L’assassinio di Cannes
Domenica sera, dopo l’annuncio dei premi dell’appena conclusasi 68esima edizione del Festival di Cannes, il settimanale Les Inrock faceva notare un’evidenza statistica davvero un po’ preoccupante. Dal 1966 al 2008 i film francesi vincevano la Palma d’Oro a Cannes con una cadenza di una volta ogni ventun anni: Un homme et une femme di Claude Lelouch nel 1966, Sous le soleil de Satan di Maurice Pialat nel 1987, Entre les murs di Laurent Cantet nel 2008. Poi, invece, hanno vinto quattro delle ultime sette edizioni: dopo Entre les murs c’è stato Amour di Michael Haneke nel 2012, La Vie d’Adèle di Kechiche nel 2013 e ora Dheepan di Jacques Audiard nel 2015. Nessuno mette in dubbio che l’industria del cinema francese produca ancor’oggi dei grandi film (quest’anno ce n’erano almeno due grandissimi alla Quinzaine: L’Ombre des femmes di Philippe Garrel e Trois souvenirs de ma jeunesse di Arnauld Desplechin), ma certo un ritmo di questo tipo, così come un festival che decide di mettere ben cinque film francesi in concorso (di cui almeno tre unanimemente giudicati mediocri da tutta la critica presente a Cannes) comincia a destare qualche sospetto.
Nessuno vuol qui passare per ingenuo. Il cinema è un’industria e come tutte le industrie è mossa da capitali. Cannes non fa eccezione e basta guardare la sproporzionata presenza del mercato sulla Croisette per capire che tra gli interessi artistici e quelli economici la bilancia pende anche qui vistosamente verso i secondi, nonostante l’aria da alta cultura che il festival si vanta di avere. Avevamo già accennato nella prima parte di questo reportage al fatto che il 2015 sia stato l’anno in cui a Cannes si è avuto l’avvicendamento alla presidenza del festival dal critico cinematografico Gilles Jacob a Pierre Lescure, il patron di Canal +, con il rischio paventato da molti che si trattasse di un’ulteriore avanzamento di campo da parte degli interessi più vicini al mercato del festival. E certo questa lista di premiati – così bizzarra e così confusa – non può che confermare le peggiori aspettative in tal senso.
Non si tratta qui di rammaricarsi per la mancata presenza nella lista dei premiati dei tre film italiani presenti in concorso. Il problema non è certo Italia contro Francia, nonostante molti – e bisogna dirlo, esclusivamente in Italia – avessero ridotto il festival a questo (tra questi i peggiori sono stati senza ombra di dubbio i vari quotidiani nazionali che hanno affrontato il più importante dei festival del cinema del mondo come se fosse la fase finale dei mondiali di calcio). La preoccupazione che abbiamo è semmai che i grandi gruppi dell’entertainment francese stiano iniziando a far contare il loro ruolo in modo ben più pesante di quanto avessero fatto finora, e che la qualità, per così dire “artistica” o di ricerca, del festival stia iniziando a risentirne.
Cannes non è stato solo il festival che “canonizzava” i grandi registi del cinema d’autore agli occhi del mondo, ma è stato anche il festival che si prendeva dei rischi e scopriva dei registi prima che venissero scoperti da altri. Tutti si ricordano quando nel 1989 venne premiato Sex, Lies, and Videotape, l’opera prima di un’allora sconosciuto Steven Soderbergh, o quando i Coen vinsero con Barton Fink nel 1991, o quando Emir Kusturica nel 1985 vinse con Papà… è in viaggio d’affari. Cannes è stato anche il festival che ha scoperto Quentin Tarantino prima degli americani, quando gli venne data la Palma d’Oro per Pulp Fiction nel 1994. Si dirà che erano anni in cui gli americani mandavano ancora dei grandi film sulla Croisette, cosa che ormai, evidentemente, non accade più (anche se l’anno scorso un film importante come It Follows di David Robert Mitchell finì praticamente invisibile in una piccola sezione come la Semaine de la critique). Ma è comunque vero che anche negli ultimi anni, pur all’interno di un festival meno spregiudicato, le Palme d’Oro a Elephant di Gus Van Sant, a Uncle Boonmee di Apichatpong Weerasethakul o a The Tree of Life di Terrence Malick canonizzavano pellicole che avrebbero lasciato un segno fondamentale nella cinematografia mondiale e che spingevano la riflessione sul linguaggio filmico verso approdi inediti. Negli ultimi due anni pare invece di assistere a un festival che è in ritardo rispetto a ciò che gli accade intorno, se è vero che sia la Palma d’Oro a Winter Sleep di Nuri Bilge Ceylan, sia quella di quest’anno a Dheepan di Jacques Audiard paiono essere dei riconoscimenti arrivati in ritardo ai ben più importanti C’era una volta in Anatolia e Il profeta.
