L’ultima peste

29 Giugno 2011

Nel 1831 Schopenhauer lasciò Berlino fuggendo da un’epidemia di colera. Si rifugiò a Francoforte dove visse per il resto della vita. Fuggire da un luogo dove un’epidemia imperversava era allora ancora una delle poche strategie possibili; ancora sconosciute le cause di molte malattie, sconosciuta per la maggior parte delle persone l’esistenza dei microrganismi, Pasteur ancora da venire.

 

Nel 1929, un morbo oggi pressoché dimenticato come la difterite in Italia era ancora un flagello. In un piccolo paese sull’Appennino Tosco-Emiliano il mal del groppin – la riproduzione dei microrganismi nella laringe portava all’asfissia – causò in pochi mesi la morte di oltre 20 bambini. In quel paese annidato tra i monti la malattia era stata portata da Genova da due bambini e dalla loro madre fuggiti dall’epidemia e rifugiatisi nel paese d’origine. Un evento vissuto come una tragedia collettiva se, in tempi in cui era ancora alta la mortalità infantile, per decenni la celebrazione di una messa restò a testimonianza di quella strage. Un secolo dopo l’epidemia di colera che aveva colpito Berlino – e innumerevoli altre in ogni regione d’Europa – la fuga era ancora una difesa, spesso inefficace, nonostante la medicina conoscesse cosa fosse un’infezione, nonostante esistesse già la vaccinazione – non quella per la difterite, disponibile proprio dal ‘29 – ancora da venire i giorni in cui gli antibiotici avrebbero scritto un’altra storia rispetto alla paura delle malattie e al mondo dell’invisibile.

 

Immagini antiche. Eppure solo chi – nato nell’epoca delle vaccinazioni e degli antibiotici – ha giocato nell’infanzia con il microscopio, ha vissuto dell’invisibile il suo intrigante fascino e delle sue minacce solo gli aspetti più vaghi, solo queste generazioni hanno avvertito sulla pelle prima ancora che nella mente come ormai incomprensibili i racconti e l’esperienze degli anziani, esotiche anche nei nomi: l’asiatica, la spagnola

In complesso, si tratta di una larga fetta di umanità, ormai largamente maggioranza anche nei paesi ricchi come quelli europei dove la demografia disegna un’umanità invecchiata e dalla lontana memoria.

 

Ma cosa è stata allora la paura che nel maggio scorso e per qualche settimana è strisciata in tutta Europa affacciandosi anche nel nostro paese? L’imprevedibile ripresentarsi dell’atavico timore di una peste? La paura di una epidemia che sotto il nome di un particolare ceppo di Escherichia Coli ha risvegliato le incertezze dell’invisibile? Certamente l’Escherichia Coli, l’influenza aviaria del 2003-2004 o più indietro nel tempo il “morbo della mucca pazza” – la variante umana dell’encefalopatia spongiforme bovina – hanno minato le certezze di una medicina che nell’efficacia della scienza sentiamo essere a protezione dei nostri giorni. Inoltre, in tutti i casi il vettore delle malattie aveva origine in un alimento – la carne bovina per il morbo di Creutzfeldt-Jakob, quella di pollo per l’influenza aviaria, i cetrioli o alla fine i germogli di soia – che a torto o ragione veniva inevitabilmente “sporcato” nella nostra considerazione e spesso eliminato dalla dieta, anche per molto tempo.

 

Del resto, la paura che si sovrappone all’alimentazione e alle sue scelte è sempre qualcosa di profondo, qualcosa che ha a che fare con il nostro comportamento di onnivori e che nel pericolo ci fa dubitare di quell’ambiente che quotidianamente ingeriamo e che chiamiamo cibo.

Qualcosa di profondamente destabilizzante dunque ma l’origine di quella paura probabilmente deve essere stata anche altrove; certamente come non vederla nascosta nelle minacce dell’invisibile? Fossero virus, batteri o prioni le cause di quelle malattie, non riscoprivamo forse minacce antiche quanto dimenticate?

 

È come riconoscersi improvvisamente fragili di fronte ad un mondo ignoto, ad un pericolo che non riusciamo a vedere, qualcosa che antropologicamente resta forse vicino a quella paura dell’oscurità che ci ha fatto compagnia negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, spingendosi a volte fino ai giorni della maturità. Dunque la paura di qualcosa che non possiamo controllare, la paura di essere in balia di forze sconosciute in un modo di vivere – il nostro e tutto quello occidentale – in cui il tentativo di controllare ogni cosa è per contro uno dei tratti più evidenti.

