Denis Villeneuve, “Arrival” / Cerchi e palindromi
Ted Chiang è uno scrittore di fantascienza decisamente atipico. In primis perché non fa il romanziere di professione: il suo vero mestiere è quello di scrittore tecnico per aziende di software, retaggio della sua laurea in informatica. In secondo luogo, perché scrive pochissimo (appena quattordici racconti e un romanzo breve dal 1990 a oggi). In ultimo, perché intrattiene con la fantascienza un rapporto quantomeno problematico che – senza scomodare monoliti come Philip K. Dick o Stanisław Lem – lo colloca in una posizione quantomeno eccentrica rispetto all'ortodossia del genere.
In Chiang convivono due istanze apparentemente dicotomiche. Da un lato, la fascinazione per l'ignoto, visto come un luogo oscuro da illuminare per mezzo della visionarietà sfrenata dei migliori storytellers di genere fantastico, anche a costo di ricorrere a soluzioni narrative quasi da letteratura pulp (materiale di cui Chiang dimostra di non essere affatto digiuno). Dall'altro, il rigore scientifico e il rispetto della logica - quale che sia l'ambito entro cui essa agisce - che gli vengono, con ogni evidenza, dalla sua formazione, e che si traducono, all'interno dell'atto creativo, in una sorta di attrazione verso tutto ciò che è tassonomia, paradigma, canone. Queste due forze convivono in maniera malferma e finiscono spesso per collidere, aprendo voragini di senso che Chiang sfrutta per interrogarsi sul mistero dell'esistente, l'origine della vita e del mondo, l'immanenza del tempo e della morte, in un incessante “dialogo sui massimi sistemi” che è spesso polifonia di voci e restituisce un'idea cosmogonica ancora frammentaria e contraddittoria, ma già in possesso di un'identità precisa.
Curiosamente, il cinema si è accorto di Chiang solo di recente, per la precisione quando lo sceneggiatore Eric Heisserer, finora noto a Hollywood principalmente per le sue incursioni nel genere horror (Nightmare di Samuel Bayer, remake del classico di Wes Craven; La cosa di Matthijs van Heijningen Jr., prequel di un altro classico degli anni Ottanta, l'omonimo capolavoro di John Carpenter; Final Destination 5 di Steven Quale e Lights Out di David F. Sandberg), è riuscito nell'impresa di adattare per lo schermo la prosa sfuggente e metafisica di Storia della tua vita, uno dei racconti più complessi dello scrittore, trasformandolo in una sceneggiatura recante il titolo di Arrival. A tradurre lo script in immagini è stato chiamato il canadese Denis Villeneuve, reduce, in meno di un decennio, dal successo d'essai di Polytechnique e, soprattutto, La donna che canta, e dalle prime, interessanti prove in terra statunitense (Prisoners, Enemy e Sicario).
La narrazione prende le mosse da un'atipica invasione aliena. Se la tradizione più inconcussa del genere prevede – da La guerra dei mondi in poi – un più o meno immediato risvolto bellico; se in epoche più recenti alcuni scrittori hanno brevettato diverse forme di interazione (l'infezione virale per il Michael Crichton di Andromeda, la colonizzazione per la Stephenie Meyer post-Twilight di The Host), variamente imitati da registi e sceneggiatori (basti pensare, solo per rimanere in anni recenti, alla convivenza coatta nelle bidonville di Johannesburg immaginata da Neill Blomkamp in District 9); Arrival sceglie una soluzione intermedia e, almeno inizialmente, ambigua. I giganteschi mezzi di trasporto extraterrestri, vagamente simili a gusci di mitili, gravitano silenziosi e incombenti su dodici località della Terra. Gli alieni desiderano comunicare, ma il loro linguaggio è incomprensibile. Così il governo statunitense – uno dei gusci staziona in Montana – invia presso la residenza dei visitatori un reggimento dell'esercito e alcuni scienziati, tra cui Louise Banks, una stimata linguista (in realtà decisamente giovane per essere così stimata, tanto che The Guardian, nel recensire il film, non si è lasciato sfuggire una stilettata intrisa di tipico umorismo british, domandandosi se Noam Chomsky non fosse disponibile e se le sue teorie sulle strutture profonde del linguaggio non potessero essere di maggior aiuto), tanto preparata e intuitiva quanto titubante. Malgrado ciò, è proprio lei a stabilire un contatto con gli alieni, imparando a interpretare il loro alfabeto fatto unicamente di cerchi, le cui sbavature indicano – a seconda della forma, della posizione e della grandezza – fonemi diversi. Ma il linguaggio è materia liquida e, per i non iniziati, decisamente infida, e una piccola incertezza della dottoressa nella traduzione di un vocabolo rischierà di scatenare una sorta di “rappresaglia preventiva” da parte delle maggiori superpotenze. D'altronde, non fu Wittgenstein a dire: «Se un leone potesse parlare, non lo capiremmo comunque»?
