Gadget / Gaudisney a Milano
Il gadget: oggetto sovrannumerario che vanta eredità di un certo rilievo (il feticcio) e che esclude o elude il valor d’uso (“non serve”), ma che produce forme forti o deboli di affezione (feeling) o di piacere. A volte non se ne può fare a meno (godimento). In ogni caso, aggregato alla merce come interessato “regalo”, quando non merce esso stesso. In tal caso, supplemento assoluto, portatore di una enigmatica quota di plus-valore o di plus-godere. Di incerto statuto istituzionale e formale (arte? design? semplice divertimento?) passa al di sotto di ogni forma di classificazione. Pare che oggi questa specie di oggetti proliferi, e che se ne possano trovare a ordini di grandezza assai diversi, dal minimo del pupazzetto di IKEA al massimo del Museo.
Eccone un esempio.
C’è la facciata di una casa, in Corso di Porta Romana, a Milano. Dipinta in un colore giallo pallido è una casa d’epoca, di gusto vagamente barocco: in alto, un abbaino con un timpano e una finestra con cornice a rilievo che presenta un curioso fregio a occhiello. Più sotto, una finestra a forma di trifoglio, anch’essa decorata, poi una piccola apertura buia, una specie di colombaia. Ai fianchi della parte centrale, file di altre finestre e balconcini a loro volta decorati con vistosi rilievi. Il tutto ha un’apparenza aristocratica, quasi da antica villa di campagna dimenticata e assediata dal traffico cittadino, insomma fuori-luogo (anche se si tratta di un condominio, probabilmente del primo Novecento).
Ora, se si gira l’angolo, sul muro cieco del fianco destro appare la sua riproduzione o meglio la sua copia difforme, ripetuta in una sorta di trompe-l’oeil che dall’abbaino arriva fino al piano terra. I volumi sporgenti e i pesanti fregi delle finestre sono enfatizzati. Tutto è stranamente dissomigliante benché riconoscibile. Come visto attraverso quegli specchi deformanti che si trovavano nei Luna-park. O forse come nelle tavole dei fumetti di Topolino: i volumi diventano gommosi, cremosi, molli, la loro solidità pare prossima a sciogliersi. Le ringhiere dei balconcini diventano stringhe di liquirizia, le sporgenze dei davanzali e dei balconi colano verso il basso, tutto fa pensare a uno stato transitorio tra il solido e il liquido, a un passaggio dalla stabilità della pietra o del cemento alla pastosità di una torta in equilibrio instabile sulla propria massa. Ti aspetteresti addirittura che la precarietà venisse sottolineata da quei brevi tratti curvilinei che riproducono le vibrazioni degli oggetti o dei personaggi, come nelle figure di Keith Haring: ( ( … ) ). Un piccione in volo da un davanzale al vicino balcone proietta la propria ombra sulla parete, fermato con minuzia olandese.
Che cos’è? Un murale offerto alla città, al pubblico, come recita una scritta in basso (“pubblicità per la città”), un regalo inaspettato ai passanti che curiosi si fermano a fotografarlo con i telefonini. Un dono vistoso che spicca nel contesto indifferente della strada. Somiglia a Gaudì, si dice. Deformazione, dilatazione e stiramento topologico in effetti richiamano La Pedrera o meglio ancora il fronte di Casa Batllò. In realtà a me pare piuttosto somigliante alle case di Topolinia o Paperopoli, o al deposito cubico di Zio Paperone, gonfio e sul punto di esplodere per l’eccesso dei dollari che contiene. Oppure alle case liguri del recente film di animazione Luca, o alle strade parigine del precedente Ratatouille.
Ma se portiamo all’eccesso la deformazione delle linee e dei volumi arriviamo oltre il limite della riconoscibilità. Come nel Guggenheim di Bilbao o nel più recente edificio della Fondazione Vuitton a Parigi: non più linee ma gomitoli o lastre sovrapposte a sfoglia. La forma, che comincia a perdere la sua stabilità a Barcellona, finisce in un intrico caotico a Bilbao o a Parigi. O ancora meglio, viene in mente la Casa danzante di Praga, sempre di Gehry: una sorta di tubo di cartone piegato nel mezzo che pare barcollare, prossimo a ricadere su se stesso.
Rispetto a questa serie, dove i volumi e le forme si agitano e sembrano vivere di vita propria, a queste architetture da Cartoonia, il trompe-l’oeil milanese rappresenta una sorta di stato intermedio bidimensionale, quasi un ironico contro-progetto che non fa altro che esasperare coerentemente un anticipo o un implicito invito già visibile nella facciata tridimensionale dietro l’angolo.
Gaudì, o Disney: Gaudisney. Esempi di una maniera, di un codice figurativo che come il simulacro, fa finta di rappresentare o di somigliare, ma in realtà moltiplica i suoi esemplari in un infinito richiamo orizzontale (simul-ire). Dato che già la facciata “originale” di Porta Romana, per conto suo, è una citazione di uno stadio precedente vagamente identificabile, forse, con il Barocco, come si diceva. Una pittura-gadget richiama un’architettura-gadget, la seconda e la terza dimensione si rincorrono e formano coppie senza originale.
Ma perché gadget? Il gadget è un finto-regalo, simula un servizio, un’offerta gratuita, un valor d’uso fine a se stesso, offre un innocuo piacere dove l’innovazione è indistinguibile dalla trovata estemporanea. Non è un caso che il trompe-l’oeil di Porta Romana sia una raffinata operazione di marketing, come attesta il logo dell’azienda committente, discretamente presente sui tendaggi rossi alle finestre dell’ammezzato.