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Tempo di libri - maestri / Henri Cartier–Bresson

9 Marzo 2018

Per contribuire a un momento d’incontro, approfondimento e scambio come Tempo di Libri, la fiera del libro che si terrà a Milano dall'8 al 12 marzo, non abbiamo solo creato uno speciale doppiozero | Tempo di Libri dove raccogliere materiale e contenuti in dialogo con quanto avverrà nei cinque giorni della fiera, ma abbiamo pensato di organizzare dieci incontri: maestri che parlano di maestri. Sabato 10 marzo, alle ore 11.00, Ferdinando Scianna parlerà di Henri Cartier–Bresson.

 

Se penso a una definizione di Henri Cartier–Bresson, la più adatta mi sembra quella di specialista in evasioni. Non c’è prigione, fisica o intellettuale, nella quale abbiano cercato di rinchiuderlo dalla quale non sia riuscito a fuggire. Anche dal campo nazista nel quale era prigioniero evase. Lo ripresero due volte; alla terza riuscì.

Un paio di settimane fa ha compiuto novant’anni. Anche questo anniversario, complicato da una celebrità che da oltre mezzo secolo lo accompagna come leggenda vivente della fotografia, lo vive come una prigione e si dibatte in cerca di vie di fuga. Che cosa diavolo significa, si chiede, un compleanno? Si muore e si rinasce ogni giorno.

 

Alle centinaia di amici, conoscenti, illustri sconosciuti che lo hanno inondato di fax, telegrammi, regali, risponde che era troppo giovane per ricordarsi della sua nascita e ricambia gli auguri per i loro compleanni prossimi venturi. L’unica cosa che sa, mi racconta divertito, è che lui è nato nove mesi dopo, esattamente, che i suoi genitori, in viaggio di nozze, si ristoravano all’hotel Villa Igiea di Palermo, dopo una tempestosa traversata sul postale da Napoli. L’importante, dice, è dove è avvenuto l’atto d’amore con cui sei stato concepito, non dove il caso ti ha fatto atterrare. Quindi, conclude, sono siciliano, come te.

Bisogna essere riconoscente alle persone, dice. Lo è, come è compiaciuto delle grandi mostre omaggio che le più importanti istituzioni culturali del mondo gli stanno consacrando, degli articoli che sui grandi giornali celebrano l’anniversario, ma il suo spirito libertario sente odore di trappola. Anche la celebrità l’ha sempre vissuta come una trappola. Doisneau diceva che bisogna starci attenti: rischi di crederci e di farti un testone gonfio come un pallone. Sono tutte idiozie: la storia è piena di gente totalmente ignorata che trenta, quarant’anni dopo la morte viene riscoperta come grande e di pompose glorie in vita che si sgonfiano poi nel più meritato oblio. Ognuno deve cercare di fare quello che può e, soprattutto, bisogna mettersi continuamente in discussione.

 

Cartier–Bresson non è certo un tipo calmo. Il suo nervosismo, le sue collere sono leggendari. Con questa storia del compleanno lo trovo naturalmente in grande fibrillazione nella sua casa di Provenza dove ha accettato di farsi intervistare per la radio italiana. Per quanto tra noi non ci sia altro che un piccolo registratore che cerchiamo entrambi di dimenticare, sono piuttosto preoccupato. Negli oltre vent’anni della nostra amicizia mi è molte volte accaduto di scrivere su di lui, qualche volta su sua richiesta. Abbiamo avuto numerosissime, lunghe conversazioni; ma un’intervista, di quella con le domande e le risposte tra virgolette, mai. So che è praticamente impossibile intervistare Cartier–Bresson. Lui non ha, grazie al cielo, nessuna disciplina da intervistato, né io autorità da intervistatore. Le dichiarazioni tra virgolette, poi, gli sembrano una mostruosità: impediscono di contraddirsi.

 

Non perché dica cose contraddittorie, ma perché contraddittoria, afferma, è la sua natura. Le certezze gli sembrano roba da fondamentalisti giudaico–cristiani, o islamici, o, ancora peggio, da preti del fondamentalismo che oggi ci governa, quello della tecnoscienza, delle multinazionali. Il mondo del sì e del no, esclusivamente governato dal denaro e dall’efficacia, che gli fa orrore e secondo lui sta conducendo l’umanità alla rovina. E dire che un fisico amico mio, racconta, mi ha spiegato che la fisica dei quanti rivela che nella natura c’è anche il forse. In Normandia, la gente del popolo non dà mai risposte categoriche a nessuna domanda: può darsi che sì, può darsi che no. È per questo, rivendica, che sono anarchico, ma meglio dire libertario non violento, altrimenti arriva la polizia. Anarchico, per la gente, vuol dire bombe e rapine. Per me è un’etica, una maniera di comportarsi, la paura del potere, di ogni potere. Come il suo Buddismo, scoperto oltre mezzo secolo fa in India, prima di tutte le recenti mode occidentali, e che ancora cerca e segue.