Ma potrebbe esserci stato ancora dell’altro; del resto durante i giorni dell’epidemia di Escherichia Coli anche chi non ha avuto alcun timore ha comunque vissuto un senso di estraniamento, di disagio per una paura che era sì altrui, ma che in qualche modo sentiva condivisa.

C’è dunque qualche altro segno che si può vedere dietro le inquietudini dell’ultima epidemia, dell’ultima improbabile “peste”?

 

Certamente oggi, nel nostro come in ogni altro paese moderno, viviamo del male fisico una dimensione che è soprattutto individuale, dove nel corso della vita ognuno impara che gli accidenti nei quali si può incorrere sono soprattutto “individuali”: le più diffuse piaghe dei nostri giorni – malattie cardiovascolari e tumori, vere e proprie “epidemie” nei numeri – sono anche malattie del singolo, vuoi per predisposizione genetica o per stile di vita: l’ipertensione, il diabete, l’aterosclerosi, l’Alzheimer, il cancro sono eventi ai quali si va incontro da soli, nelle cause, nella malattia, nella più o meno difficile terapia. Siamo circondati da malattie dell’io, per quanti grandi siano i numeri è sempre l’individuo la causa e il rimedio del problema, l’individuo l’inizio e la fine.

 

L’uomo della folla è un racconto di Edgar Allan Poe pubblicato per la prima volta nel 1840; un racconto dove non c’è niente che rimandi al terrore o al soprannaturale di cui in letteratura Poe è stato antesignano. Scritto in prima persona L’uomo della folla racconta di una notte e un giorno interi spesi ad inseguire uno sconosciuto intravisto da una vetrina di un caffè di Londra: “Un vecchio di sessantacinque o settant’anni attirò la mia attenzione, per l’assoluta singolarità della sua espressione”. Quell’individuo è seguito in ogni luogo della città, sempre in mezzo ad una folla mutevole per l’ora e per le zone attraversate in un cammino – ora lentamente ora a passo convulso –senza nessuna meta se non il bisogno di essere in mezzo alla folla, essere parte della folla.

L’inseguimento non porta a nessun mistero, vizio, abiezione, a nessuna vita individuale da scoprire come l’autore aveva supposto all’inizio dell’inseguimento. Alla fine, la rivelazione è che “Egli non vuole rimanere solo. È l’uomo della folla. Sarebbe vano che continuassi a seguirlo, giacché non riuscirei a sapere di lui e delle sue azioni nulla più di quanto egli già non mi abbia fatto sapere”.Alla fine lo sgomento del lettore è comprendere che la meta non esiste perché ognuno di noi è parte di quella folla, che ne facciamo fisicamente parte come l’ape di un alveare.

 

Lontani nel tempo e nello spazio quel sentimento e quella folla sono gli stessi che probabilmente Paul Ehrlich – il biologo autore del best seller The Popolation bomb, in italiano La bomba demografica – avvertì dentro una notte alla fine degli anni ‘60 in India. Le sue parole vanno ben oltre l’intuizione di cosa fosse fisicamente la sovrappopolazione. “L’ho capito dal punto di vista emotivo un paio di anni fa in una notte afosa a New Delhi…La temperatura sfiorava i 40 gradi e l’aria era impregnata di fumo e polvere. Le strade brulicavano di persone. Persone che mangiavano, si lavavano, dormivano. Persone che andavano in giro, discutevano e urlavano. Persone che infilavano le mani nel finestrino dei taxi chiedendo l’elemosina… Persone aggrappate agli autobus. Persone che radunavano animali. Persone, persone e ancora persone”.

È come riscoprirsi parte di una dimensione collettiva e sociale, una dimensione fisicamente sociale, dalla quale solo gli ultimi decenni di modernità ci hanno completamente allontanato.

 

Ed ecco che il disagio dell’ultima “peste” forse ha anche questa origine: improvvisamente il riconoscersi fisicamente parte di qualcosa di più grande nel quale la nostra individualità si perde e affoga, parte di qualcosa che abbiamo dimenticato e in cui l’ammalarsi avviene sempre insieme agli altri e mai “da soli”, qualcosa di più grande che ci comprende e in cui nostro malgrado è possibile perdersi.

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