Quella sopra esposta è ancora la parte più o meno convenzionale dell'intreccio. Da qui in poi, parte quella che molti hanno sbrigativamente liquidato come una “speculazione filosofica” – qualsiasi cosa voglia dire, ma visto che in molti ricorrono a tale locuzione facciamo finta di adeguarci – alla maniera dell'ultimo Malick. Con la dottoressa che comincia a essere suggestionata da visioni inizialmente inesplicabili, le quali però, alla lunga, si rivelano la soluzione della sciarada, la chiave per comprendere i reali motivi dell'arrivo degli extraterrestri (invero spiegati in maniera alquanto vaga e nebulosa) e soprattutto il codice d'accesso per comprendere con precisione tanto il loro linguaggio quanto la loro – usiamo il termine in maniera deliberatamente inappropriata – Weltanschauung, e persino la loro – vedi sopra – cultura.
La chiave (e bisogna riconoscere che si tratta di una soluzione narrativa affascinante, al netto di un'esposizione non proprio brillante) è nella diversa percezione del tempo da parte delle due specie. O meglio, nel fatto che, per gli alieni, tale percezione, semplicemente, non c'è. La loro esistenza è perennemente coniugata al presente: una sorta di panteismo-ecumenismo esperienziale che mette a disposizione delle loro coscienze l'intero loro vissuto, senza confini né progressioni, senza distinzioni tra passato e futuro. Ciò li mette nelle condizioni di conoscere gli eventi di cui gli umani sono ancora all'oscuro, semplicemente perché non ancora avvenuti nella scansione paratattica del tempo storico come noi lo percepiamo. Persino la morte, nella loro cultura, diviene niente più di un “processo” da esperire solo fisicamente, giacché sul piano mentale esso è già chiaro e determinato. Immanenza e presenza sono la stessa cosa, è ciò che deve ancora accadere, al pari di ciò che è già avvenuto, è come se stesse avendo luogo in quel momento.
Arrival prova a ragionare su questi assunti, incardinandovi una riflessione sulla vita, la morte e il libero arbitrio. E demandando proprio al personaggio della dottoressa Banks, costretta a farsi investire da frammenti della propria vita slegati dal flusso temporale (fanno parte del passato o del futuro?), il compito di farsi apostolo presso il resto dell'umanità di questa prospettiva rivoluzionaria: sarà proprio in essa, guardando dentro le pieghe di un flusso temporale ripiegato su se stesso come i cerchi dell'alfabeto alieno, che la linguista troverà gli strumenti, ma soprattutto le parole – e dunque il linguaggio –, per scongiurare una guerra interplanetaria. Il prezzo da pagare per lei sarà però altissimo: perché esperire una vita senza tempo vuol dire anche conoscere in anticipo eventi della stessa che andrebbero vissuti solo ed esclusivamente nel momento in cui si verificano. Almeno per quella che è – ancora una volta – la nostra cultura. E la scelta finale di responsabilità della dottoressa, quasi una “scelta di Sophie” al contrario, contiene in sé, nello stesso momento, l'esaltazione della vita e la resa di fronte all'ineluttabilità della morte, per quanto crudele possa sembrare. Come se questi due poli fossero fatti della stessa materia, e non della negazione l'uno dell'altra: quasi un gigantesco palindromo, come palindromico è il nome della bambina che Louise metterà al mondo pur sapendo cosa le accadrà. Come palindromico è, in fondo, lo stesso Arrival, che solo alla fine svela il trompe-l'œil narrativo collocato all'inizio del film, e che invece è la fine della storia. Come se il principio e la fine fossero esattamente la stessa cosa.