 

Perché non c’è Dio nel Buddismo, dice: una parcella dello spirito è in ciascuna creatura. Per quanto, anche rispetto al Buddismo, mi sembra piuttosto eretico. Quando gli parlo delle mie resistenze all’idea di reincarnazione replica che neanche lui ci ha mai creduto un momento: la reincarnazione, ha detto al suo maestro, è quello che ci succede tra le gambe.

È inafferrabile HCB, come il mercurio, metallo liquido. A volerlo costringere, acchiappare, immediatamente si frammenta in mille goccioline per subito ricomporsi in un’apparenza compatta. Colpisce il suo sguardo mobilissimo, gli occhi di colore azzurro screziato, da pietra dura. Impressiona, quasi spaventa, la sua gioventù, malgrado il bastone cui un problema al ginocchio ora lo costringe. La celebre nervosità, che secondo lui spiega la sua riuscita come fotografo, il miracolo della rigorosa organizzazione formale nella prodigiosa fulmineità in cui è colta, sospesa dal flusso ininterrotto della vita, è perfettamente intatta. Sostiene di non sentirsi pienamente responsabile delle sue fotografie, di avere il sentimento che gli siano state donate.

Yves Bonnefoy, in un penetrante saggio, fa rispecchiare la nervosità di Cartier–Bresson in una altrettanto grande calma: l’intuizione, la rapidità serena si apparentano straordinariamente con la “disponibilità” spirituale del monaco zen.

 

Non bisogna volere nulla, dice HCB, mentre si fanno le fotografie, bisogna dimenticarsi, scomparire per essere integrati. Ma questo implica un processo complesso: significa molto pensare, molto osservare, apprendere, partecipare fino a fondersi con la vita, prima e dopo l’atto fulmineo del prendere–essere presi dall’immagine nella sua conclusa perfezione. La fotografia “cosa mentale”.

Generazioni di fotografi hanno dovuto fare i conti con la sua celebre definizione: “Fotografare significa, nello stesso istante e in una frazione di secondo, riconoscere un fatto e l’organizzazione rigorosa delle forme visualmente percepite che esprimono e significano questo fatto. Vuol dire mettere sulla stessa linea di mira la mente, l’occhio e il cuore”.

La scrittura di Cartier–Bresson – che comincia con il testo che nel 1952 Tériade lo costrinse a stendere per introdurre le foto di Images à la sauvette e a cui appartiene la celebre definizione – deve il gusto della formula sferica, aforistica, poi più volte splendidamente praticata, alla forte influenza dei suoi amici surrealisti e alle lunghe frequentazioni della prosa di Saint–Simon, dei memorialisti del Settecento non meno che di Stendhal.

 

Molti fotografi hanno finito col sentire questa dichiarazione di poetica come una camicia di forza per loro. Come se io, dice Cartier–Bresson, avessi voluto dettare regole a chicchessia. Questo è il sistema di norme che io liberamente impongo a me stesso, le sole che sono disposto ad accettare, senza le quali, tuttavia, non si può esercitare alcuna libertà.

Il fatto è che, a volerla utilizzare lucidamente e coraggiosamente soprattutto verso se stessi, quella formula si rivela un affilatissimo strumento di giudizio critico.

La mente, l’occhio e il cuore sulla stessa linea di mira!

Quanta fotografia concettuale vive di ipertrofia del discorso mentale: ma dov’è il senso della forma, dove l’emozione?

 

E quante ricerche di belle forme soffrono di asfissia da mancanza di giudizio e inesistente partecipazione emozionale?

Che cosa rende tante immagini di propaganda ideologica o di privata testimonianza emotiva, retoriche o mielosamente sentimentali se non l’assenza di intelligenza delle cose o di forza espressiva della visione, della forma estetica? 

È molto più facile ribellarsi a questa difficile disciplina che cercare di raccoglierne la triplice sfida etica, mentale ed estetica.

