IBM / PC

22 Luglio 2011

International Business Machines, ma per tutti IBM o anche Big Blue, sta al mondo dell’informatica come la Coca Cola sta a quello delle bibite gassate: è il grado zero, un punto di riferimento ineludibile, soprattutto per aver sviluppato soluzioni e tecnologie che poi sono diventate lo standard di mercato. Il suo ruolo è consistito a lungo nel mostrare dove si poteva arrivare, fino a che punto i muscoli elettronici di un elaboratore si potessero spingere. Non a caso, i suoi supercomputer sono più volte stati in vetta all’esclusiva classifica dei più potenti del mondo (attualmente il primo è cinese).

 

La sua storia comincia molto presto: nel 1911 la fondazione ufficiale della società, ma ampie e consistenti premesse alle tecnologie che poi sarebbero confluite in Big Blue esistevano già a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento. A quel tempo il concetto di elaborazione automatica delle informazioni era quasi impensabile, come potrebbe esserlo oggi il teletrasporto, eppure la sua necessità era già palese, come dimostravano i problemi legati al censimento della popolazione americana che la società si trovò ad affrontare. Realizzato a intervalli di dieci anni su schede compilate a mano e conteggiate allo stesso modo, nel 1880 aveva richiesto sette anni per essere completato. Il successivo appuntamento, dato l’aumento di popolazione, avrebbe probabilmente richiesto più di dieci anni. Grazie al sistema a schede perforate messo a punto da Herman Hollerith (il cui brevetto confluì poi in IBM), invece, fu possibile calcolare i totali della rilevazione del 1890 in soli due anni e mezzo. A lungo l’orizzonte tecnologico di IBM fu quello delle rilevazioni statistiche e, più in generale, dell’elaborazione di informazioni a grande scala. Tanto che nel 1937, il primo presidente della società, Thomas J. Watson, ricevette dalle mani di Adolf Hitler la più alta onorificenza conferita dal nascente terzo Reich, la Gran Croce del Supremo Ordine dell’Aquila Tedesca, per meriti che il giornalista Edwin Black, nel suo libro IBM and the Holocaust, sostiene abbiano a che fare con la capacità dei gerarchi nazisti di identificare e tenere traccia degli ebrei presenti in Germania. Un impiego che, una volta compreso dall’ingenuo Watson, dovette essere la causa della restituzione della medaglia avvenuta nel 1940.

 

 

Il motivo per cui il nome IBM è diventato così noto, comunque, è legato agli anni ottanta, e al mercato dei personal computer che la società inaugurò proprio nel 1981 coniando il fortunato acronimo PC in occasione della presentazione del modello 5150. Con esso si sanciva un importante cambio di scala nel mercato del produttore, dai grandi sistemi dedicati a specifici compiti a macchine più piccole che dovevano venire incontro alle più diverse necessità di elaborazione in piccoli contesti. L’invenzione non stava però tanto nelle dimensioni della macchina, né nella riduzione di costo rispetto ai modelli esistenti fino a quel momento, ma nell’ “apertura” che l’intero sistema mostrava. Un concetto che, come vedremo, in tempi recenti diventerà cruciale, sia per il mercato informatico in generale sia per IBM. Non soltanto il PC “originale” era assemblato utilizzando componenti realizzate da altri produttori, ma le specifiche della sua architettura erano state rese quasi tutte pubbliche, in modo che chiunque potesse sviluppare periferiche per esso. Il mercato, però, non si limitò a produrre per IBM, come Big Blue aveva sperato, ben presto cominciò a farlo al suo posto, realizzando i cosiddetti PC-compatibili, macchine in tutto e per tutto analoghe al capostipite che – ed è questo il punto cruciale – avrebbero consentito di far funzionare il software pensato per essi. Un prodotto immateriale come un insieme di righe di codice diventava così più importante del metallo e del silicio dell’hardware. Tutt’altro che un’ovvietà nell’industria di allora, che Bill Gates, padrone della Microsoft, aveva avuto chiara fin dall’inizio, riuscendo a mantenere i diritti per la commercializzazione del DOS, il sistema operativo che faceva funzionare i PC. È così che nasce quel sistema poliedrico che è l’attuale universo di tecnologie e macchine che chiamiamo, per estensione della sigla originale, PC, in cui a fronte di una trasformazione continua dell’hardware, il software che fa funzionare tutto rimane sempre lo stesso. Ed è così che cominciava il lento e inesorabile processo secondo cui l’identità del PC scivolava pian piano fuori del controllo di Big Blue. A poco valse lo sforzo che l’azienda fece a partire dalla metà degli anni Ottanta, dapprima insieme alla Microsoft e poi senza di essa, di sviluppare un suo sistema operativo chiamato OS/2. Si trattava di un ottimo prodotto che agli inizi degli anni Novanta era ben più avanzato di Windows: più veloce, più stabile, ma soprattutto più sicuro. E tuttavia non riuscì mai a ricavarsi un vero mercato, a eccezione che in ambiti specialistici come le banche e le assicurazioni, i cui esperti potevano riconoscerne e apprezzarne le caratteristiche.

 

Ma il mercato di largo consumo, è evidente, non è l’orizzonte naturale di una società come l’IBM, tanto che nel 2009 l’intera divisione personal è stata venduta alla cinese Lenovo. Big Blue è tornata così, per certi versi agli inizi, allo sviluppo di tecnologie, alla ricerca applicata. Ad esempio quella che nel 2010 ha prodotto Watson, un software informatico di intelligenza artificiale il cui scopo è vincere un superquiz televisivo rispondendo a domande poste nel linguaggio naturale. Unico neo è che, per funzionare, ha bisogno della potenza di calcolo del novantaquattresimo supercomputer del mondo. Nessuno può comprare una macchina del genere, e probabilmente a nessuno servirebbe; quello che dimostra, ancora una volta, è un primato, quello stesso che consente alla società di proporsi come uno dei più importanti fornitori di servizi informatici al mondo. IBM non vende prodotti insomma, vende soluzioni. È come uno di quei coltellini svizzeri pieni dei più svariati strumenti, dalle forbicine al tendicatena: ha sempre il miglior strumento per risolvere ogni problema, l’unica cosa necessaria è, appunto, che si abbia esattamente quel problema. In questo senso potremmo pensarlo come la quint’essenza del paradigma ingegneristico secondo l’antropologo Lévi-Strauss, ovvero qualcuno che pensa gli strumenti di cui si dota in una maniera che non è mai generica, ma in stretta relazione con il compito che deve essere eseguito. Sta in questo allora la differenza con il suo ex acerrimo nemico Apple, che nel 1984 realizzava il celebre spot proponendosi come l’alternativa al suo imperialismo: se IBM incarna la figura dell’ingegnere, Apple pensa invece al bricoleur, qualcuno che non ha un preciso obiettivo da raggiungere e pertanto desidera sempre circondarsi di strumenti generici che possano assecondare l’ispirazione di un momento, sia essa rivolta al ritocco di una fotografia o alla composizione di un brano musicale, magari senza conoscere la differenza fra un do e un mi. Da un lato il computer come soluzione, dall’altro la libertà di crearsi nuovi problemi.

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