La cosa che dovrebbe far riflettere – Cannes in primis – è che se il festival non sta tanto bene non è certo colpa dello stato attuale del cinema, che invece dei calcoli di bottega di Canal+ e co. se ne frega. E giustamente. Quest’anno, sparsi qua e là per le rassegne parallele o i fuori concorso c’erano almeno 7-8 capolavori, che se fossero stati messi in concorso avrebbero fatto una delle edizioni del festival più belle degli ultimi anni: oltre ai giustamente premiati The Assassin di Hou Hsiao-Hsien e Saul Fia di László Nemes, c’erano il grandissimo Mountains May Depart di Jia Zhang-Ke (qui la mia recensione su leparoleelecose.it), incomprensibilmente snobbato dalla giuria dopo che nel 2013 per A Touch of Sin gli venne dato solamente un misero premio alla sceneggiatura, i già citati Trois souvenirs de ma jeunesse di Arnauld Desplechin e L’Ombre des femmes di Philippe Garrel (qui la mia recensione su cineforum.it), Arabian Nights di Miguel Gomes (qui la mia recensione su doppiozero) e Cemetery of Splendour di Apichatpong Weerasethakul (qui la mia recensione su cineforum.it).
Di alcuni di questi abbiamo già parlato nelle prime due parti dello speciale. Ma il film di Hou Hsiao-Hsien, che è stato presentato negli ultimi giorni del festival, merita senz’altro qualche parola in più. C’era infatti grande attesa per quest’opera che arriva dopo quasi 8 anni dall'ultimo film del maestro taiwanese, Flight of the Red Balloon. Nonostante a leggere i giornali italiani sembrava che a Cannes ci fossero solo Garrone, Sorrentino e Moretti, The Assassin era uno dei grandi eventi di questa edizione del festival: si trattava della prima volta, dopo 35 anni di carriera, in cui il leggendario regista taiwanese – diventato famoso negli anni Ottanta, Novanta e Duemila per un singolare e per nulla accomodante realismo della vita quotidiana – si è confrontato con un genere tradizionale come il wuxia, così complesso e pieno di aspettative.
Il wuxia, ovvero quel genere che si basa su storie di artisti marziali ambientate nella Cina antica, è però anche un genere scivoloso: ha una serie di regole e di caratteristiche da seguire che rischiano di annacquare la personalità di un regista. È quello che è successo ad altri registi per così dire “non di genere” che si sono confrontati con il wuxia, come Ang Lee, Wong-Kar Wai o Zhang Ymou. Come è possibile mettere insieme lo stile minimalista e realista a cui il cinema di Hou Hsiao-Hsien ci ha sempre abituati con l'azione, il ritmo e soprattutto la punteggiatura dei wuxia?
Sono bastati pochi minuti di proiezione però per capire che quello che si aveva di fronte non era propriamente un wuxia classicamente inteso, ma un oggetto cinematografico assolutamente fuori da ogni canone. E non è un’esagerazione dire che al termine della proiezione stampa l’impressione generale era quella di essere stati letteralmente storditi e ammaliati da una bellezza formale davvero mai vista. È come se Hou Hsiao-Hsien avesse preso un genere tradizionale per investirlo di un surplus di astrazione e di formalismo, con il risultato che le vicende dei personaggi non si muovono su uno sfondo storico astratto, ma letteralmente esplodono in un’estasi di colori che invade l’interezza del quadro e dello sfondo. Il risultato è un’assoluta indistinzione della divisione tra dettaglio e sfondo, tra personaggio e contesto, tra particolare e universale.
