Virus e informazione / Patente per i media

2 Marzo 2020

È noto come Karl Popper abbia destato molta attenzione alcuni anni fa proponendo d’istituire una patente per tutti coloro che realizzano e trasmettono dei programmi televisivi. Il filosofo austriaco ha formulato tale proposta nel 1994 all’interno di una conversazione con Giancarlo Bosetti uscita nel volume Cattiva maestra televisione, ora riproposto in una nuova edizione dall’editore Marsilio nell’Universale Economica Feltrinelli. Popper intendeva affermare l’idea che chi si trova a gestire una televisione, la quale oggi è il mezzo di comunicazione più seguito e potente, ha un’elevata responsabilità nei confronti della società e pertanto, come per chi deve guidare un’automobile o curare degli ammalati, è necessario che venga valutato dallo Stato e che gli venga concessa un’autorizzazione a compiere il suo lavoro solamente se è in possesso dei necessari requisiti. Un’autorizzazione che può anche essere ritirata se colui al quale è stata concessa non adotta più dei corretti principi etici. 

 

La proposta di Popper ritorna d’attualità in questi giorni, dopo lo scoppio in Italia di un’epidemia di coronavirus, e potrebbe essere estesa a tutti media. Popper, infatti, ha formulato la sua proposta pensando alla televisione, ma è evidente che tutti coloro che lavorano nei media stanno adottando in questo periodo dei comportamenti opportunistici. Si rivolgono alle persone approfittando della loro elevata sensibilità nei confronti delle notizie che riguardano il coronavirus per catturare meglio la loro attenzione. Di solito, forniscono delle informazioni veritiere e impiegano un tono serio e non allarmistico, ma il problema è l’enorme quantità di spazio mediatico che viene dedicato a tali informazioni. Il palinsesto appare in gran parte occupato dal tema coronavirus e ciò genera inevitabilmente la sensazione che si tratti di un tema importante e di cui è necessario preoccuparsi. L’importante teoria dell’agenda setting, peraltro, ha dimostrato chiaramente da tempo che i media di solito creano all’interno delle notizie una gerarchia d’importanza che influenza pesantemente quello che pensano le persone. Le quali pertanto, se qualcosa è trattato come importante dai media, sono indotte anch’esse a ritenerlo rilevante.

D’altronde, come ha sostenuto il sociologo Pierre Bourdieu all’interno del volume Sulla televisione (Feltrinelli), ciò che caratterizza la televisione è che essa di solito «invita alla drammatizzazione, nel doppio senso del termine: mette in scena, in immagini, un evento e ne amplifica l’importanza, la gravità, nonché il carattere drammatico, tragico» (p. 20). Il linguaggio televisivo cioè, per sua natura, produce inevitabilmente una enfatizzazione emotiva dell’oggettività dei fatti che presenta. Anche perché le immagini che propone sono prevalentemente occupate da persone (i presentatori, i giornalisti, ecc.) che danno l’impressione di rivolgersi direttamente allo spettatore, creando così un rapporto intimo e coinvolgente sul piano emotivo. 

 

 

Va considerato, del resto, che il linguaggio televisivo è principalmente basato su un flusso d’immagini veloci, con ritmi intensi e una continua variazione dei soggetti presentati. In ciò risiede uno dei suoi elementi di maggiore fascino, ma il risultato è che gli spettatori non hanno il tempo necessario a sviluppare un’adeguata riflessione. Questa infatti richiede tempo. 

I messaggi televisivi dunque sono prevalentemente basati sulle emozioni e sulla velocità e producono di conseguenza una crescita del livello di ansia negli spettatori. Ansia generata anche dal fatto che il linguaggio della televisione non prevede di solito un confronto tra opinioni diverse, né si preoccupa di raggiungere un elevato livello di approfondimento dei contenuti. Si produce dunque dell’insicurezza in spettatori che sono esposti soprattutto a fatti i quali vengono ingigantiti rispetto alla loro reale importanza e non trovano una spiegazione per quanto riguarda le cause che li hanno determinati. 

 

Oggi poi tutto ciò è amplificato sia dalla crescente concorrenza in atto tra le reti televisive, le quali sono spinte da tale concorrenza a una ricerca ossessiva di eventi forti e sorprendenti da trasmettere, sia dalla moltiplicazione delle reti stesse, le quali (insieme al Web) producono un’enorme crescita degli stimoli mentali che arrivano all’individuo. Il quale si trova così ad avere difficoltà a ragionare rispetto a ciò che vede e conseguentemente a essere sempre più vittima dell’ansia. 

 

Molti pensano che la società e i mercati debbano autoregolarsi. Sono influenzati da quell’ideologia neoliberista secondo la quale il mondo può attraversare dei momenti di difficoltà, ma è comunque sempre in grado di arrivare autonomamente a un livello ottimale di equilibrio. La storia ci ha invece mostrato che in molti casi è necessario che lo Stato intervenga per rimediare a quello che la società non è in grado di correggere da sola. Forse l’epidemia di coronavirus, nella sua drammaticità, ci porterà ad avere una maggiore consapevolezza della necessità di istituire una patente per chi lavora in televisione e negli altri media.  

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