagine del Times… Louis all’epoca era già uno dei musicisti più amati e meglio pagati d’America, eppure sentiva ancora la necessità di accreditare sé stesso di fronte a una sconosciuta, ma anche, e qui capiamo bene quanto Louis fosse consapevole del potere che può conferire la scrittura, di usare il suo charme per fare colpo sulla dama. D’un tratto, nel leggere la lettera, sospettiamo che dietro il compiacimento per i suoi raggiungimenti artistici e mondani si annidi in realtà un piano di seduzione condotto ad arte: “c’è una cosa che deve sapere di me: quando comincio a scrivere, specialmente a qualcuno con cui ‘voglio davvero comunicare, a – ehm – una ‘ragazza’ –, capita che non riesca a fermarmi”. Hai capito, il buon Louis? “E siccome sono qui a Reno (non per ottenere un divorzio)…”; “e può immaginare, provare a scrivere, mentre stringo la mano ai miei fan…”; “così lei può dire a tutti, che il Vecchio Satchmo ha più mani di una ‘Piovra’”. E per impressionare definitivamente una giovane donna che si è data la pena di scrivere al suo idolo, niente di meglio che l’intramontabile Shakespeare: “come disse il ragazzo seduto su un blocco di ghiaccio – la Mia Storia È Stata Raccontata”.
La seconda lettera è quella indirizzata al manager Joe Glaser, e già citata, spedita il 3 agosto del 1955. Come fa notare il curatore Thomas Brothers, lo scritto rivela un lato di Armstrong che sembra non quadrare con la sua immagine pubblica. Anzitutto per il linguaggio esplicito, chiaro indizio che fra Armstrong e Glaser v’era una complicità che andava ben oltre il mero rapporto professionale (“mi piaceva ancora suonare il mio strumento tutte le sere, Fica o non Fica”; “quando due sono soli in una stanza, dai Baci si passerà regolarmente alla scopata”; “un Uomo per sentirsi bene non dovrebbe stare sempre con una donna”; “ogni notte Ci Davamo Dentro. Voglio dire, me la sono proprio Macinata quella Fica”). Gergo da spogliatoio. Ricerca di adesione maschile su un piano che un uomo, se è tale, non può disattendere, pena la ricusa dell’intero spogliatoio.
La sensazione è che Louis trovi in Glaser il complice ideale, un bianco col quale instaurare un rapporto svincolato dal rapporto di forza (agente/artista) o da quello di razza (bianco/nero). A un certo punto nella lettera Louis riporta a Glaser un consiglio che gli diede Black Benny, una celebrità nel quartiere a luci rosse di New Orleans: “finché vivrai, non importa dove sarai, tieniti sempre accanto un Uomo Bianco (a cui tu piaccia), che possa + voglia metterti una Mano sulla spalla e dire: ‘Questo è il ‘mio’ Negro’ e Nessuno Ti Farà del Male”. Glaser per Louis è quell’Uomo Bianco. Nel chiamarlo Vecchio Mio, Louis gli impartisce pur sempre delle schiette indicazioni su come gestire le sue finanze e su come mascherare le spese extra agli occhi della moglie; subito dopo lo chiama “mio caro Capo”, poi “Paparino”, e infine lo arringa: “ecco perché ti Chiedo dei Contanti. Voglio Gestire la mia vita in Modo Conseguente. ‘CAPITO?’”, o ancora; “fin quando sarò Destinato a suonare questa Tromba datti una mossa”, firmandosi infine: “Dal Tuo Ragazzo”. È, questa, una lettera che vale l’intero libro.
Da questo volume emerge una figura insieme tenera e complessa, geniale e imprevedibile, un uomo mosso da una determinazione micidiale e al tempo stesso in perenne ricerca di una certificazione sociale e di un suo posto nel mondo. Un afro-americano che aveva messo alla prova la sua dignità vendendo carbone alle prostitute di Storyville fra papponi, giocatori d’azzardo e criminali d’ogni sorta, e che finì col diventare uno degli artisti più amati del Ventesimo Secolo. Adesso scopriamo che fu anche scrittore, e che nelle sue parole riuscì a trasferire lo spirito, la gioia e l’amore che aveva saputo regalare al mondo con la sua tromba e la sua inconfondibile voce. Vale la pena leggerlo, il buon Satchmo, si ami o meno il jazz, ma vedendo di non Inciampare, per favore.