Flagelle delle ortaglie / Le volgari umili cavolaie

12 Marzo 2017

Mi è difficile decifrare negli anfratti più lontani della memoria i primi ricordi di farfalle, quelli precocissimi che anticipano la coscienza delle vanesse che osservavo con mio nonno sulle sterrate miaglianesi. Avverto questi ricordi come macchie indistinte e primordiali. Ma, nella memoria, sono macchie bianche e quasi certamente furono quelle delle cavolaie, le comunissime farfalle candide e banali che si vedono un po' ovunque da noi e in generale in Europa e nell’emisfero nord. Solo che erano talmente banali che nessuno ci faceva caso. Povere farfalle trascurate e neglette che raramente compaiono nei dipinti o nelle poesie! Guido Gozzano scrisse un poema intitolato “Della cavolaia” in cui rivela l’assoluta insignificanza di questa specie.

 

Se la Vanessa ed il Papilio sono

nobili forme alate e dànno imagine

d’un cavaliere e d’una principessa

la Pieride comune fa pensare

una fantesca od una contadina.

 È volgare, dal nome alla divisa

scialba, dal volo vagabondo al bruco

nero-verde, flagella delle ortaglie…

 

Il pittore olandese della prima metà dell’ottocento, Jan van Huysum, la rappresentò posata su di una pesca in un quadro esposto al Mauritshuis, il piccolo e magnifico museo dell’Aia. Non ci sono molte altre immagini o dediche riservate alle cavolaie. Si preferiva dipingere macaoni, podalirio e vanesse.

 

La cavolaia appartiene alla grande famiglia dei pieridi, farfalle di solito di colore bianco o giallo da noi, ma coloratissime ai tropici. Il nome “cavolaia” è stato affibbiato a questa farfalla poiché le sue larve vivono sulle crucifere, tecnicamente “Brassicaceae”, ovvero piante come i cavoli, le rape, i cavolfiori, la colza, la senape e i rapanelli. Anche in lingua francese il nome corrisponde – pieride du chou e “petit blanc du chou” – e così pure in tedesco – kohlweissling – e in spagnolo – blanca de la col. In sostanza, le nostre bianche cavolaie hanno da sempre la malaugurata abitudine di cibarsi, allo stadio larvale, di ortaggi preziosi, cosa che da molte generazioni attira l’ostilità dei contadini nei confronti di questo insetto. Ecco cosa scriveva nel 1853 il Gené nel suo “Dei pregiudizi popolari intorno agli animali aggiuntevi le notizie sugli insetti nocivi all'agricoltura ”: “Durante il giorno cotali bruchi stanno attaccati in numerose famiglie alla pagina inferiore dei cavoli; così deputando dei ragazzi con due palette di legno ad esplorare le foglie stesse e comprimerle, se contengono dei bruchi, se ne può fare grandissima strage, perciocchè eglino sono sottilissimi di pelle”. E così dice degli adulti: “Il primo scopo si ottiene in parte, perseguitandole e prendendole con un piccolo sacco di tela, oppure di velo, attaccato ad un cerchio e sostenuto da un manico lungo un paio di metri circa”. Infine, suggerisce di piantare dello stramonio lungo i sentieri dell’orto, dato che questa “erba oltremodo puzzolente” terrebbe lontano le cavolaie.

Ad essere precisi, in realtà, ci sono varie specie di “cavolaie” e non tutte provocano danni agli ortaggi. Sono simili tra di loro ed è spesso necessario un occhio esperto per poterle distinguere. In generale, sono tutte bianche con il bordo apicale nero e, all’ala anteriore, una o nessuna macchia nera per il maschio e due macchie nere per la femmina. Il retro, visibile ad ali chiuse, è di solito giallognolo o verdastro con una spolveratura nera lungo le venature. La più grande è Pieris brassicae, la cavolaia maggiore, la cui larva verde-nerastra si nutre di cavoli ed altre crucifere.

 

La più dannosa è però la cavolaia minore, o Pieris rapae, i cui bruchi, spesso in grande numero, devastano orti e campi di cavoli e di rape.

 

 

Una specie molto simile e difficilmente separabile se non con esame attento del disegno nero all’apice, è Pieris mannii, che vive in luoghi rocciosi o dirupi dove la larva trova le sue crucifere selvatiche preferite come l’Iberis e la senape. Forse la più elegante, grazie alla bella colorazione giallastra che segue le venature dell’ala posteriore, è il pieride del navone, o Pieris napi, la cui larva vive principalmente su crucifere selvatiche e il cui maschio adulto è dotato di un gradevole e inconfondibile profumo di limonina, un’erba medicinale che fu importata in Europa dal sud America qualche secolo fa, che la rende unica. Ricordo distintamente la mia scoperta del profumo di limonina che altro non è che un feromone maschile a base di citral percepibile anche dall’olfatto umano. Avevo una decina d’anni e stavo sui dossi boscosi della Rovella con il mio retino in compagnia dell’amico Piscopo quando una farfalla bianca mi sfiorò con il suo “volo vagabondo”. La catturai facilmente e cominciai ad esaminarla per identificare la specie usando il nostro manualetto da campo, lo stimato “Martello”. Piscopo a tutta prima ritenne trattarsi di cavolaia minore, ma un piacevolissimo profumo simile alla limonina mi giunse alla narici. Non lo avevo mai sentito e di certo non ci stava con la diagnosi di cavolaia minore ma dell’altra specie simile, ovvero il pieride del navone. Sebbene nessun testo a nostra disposizione ne parlasse, questa esperienza ci permise di identificare un metodo rapido e preciso di diagnosi di specie, un metodo che usammo negli anni.

