L’ambiguità dell’impresa sociale

27 Novembre 2013

Crisi economica. Crisi ambientale. Crisi politica. Crisi morale. Crisi sociale. Per citare una canzone di Bugo di qualche anno fa “lo vedo nei visi, ovunque c’è crisi”. E non staremo qui a parlare delle cause, per una volta, bensì di chi propone un rimedio. A dire la verità non sono molti, purtroppo, quelli che hanno l’audacia di vantare una possibile soluzione: la classe politica pare strozzata da un meccanismo che non lascia spazio a movimento alcuno, i movimenti sociali protestano e dimostrano ma raramente riescono ad avere un impatto tangibile o a articolare plausibili paradigmi alternativi; e i singoli individui si disperano o, raramente, sognano, davanti a uno spritz. In questo clima la tonalità emotiva dominante è una specie di nostalgia del futuro che fu, amara e romantica al tempo stesso (ma più amara).

 

E poi ci sono i cosiddetti imprenditori o innovatori “sociali” che sempre più spesso si chiamano appunto “changemaker”. Loro dicono di avere delle idee su come cambiare la società, su come risolvere una serie di problemi ormai considerati da molti quasi irrisolvibili. Il sito di The Hub (il co-working  dedicato all’innovazione sociale) recita: “change the world… you are invited” o “another world is happening”. E Ashoka (una delle più importanti organizzazioni del settore) definisce gli imprenditori sociali come “uomini e donne con soluzioni per cambiare il sistema e risolvere i più urgenti problemi del mondo”.

 

Ad oggi i changemaker sono tra i pochissimi che dichiarano di sapere come fare a migliorare le cose, proponendosi come attori fondamentali del cambiamento. Si potrebbe dunque analizzarli come partecipi di una dimensione politica, dove per dimensione politica si intende, con Foucault,  “l’analisi quel che ha a che fare con ciò che vogliamo […] accettare, rifiutare o cambiare, sia in noi stessi che in ciò che ci circonda” (The Power of Truth).

 

Se prendiamo sul serio questa ipotesi, e consideriamo i changemaker come un soggetto (anche) politico, allora ci dobbiamo chiedere cosa succede quando a “cambiare il mondo” dovrebbe pensarci una rete di imprenditori che applica tecniche manageriali alla risoluzione dei problemi sociali.

 

Il pericolo evidente è che l’uso di strumenti imprenditoriali porti di fatto a una sussunzione della sfera sociale entro quella economica. Si tratterebbe quindi di un’opera di imprenditorializzazione del sociale, in cui si nega una visione articolata e d’insieme, si sottrae significato alla politica, e si lascia al libero arbitrio del singolo la responsabilità di agire, e ai meccanismi del mercato il compito di decidere se tale azione funziona o meno.
Per evitare questa deriva, occorre pensare che i mezzi imprenditoriali siano separati (e separabili) dall’etica del profitto e che vengano ri-territorializzati dalla società civile. Si deve quindi poter pensare al meccanismo che regola il mercato come a un sistema neutro, che può essere adoperato per scopi diversi da quello dell’arricchimento personale (questo punto è approfondito nell’articolo Fare Sociale).

 

Inoltre, si deve poter pensare all’imprenditore non come a un soggetto atomizzato, privo di solidarietà sociale e costretto a un rapporto di costante competizione con gli altri, bensì come a un soggetto etico che, in modo indipendente e economicamente sostenibile, decide di agire per il benessere comune.
In un certo senso si tratta di superare il paradosso indicato da pensatori come Maurizio Lazzarato e Louis McNay che, partendo dall’analisi foucaultiana dell’imprenditore di se stesso, stabiliscono che dal momento in cui l’autonomia dell’individuo si esplica nel partecipare all’economia d’impresa, allora non vi è spazio per una reale opposizione politica, e dunque per un’etica che veda il sociale non come composto di individui in competizione tra loro, ma come un insieme solidale di persone che collaborano per il bene comune.

 

Eppure gli imprenditori sociali, sebbene usino tecniche di marketing e di business, e sebbene si confrontino con i meccanismi e i valori del mercato, tentano di agire per il benessere pubblico. Ci sono imprese sociali che danno lavoro a donne detenute (Made in Carcere), altre che si occupano di migliorare lo stato degli spazi pubblici (Make:good), altre ancora che cercano di ridurre lo spreco nella catena di distribuzione alimentare (Last Minute Market).
Inoltre, le narrative di impresa e innovazione sociale presentano le tecniche imprenditoriali non solo come affatto antitetiche al raggiungimento del bene comune, ma anzi come più efficienti dell’agire politico “tradizionale”.

 

Alex Nicholls, nel prologo alla colllezione di saggi  Social Entrepreneurship New Models of Sustainable Social Change - che ospita contributi di personaggi di spicco come Jeff Skoll (fondatore della Skoll Foundation) e Bill Drayton (fondatore di Ashoka) -  dichiara che gli sforzi dei governi e delle istituzioni si sono rivelati insufficienti per risolvere le questioni sociali e ambientali che affliggono il pianeta, e dunque la nostra speranza risiede in individui altamente motivati e dotati degli strumenti per combattere i “trend distruttivi”, strumenti imprenditoriali.