The Assassin (o Nie Yinniang come recita il titolo in originale, che è il nome della protagonista del film) narra le vicende di una spadaccina solitaria nella Cina del IX secolo. Lei è una killer di talento che è stata cresciuta da una suora che le ha insegnato tutto quello che c'è da sapere sulle arti marziali. In seguito però a una missione che non riesce a portare a termine – perché non è abbastanza senza pietà e non ha il coraggio di uccidere un uomo di fronte al figlio piccolo – viene rimandata nella sua città natale nella provincia di Weibo a uccidere uno dei politici locali. Weibo è una delle provincie che stanno ai margini dell'Impero e che viene gestita in maniera quasi autonoma rispetto al potere centrale. La faccenda però è delicata per Nie, perché l’uomo che deve uccidere è il cugino che lei anni prima amava e a cui era stata promessa in sposa, il matrimonio però non si fece perché altre esigenze politico-dinastiche vennero considerate più impellenti. Il plot ha poi tutta una serie di dettagli di difficile comprensione per uno spettatore poco avvezzo al genere chuanqi, cioè alle storie cinesi tradizionali che si svolgono durante le dinastia Tang del IX Secolo. Ma la questione non sembra di grande importanza perché a Hou Hsiao-Hsien interessa incentrare la storia su una donna che è in una posizione soggettiva scissa tra il suo dovere sociale e l’amore che prova nei confronti dell’uomo che dovrebbe uccidere.
Quello che però colpisce è il modo con cui The Assassin svuota completamente tutti gli elementi tradizionali del wuxia: i combattimenti sono scarni, spesso sono brevi e finiscono dopo pochi scambi di spada senza che uno dei due contendenti abbia davvero sconfitto il suo interlocutore. I lunghi dialoghi e la prevalente staticità della messa in scena lo rendono un film pressoché privo di autentiche scene d’azione. Hou Hsiao-Hsien, secondo lo stile classico a cui ci ha abituato, guarda l’azione a distanza, non usa mai dei piani ravvicinati perché il suo cinema rifugge completamente da ogni facile contrappunto emotivo. In questo senso il regista taiwanese è davvero l’anti-Sorrentino, che è uno che invece riempie i suoi film di sovrabbondanti sottolineature emozionali attraverso primi piani, interventi sonori e musicali, carrelli etc.: la punteggiatura di Hou Hsiao-Hsien è rarefatta, minimale, quasi distanziante pur senza essere fredda.
Il risultato è che gli affetti, che noi siamo abituati ad appiccicare a dei personaggi – quello che Deleuze chiamava immagini-affezione, cioè quando, ad esempio, un primo piano di una persona sofferente/gioiosa/terrorizzata andava a inserire l’affetto relativo nel piano successivo – in questo film diventano degli attributi dello spazio circostante. Non sono gli sguardi degli attori a fare da supporto all’affezione ma gli ambienti naturali (il verde della vegetazione della Mongolia non lo si riesce a cancellare dalla testa nemmeno dopo giorni che si è visto il film), i drappeggi delle tende, gli interni, i tappeti, i vestiti, le gestualità e così via. In questo senso l’assenza d’azione di questo film non si lega né all’emotività dei samurai di Kurosawa ma nemmeno al brechtismo astratto e razionale de La vendetta dei 47 Ronin di Mizoguchi. Quello che Hou Hsiao-Hsien ricerca è semmai quella che Marco Grosoli (qui) definisce una “forma alternativa dell'azione”, non nel senso di “un flusso ordinato che si dispiega dentro al vuoto” ma semmai di qualcosa che si modula in modo “aderente al vuoto stesso, un movimento non tanto dentro al vuoto quanto insieme al vuoto”.
Si è sentito dire spesso in questo giorni che il film di Hou Hsiao-Hsien fosse un esempio di “cinema puro”, indicando forse un cinema che si basa solo sulla tecnica della messa in scena: qualcosa che può interessare giusto a dei cinefili nerd a cui piace guardare i movimenti di macchina e gli stacchi di montaggio, ma che è poco significativo per coloro che vanno al cinema solo per farsi emozionare da una bella storia. A noi pare invece che Hou Hsiao-Hsien sia semplicemente uno di quei (pochi) registi che hanno ancora un vero e proprio pensiero del visivo: uno cioè che è capace di fare una riflessione e produrre un pensiero attraverso il modo con cui guarda le cose e non solo attraverso quello che i personaggi dicono (mentre magari vengono guardati secondo gli standard – perché questo sono – del cinema narrativo da festival). Perché guardare qualcosa a distanza, attraverso un drappeggio trasparente, con certi colori e gestualità e senza che si indugi sul volto degli attori, o guardarlo attraverso un dolly che si muove al suono di una musica di violoncelli non sono la stessa cosa. Rappresentano due diversi modi di pensare il visivo. Che vuol dire – dato che il visivo è una parte importante del nostro mondo – che sono due diversi modi di pensare e di stare nel mondo in cui viviamo. Quello che ci piacerebbe vedere in un festival come Cannes sono semplicemente dei film che abbiano un pensiero sul modo in cui guardano le cose. Cosa che quest’anno è successa solo raramente.