 

Per cinquant’anni Henri Cartier–Bresson ha fatto fotografie, ma sostiene di non sapere nulla di fotografia. Dopo la guerra, nel 1947, nella caffetteria del MoMA di New York, insieme a Robert Capa, Chim Seymour, George Rodger, William Vandivert ha fondato la Magnum, l’agenzia che ancora oggi cerca di vivere, tra le lacerazioni di un mondo molto cambiato, lo spirito dei fondatori. Henri mi indica commosso, davanti a una statua del Buddha, un’enorme corbeille di rose inondate dal sole: hai visto?, da Magnum mi hanno mandato novanta rose bianche, novanta. Ho detto che lo considero un omaggio allo spirito di indipendenza che ancora li anima.

Dalla fondazione di Magnum HCB è stato anche reporter, presente ad alcuni fra i più grandi avvenimenti della storia del secolo, dall’apertura dei campi di concentramento nazisti al disgelo dell’Urss, dall’arrivo dei comunisti a Pechino alla morte di Gandhi. Ma lui sostiene di non avere mai avuto idee né spirito giornalistici. Era Capa che mi suggeriva che cosa fare e dove andare, dice con candore. Del resto, la vicenda di questo secolo Henri l’ha raccontata sia sul teatro dei grandi avvenimenti storici sia nella quotidianità della vita delle persone anonime, ovunque abbia vissuto più che viaggiato, nella campagna francese come a New York, in Cina, in Messico, a Scanno, in India, in Svizzera o nella sua Parigi.

Ci sono fotografi che devono la loro magari meritata fama ad alcuni fiori coltivati in un giardinetto. Cartier–Bresson ha fotografato l’Oriente e l’Occidente, i contadini e gli operai, la città e la campagna, i ricchi borghesi e i disperati del mondo. Nella sterminata galleria dei suoi ritratti, gli umili e i famosi vengono accostati con lo stesso rispetto e la stessa attenzione umana. Ma non ci sono politici: gente, dice, misteriosamente interessata al potere. Ha affrontato la foresta del secolo, su tutto posando il suo sguardo lucido e partecipe, infallibilmente sostenuto da un perfetto senso della forma. Uno sguardo che sa sospendere l’istante di vita senza mai ucciderlo: lo sguardo di Stendhal.

 

Per oltre quarant’anni, questa è stata la libera disciplina con cui ha vissuto. Ma HCB lo spirito della rivolta se lo porta dentro. La sua avventura esistenziale nasce all’insegna della rivolta. Primogenito di una grande famiglia borghese cattolica progressista, erede di una fortuna industriale – in Francia il nome Cartier–Bresson era sinonimo di industria tessile –, il giovane Henri dice no a questo destino sociale del quale non accetta le conseguenze di ingiustizia. Il padre gli spiega subito che non sarà un figlio di papà. Avrà un piccolo assegno che gli viene dalla sua rendita, nulla di più. Ho avuto fortuna, dice: se volevo portare al cinema una ragazza non dovevo fumare per settimane, ma quella piccola sicurezza mi ha evitato di essere costretto a lavorare in banca. La complicità di un sorvegliante del collegio di preti, dove non è mai riuscito a superare gli esami di licenza, gli aveva fatto scoprire scrittori come Rimbaud e Proust, l’amato Joyce, Freud e Romain Rolland, attraverso il quale ebbe il primo contatto intellettuale con l’induismo. L’atmosfera culturale in casa Cartier–Bresson era molto vivace, la madre lo portava a sentire Cortot, Thibaud, Casals e la musica da camera di cui è rimasto grande appassionato. Un suo mitico zio era un brillante pittore destinato a un grande avvenire se non fosse stato ucciso in guerra; suo padre disegnava molto bene.

 

Sin da ragazzo Henri sognava di diventare pittore. Dai diciassette anni comincia a frequentare le riunioni surrealiste di place Blanche. Poi, dopo un viaggio avventuroso in Africa – dove vive facendo il cacciatore e dal quale ritorna quasi morente, ma per sempre marcato da un disgusto contro le ferocie del colonialismo –, scopre la Leica, il piccolo apparecchio con cui diventa il perfetto interprete dell’azzardo obiettivo teorizzato dai surrealisti. I suoi risultati gli danno prestissimo una fama immensa, che non lo abbandonerà più. Ma è fin dagli inizi degli anni Sessanta che, interpretando la sua inquietudine, Tériade – il grande editore di Chagall, Matisse, Giacometti, Mirò e di Images à la sauvette, che Cartier–Bresson ha sempre considerato il suo guru – gli fa capire seccamente che ha già detto quello che aveva da dire con la fotografia. Hai sempre pensato alla pittura, lo stimola, cerca di andare più lontano con la pittura.

