Fare sociale

3 Luglio 2013

Da qualche anno a questa parte anche in Italia si parla molto di impresa e innovazione sociale, e il proliferare di eventi come il WIS (workshop sull’impresa sociale) promosso da Iris Network, o di luoghi come The Hub – presente adesso in cinque città italiane (Rovereto, Milano, Roma, Firenze e Bari) - oltreché di iniziative come Che Fare e piattaforme tipo Che Futuro, ci suggerisce che siamo di fronte a un fenomeno crescente, e sempre più rilevante.

Ma di che fenomeno si tratta? Accademici e professionisti, manager e artisti, giornalisti e comunicatori, radical-chic e business guru, paiono affannarsi per cercare una risposta. Risposta che spesso prende la forma di una definizione. E quasi tutti, mentre definiscono, affermano che in fondo non si può definire. Il topos dell’ineffabilità colpisce ancora. E non è difficile capire perché: impresa e innovazione sociale può voler dire CSR (compagnie petrolifere che investono in piste ciclabili), green economy (più pannelli solari per tutti), open source production (da Linux in poi), cooperative di tipo A e B, iniziative di micro-economia sostenibile (piccole comunità autosufficienti), agenzie di quel che viene definito behavioural change (usare il marketing per far sì che la gente si comporti meglio), imprese che forniscono servizi di welfare (in realtà molti ospedali o asili sono oggi, tecnicamente, imprese sociali) e progetti di finanza e finanziamento alternativi (si pensi alla Grameen Bank o al crowdfunding).

 

 

Il problema con l’opera di definizione è che il termine “impresa sociale” non si riferisce tanto a uno status legale preciso - per quanto vari paesi europei abbiano varato una legge a riguardo - e neppure a uno specifico settore – in effetti cosa avranno mai in comune le cooperative d’inserimento al lavoro con la Silicon Valley?! – quanto a un’idea. E l’idea, in fondo, è semplice: tramite l’utilizzo di mezzi imprenditoriali si può migliorare la società. Se la prendiamo sul serio, per analizzarla nella sua forma pura, non dobbiamo accontentarci di pensare a un’impresa che stia attenta ai propri effetti collaterali, e neppure che investa parte dei propri profitti in opere benefiche o di sviluppo. Inoltre, non ci basterà stabilire che forma legale abbia, e che tipo di prodotto e/o servizio venda (per quanto di tutte queste variabili si debba tener conto). Il nostro intento diventerà anzi riuscire a concepire l’impresa come mezzo di organizzazione, gestione e miglioramento del tessuto sociale.

È questa, a ben vedere, una delle sfide più importanti del movimento d’impresa e innovazione sociale, che di solito però è data quasi per scontata. Le narrative al riguardo si limitano semplicemente ad affermare il nesso tra la forma dell’impresa e la risoluzione di problemi sociali, spesso impiegando il tono enfatico di chi invoca un imminente successo. Per esempio, Fayolle e Matlay, curatori di una recente e ben fatta antologia sul tema (Handbook of Research on Social Entrepreneurship), sostengono che l’impresa possa essere non solo una fonte di valore economico, ma anche e soprattutto la via per realizzare più giustizia sociale. Gregory Dees, autore di The Meaning of Social Entrepreneurship (articolo che è diventato quasi un manifesto) afferma che gli imprenditori sociali sono necessari per sviluppare “modelli nuovi per il nuovo secolo”. Infine Ashoka - una delle organizzazioni più grandi e importanti del settore – ha come missione quella di creare un mondo in cui i cittadini siano tutti imprenditori sociali, e cioè si occupino in prima persona di risolvere i problemi, anziché delegarli all’azione dei governi o dell’industria.

Tralasciando qui la natura iperbolica di tali discorsi – da ascriversi probabilmente all’uso dilagante del linguaggio promozionale così come alla necessità dei nuovi movimenti di imporsi con forza – ciò che emerge è proprio il consolidarsi dell’idea di impresa come soluzione, e dell’imprenditore sociale come qualcuno che finalmente può risolvere quei problemi che né governi né industrie sono riusciti a risolvere fino a ora. Migliorare la società diventa dunque una professione indipendente, e non quella del politico, mentre la passione del cambiamento si traduce in un approccio manageriale ben lontano dalla radicalità dell’attivista.