 

Questa idea non è di per sé nuovissima. Uno dei primi a proporla fu Peter Drucker, guru del manager, che nel suo famoso libro Innovation and Entrepreneurship, pubblicato nel 1985, scrisse che tramite impresa e innovazione si sarebbero potuti raggiungere gli ideali di democrazia e libertà che la rivoluzione si era dimostrata incapace di ottenere.
Charles Leadbeater, consigliere del governo Blair, riprende il discorso negli anni 90, e nel saggio The rise of the Social Entrepreneur sostiene che agli imprenditori sociali spetti il compito di rinnovare l’ormai obsoleto sistema di welfare, e di trovare forme di coesione e solidarietà adeguate a una società postmoderna sempre più fluida e individualista.

 

Sembra dunque che l’imprenditore di se stesso, laddove diventi “sociale”, agisca anche per gli altri, dando luogo a una sorta di cooperazionismo individualista. Ponendosi quindi nel nucleo della contraddizione tra interessi individuali e collettivi, tra neoliberalismo e socialdemocrazia. Come si può pensare questo paradosso, come si può abitarlo?

 

Innanzi tutto esso affonda le radici nel particolare momento storico in cui viviamo.
Infatti,  che la responsabilità e il potere di agire nella società per cambiarla in positivo siano affidati a singoli individui anziché a istituzioni, e che i mezzi suggeriti siano imprenditoriali anziché squisitamente politici, non sorprende poi molto. Il fenomeno di depoliticizzazione della sfera pubblica è ben conosciuto, così come il senso di fallimento che spesso caratterizza le azioni dei movimenti sociali. Inoltre, considerando i tagli alla spesa pubblica che percorrono le politiche dei governi di tutta Europa, pare quasi necessario che tocchi ai singoli cittadini “inventarsi” delle soluzioni.  
… Di necessità virtù?

 

In qualche modo sì. Ed è interessante esplorare di che “virtù” si tratta.
Un primo segno distintivo può essere individuato nel fatto che essa si esprime per mezzo di una professione. Nell’imprenditore sociale la passione dell’attivista politico si esprime infatti attraverso tecniche di business e management, occupando così la sfera del lavoro. E la tendenza verso la politicizzazione del lavoro è tipica del cosiddetto lavoro immateriale, specie nelle industrie creative, dove ciò che viene messo a valore sono proprio i talenti e le passioni delle persone, la loro identità di singoli.

 

Paolo Virno, ne La Grammatica della Moltitudine sostiene che il lavoratore della conoscenza si trova di fatto in una condizione che replica i caratteri della politica poiché esercita la propria professione in presenza di un pubblico, ha a che fare con la qualità performativa del linguaggio, e con la progettazione del futuro.
Gli imprenditori sociali sembrano rappresentare il picco di questa tendenza, poiché mirano esplicitamente a agire nell’organizzazione della società, ottenendo il favore dell’opinione pubblica, e facendosi portavoce di una versione di futuro possibile. Essi si muovono in uno spazio di imprevedibilità, sia poiché sperimentatori di un nuovo tipo di “fare sociale” e sia in quanto imprenditori. L’imprenditore infatti, come scrive Frank Knight in Risk Uncertainty and Profit, pubblicato nel 1921, abita uno spazio di incertezza per definizione, che si distingue poiché eccede il dominio del misurabile e del prevedibile. Condizione non dissimile da quella che Hannah Arendt attribuisce alla politica, quando ne la Vita Activa la descrive come “l’esperienza di cominciare sempre qualcosa di nuovo”.

 

Imprenditoria e politica possono dunque occupare lo stesso spazio ontologico di incertezza e tensione verso il futuro. Ma fino a ora almeno all’imprenditoria non si affidava un progetto sociale, e nemmeno l’espressione sistematica di certe virtù etiche.
L’imprenditore sociale invece si definisce come soggetto etico. Esso afferma di usare tecniche imprenditoriali per veicolare, esprimere e attualizzare i propri valori e le proprie virtù. In questo senso, forse, non dà luogo a un mero simulacro della politica (come Virno ritiene faccia il lavoro materiale) bensì indica la possibilità di una sua diversa forma.
Tale forma, che abbiamo chiamato cooperativismo individualista, si articolerebbe intorno all’idea che l’individuo sviluppi un carattere virtuoso, e poi lo applichi, lo oggettivizzi, per mezzo delle tecniche di impresa sociale. Il paradosso tra cooperazione e individualismo viene quindi superato dal costituirsi di un individuo intrinsecamente virtuoso, i cui valori siano quelli del bene comune e del rispetto dell’ambiente e dell’altro.

 

Tuttavia l’imprenditore sociale per costituirsi come soggetto politico dovrà riuscire a reclamare e agire un uso diverso del capitale, che miri a una più equa redistribuzione delle risorse, e vada a investire in aziende che praticano una forma etica di impresa. Il dibattito su impact value e impact investment esplora proprio queste possibilità, senza per ora aver dato molte risposte. La sfida è quella di trovare una concezione e una misura del valore che vadano oltre il mero accumulo di ricchezza.

 

Come si vede, le tensioni, le contraddizioni e gli ostacoli sono molti, e illuminano la posizione ambigua che l’impresa sociale occupa rispetto alla politica economica neoliberale: essa ne è immersa, ma allo stesso tempo cerca di aprire spazi di ridefinizione del valore etico e economico. E forse è proprio questa pretesa di trasvalutazione dei valori a rendere il fenomeno così complesso e interessante.

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