Dai primi anni Settanta, HCB smette definitivamente di fotografare e si consacra con umiltà e tenacia impressionante al disegno, cinque ore al giorno, tutti i giorni, davanti al motivo, umile allievo davanti ai molti amici pittori, Sam Szafran, George Eisler, Avigdor Arikha, che affettuosamente lo aiutano e severamente lo correggono. Riprende, insomma, il discorso, nella memoria religiosamente ammirativa del suo grande amico Alberto Giacometti, da dove lo aveva lasciato quando era scappato in Africa, mollando le lezioni di André Lhote, di cui non condivideva gli schematismi estetici.

Per me, dice, la fotografia è sempre stata una forma di disegno, un disegno immediato, intuitivo, fulmineo, qui e ora. In fondo, non esistono che l’istante e l’eternità. La fotografia è folgorazione, strappo sul vivo della vita, risposta fulminea a una domanda immediata. Il disegno è lentezza, meditazione, ripensamento, costruzione. Implica piena responsabilità. Io non mi sento responsabile delle mie fotografie. Ma se gli strumenti cambiano, il risultato è sempre un’immagine.

 

L’associazione dei suonatori di trombone, dice Henri, non era molto contenta che un suo associato si mettesse a suonare il clarinetto, e anche i clarinettisti non gradivano l’invasione di campo. È un fotografo famoso, che diavolo gli viene in mente di mettersi a disegnare? I fotografi, soprattutto, e amici anche, dicevano che sputavo nel piatto in cui avevo mangiato, che mi ero messo a disprezzare la fotografia. È stanco, non ha più voglia di correre in giro per il mondo, invecchia, del resto questi disegni non sono un granché. Tériade gli aveva profetizzato anche questo, che finché non avesse cominciato a venderli, i disegni, nessuno lo avrebbe preso sul serio. Henri pensava che avesse torto, che il suo scopo non era vendere, ma rimettersi in discussione. Però era vero, dice adesso, per quasi venticinque anni i miei disegni erano sì esposti in musei, magari assieme alle foto, ma la gente considerava che questa mia fosse una sorta di attività dilettantistica, che so, come se giocassi a golf. Adesso, ma è una cosa proprio recentissima, ho venduto disegni in due gallerie prestigiose come Claude Bernard a Parigi e Ernst Beyeler a Basilea, e così ho avuto la mia promozione sociale. Adesso cominciano a interessarsi un po’ seriamente al mio lavoro di disegnatore.

 

Insomma, gli è riuscita anche questa evasione.

Alberto Savinio ha scritto che l’uso, in Bach, del contrappunto e della fuga fanno della sua musica il miglior disinfettante estetico contro ogni inquinamento della retorica e dell’intellettualismo.

Penso la stessa cosa di Henri Cartier–Bresson: HCB, l’obiettivo ben temperato.

 

1998

 

Nota del novembre 2004

Recandomi di recente a Parigi per la bellissima serata organizzata in sua memoria dalla famiglia e dalla Fondation Cartier–Bresson, ricordavo le dediche sarcastiche che faceva sul frontespizio del suo ultimo libro: Di chi si tratta?

“De rien du tout”, scriveva nelle dediche con la grafia un po’ incerta degli ultimi tempi.

 

Tra la mia posta a Magnum, con grande emozione, ho trovato la copia con dedica proprio dell’edizione italiana del libro. Quella francese me l’aveva già data di persona. Lo racconto perché la firma era Henri Cartier–Presson. Presson, sbrighiamoci. E mi ha fatto pensare a come anche dell’uso del suo nome egli abbia fatto negli anni un gesto di espressione umana, intellettuale, ideologica persino. Ha cominciato con il firmarsi soltanto Cartier, come a sottolineare il distacco dalla famiglia, dal nome prestigioso di una dinastia industriale. La rottura con una condizione sociale e il segno di una scelta esistenziale e culturale. Poi, molte volte, Henri è diventato En rit, ne ride, come un fulmineo, sarcastico autoritratto. Altre volte il cognome veniva sintetizzato in Ca–Bré, arrabbiato, furioso, come così spesso era, intellettualmente e moralmente, nei confronti del mondo. Ogni tanto la firma era accompagnata dall’impronta inchiostrata del dito pollice, da fuorilegge del pensiero, specialista in evasioni. Fino a questo finale, sereno e impaziente Presson, sbrighiamoci!

 

Da Ferdinando Scianna, Visti&Scritti, contrasto.

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