L’idea di impresa sociale è figlia di un contesto in cui il lavoro è sempre più autogestito, e in cui gli individui non si sentono rappresentati dagli organismi politici tradizionali (partiti, sindacati ecc.). In questo senso possiamo interpretare la figura dell’imprenditore sociale come un lavoratore della conoscenza che, non essendo impiegabile dalle aziende, si “inventa” il suo lavoro, e con esso non desidera solo uno stipendio, ma vuole anche fare qualcosa di buono per la società, un po’ perché è in media bene educato e eticamente ricettivo, e un po’ perché dubita che qualcuno possa farlo al posto suo, e teme che stia diventando troppo tardi per poter permettersi di aspettare ancora.
Questo tipo di persona, se vuol “cambiare il mondo”, difficilmente si iscriverà a un partito e di rado potrà sentirsi rappresentato a pieno dalle forme tradizionali dei movimenti. Ecco che i mezzi imprenditoriali si configurano come idonei, poiché promettono immediata realizzazione, e una certa misurabilità degli effetti, coniugando così i residui di una visione utopico-ideologica in cui un solo individuo può “fare la differenza”, all’attitudine pragmatica del cittadino postmoderno (spesso un cinico-romantico, sofferente di trovarsi tratto proprio in questo paradosso).

 



Certo è che i mezzi imprenditoriali sono stati - fino a questo momento almeno - l’arma principale dell’homo oeconomicus inteso come individuo che persegue il suo interesse – il profitto – indipendentemente, e in competizione con gli altri. La dinamica imprenditoriale infatti si basa su quel che Foucault, nella Nascita della Biopolitica, chiama il “gioco formale di ineguaglianze” e cioè proprio la competitività. Una società competitiva si articola intorno al presupposto che ogni cittadino debba avere la possibilità, l’opportunità, di agire nella sua sfera d’influenza come meglio crede, in altri termini di “pensare a se stesso”, sia in quanto responsabile di sé, sia poiché libero di sperimentare la condotta che meglio gli si confà (nel rispetto della legge, naturalmente). Secondo questa linea di pensiero, che poi è quella neo-liberale, il benessere comune coincide con la somma del benessere individuale. L’impresa in quest’ottica diventa la forma di costruzione di una società competitiva e individualista, in cui il bene comune come tale resta invisibile.

Come si vede però, non è questa la visione degli imprenditori e innovatori sociali contemporanei: si parla di giustizia, eguaglianza, redistribuzione equa delle risorse, rispetto per l’ambiente. Il discorso politico proposto, per quanto ancora in nuce, si snoda intorno all’idea del bene comune e della cooperazione, esattamente il contrario di competizione e massimizzazione del profitto.
Che cosa implica dunque questa controversa coesistenza di imprenditorialità e impegno sociale? Ed ecco che torniamo alla nostra domanda di origine: come si può pensare una impresa sociale?

 



Per pensare l’impresa come forma di organizzazione e miglioramento della società, come forma, in un certo senso, di un agire politico (diretto alla cosa pubblica, alla polis) bisogna operare una profonda ridefinizione del concetto stesso di impresa e di conseguenza di mercato ed economia. L’impresa diventa allora niente più di una tecnica efficace, una metodologia di azione, una techne. In quanto tale è replicabile su larga scala e insegnabile, il che vuol dire che tutti potenzialmente potrebbero farne uso (necessaria premessa della visione ideale di un mondo migliore perché popolato di imprenditori sociali). Da questo punto di vista si tratta di un movimento di democratizzazione e formalizzazione dello spirito imprenditoriale, quello che Joseph Schumpeter, economista austriaco del primo novecento, chiamò l’Unternehmergeist.

Un movimento siffatto ha implicazioni molto profonde sul nostro regime di verità circa etica ed economia, poiché stabilisce che i meccanismi del mercato – usati per lo più per accumulare profitto – siano in realtà eticamente neutrali, e dunque possano essere dispiegati per il raggiungimento di ben altri fini. In tal modo l’impresa, e dunque un certo tipo di economia e di mercato, vengono concepiti non come antitetici a un comportamento etico ma anzi come strumentali per il suo concreto attualizzarsi. In gioco c’è il tentativo (pericoloso?) di costruire un’economia etica, se non addirittura di fare dell’economia uno strumento dell’etica, in quel che sarebbe un epocale ribaltamento della politica neoliberale.  D’altro canto c’è da stare attenti, perché stabilire che i mezzi imprenditoriali siano eticamente neutri è problematico per vari motivi e solleva alcune cruciali domande. Per esempio: esiste qualcosa come uno “strumento neutro”? Che tipo di etica è quella perseguibile con sistemi imprenditoriali? In che misura la “socializzazione” dell’impresa comporta l’imprenditorializzazione della società? La questione è ambigua; occorre quindi sviluppare un pensiero critico in grado di abitarne, e spiegarne, le molte tensioni.

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