 

Le cavolaie ebbero un posto notevole nella nostra giovanile ricerca delle farfalle. Erano infatti ovunque e facili da raggiungere, così come semplice era l’allevamento delle larve. Bastava entrare in un orticello ove si coltivavano cavoli e rape per trovare facilmente uova e larve. A volte si stava appollaiati come avvoltoi su qualche rudimentale staccionata ai bordi dell’orto in attesa di vedere qualche bianca farfalla in volo: la femmina saltellava su di una piantina, poi si sollevava rapida e svolazzava sino alla successiva, e così di seguito continuamente, senza sosta. Avvicinandoci alla piantina su cui era rimasta un po’ più a lungo, finivamo per scorgere le piccole uova chiare deposte sulle foglie dei familiari ortaggi. Raccogliendo tali foglie con le uova appiccicate, si assisteva dopo pochi giorni alla nascita di microlarve che ben presto, se nutrite con foglie adeguate, iniziavano a crescere visibilmente, giorno dopo giorno, diventando verdi come le foglie stesse di cavolo e mimetizzandosi lungo le sue venature tanto da rendersi invisibili.

 

Questo processo di allevamento fu il primo che tentai a casa mia quando avevo una decina d’anni. Vedere poi la crisalide “emergere” dalle spoglie del bruco e ben fissata ad un supporto tramite due sottili fili di seta al torace ed uno più spesso all’apice dell’addome, e ammirare infine l’adulto, fuoriuscire umidiccio dalla crisalide e stendere le ali erano fonte di grande gioia e di meraviglia. La metamorfosi era completa. Così, grazie alle cavolaie, imparai tutto di questo affascinante processo che stupisce chi non abbia famigliarità con il mondo degli insetti.

Spesso a Vallemosso, si cercavano le crisalidi già formate lungo il parapetto in metallo della strada che saliva a Cascina Venalba nei pressi del cimitero. Giallognole o verdastre, se ne trovavano parecchie, segno che le farfalle erano, a quei tempi, davvero numerose. Occorreva staccare le crisalidi con prudenza per portarle a casa e vedere nascere gli adulti che poi rilasciavamo con piacere, visto che a nessuno interessava imbalsamare le cavolaie.

 

Un giorno d’estate, si stava con Piscopo ed alcuni altri ragazzini proprio sulle scale in granito che conducevano all’ingresso del cimitero. Lì vicino era quella ringhiera in metallo appese alla quale trovavamo le crisalidi di cavolaie. Quel giorno, invece, scorgemmo un bruco maturo intento a cercare un anfratto adeguato ove appendersi e incrisalidarsi. Piscopo, che era un ragazzino magrolino e svelto, ebbe un’idea poco ortodossa. Da qualche tempo mi stava addosso chiedendomi insistentemente di scambiare una rara ipparchia che avevo catturato pochi giorni prima. Al mio nuovo declinare l’invito, mi minacciò con frasi maligne: sollevò delicatamente il bruco di cavolaia afferrandolo tra il pollice e l’indice, lo mise sullo scalino in pietra, pose delle foglie di lattuga selvatica a un metro di distanza, e mi diede l’ultimatum: o cedere la rara ipparchia oppure, quando il bruco avesse raggiunto la lattuga, lui avrebbe ottenuto la ipparchia in un modo o nell’altro. Gli altri amici che stavano lì si divertirono un mondo a vedere questo bruco che avanzava lento e zigzagante verso la lattuga. Tifavano per lui e lo incitavano a muoversi veloce: “dài, forza!”, intimavano, chiedendosi che cosa sarebbe successo nel momento in cui la lattuga sarebbe stata raggiunta. Io, intanto, non potevo far altro che attendere che il bruco raggiungesse la lattuga e, approfittando della prevedibile confusione del momento, darmela a gambe essendo assai più veloce di Piscopo. Quando la verde larva giunse nei pressi dell’ambito cibo, io mi allontanai lesto ma Piscopo mi richiamò ridendo a crepapelle e rivelando che si trattava solo di uno scherzo ispirato da un recente racconto a fumetti letto su Topolino. Si sapeva che Piscopo era un lettore appassionato di “fumetti disneyani” e non mancava mai di citare frasi e espressioni di quei personaggi fantastici che riempivano le nostre giornate in quei tempi lontani. Il bruco di cavolaia, intanto, fu riportato nei pressi della ringhiera e poté così incrisalidarsi in tutta pace assumendo quel colore “di marmo e muro che lo sguardo che le fissa non le vede”, come dice Gozzano. Dopo due settimane, ne emerse una modesta e umile cavolaia che, cercando un partner per accoppiarsi, perpetuò la specie riattivando quel ciclo di metamorfosi così temuto dai contadini.

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