Donato Bilancia, serial killer della riviera
“Mi fermo davanti a questa casa. Poiché sono nei pressi del paese di Nerola so che si tratta della casa di tale Picchioni condannato all’ergastolo e poi morto in carcere per avere ucciso, nel lontano ’47, due viandanti che s’erano rivolti a lui di notte per aiuto. […] Ma il grigio delle pareti mi attira, è un grigio violento, inciso. Guardo meglio: è fatto di nomi e di date, di frasi. I contemporanei di Picchioni non hanno resistito a lasciare un segno della loro cultura, del loro buon senso, delle loro passioni. Il delitto come l’alta montagna, ispira dunque pensieri profondi?”
Le intuiva già nel 1956, Ennio Flaiano, le potenzialità di un turismo macabro e morboso, quando sul Mondo pubblicava il racconto I nostri graffiti, oggi nella raccolta Le ombre bianche (Adelphi, 2004). In quelle poche righe, lo scrittore raccontava con sottile ironia i resti della casa di un omicida, presa d’assalto da visitatori che lasciavano pensieri e insulti sulle mura diroccate. Nei quasi settant’anni che ci dividono da quello scritto, il fenomeno non è scomparso né si è ridotto, ma è invece esploso, come testimoniano pellegrinaggi a Cogne, Avetrana o Rigopiano. I giornali, il Web, le televisioni e le radio sono pieni di storie di cronaca nera, tanto che il voyeurismo sembra diventato un fatto consolidato, a cui neanche gli appelli di sindaci o istituzioni hanno ormai qualche effetto. E di questo gusto dell’orrido, che porta alla mente le tragedie latine di Accio e Pacuvio, si nutrono i media, da quelli più tradizionali fino ai social e ai podcast, creando un circolo senza fine.
L’interesse a luoghi e persone funziona a intermittenza, un po’ si accende e un po’ si spegne: tutto è oggetto di consumo, casi nuovi prendono il posto dei vecchi e anche i crimini più efferati possono esser dimenticati e rispolverati dopo decenni. Così è accaduto a Donato Bilancia, il più grande – in termini numerici – serial killer che l’Italia abbia mai conosciuto. 17 omicidi tra il 1997 e il 1998 in Piemonte e Liguria (tanti quanti Jeffrey Dahmer, ma in un lasso di tempo considerevolmente più corto) sono l’impressionante bilancio di una figura sfuggente, enigmatica, che difficilmente rientra in etichette o categorie.
Nato a Potenza nel 1951, cresciuto a Genova con la generazione di piazza Martinez (che annovera Beppe Grillo e Antonio Ricci), Walter – questo il nome per nascondere la provenienza meridionale – diventa un ladro e un rapinatore, oltre che un giocatore d’azzardo e un puttaniere solitario. Una difficile infanzia con pipì a letto e derisioni da parte della famiglia, una virilità compromessa da un pene ridotto e un fratello suicida insieme all’amato nipotino sono solo alcuni degli elementi che lo porteranno a implodere: la famosa goccia che fa traboccare il vaso sarà il “torto” subito dagli amici Giorgio Centanaro e Maurizio Parenti, colpevoli di averlo preso in giro alle spalle e truffato nella loro bisca. Da lì una rabbia repressa verso tutti e tutto lo porterà a uccidere in un crescente delirio d’onnipotenza.
Una storia che dopo la sua scomparsa durante la pandemia nel carcere di Padova è tornata a catalizzare l’attenzione, non quella mainstream come altri casi apparsi su Netflix (dal Killer Clown e il cannibale di Milwaukee fino alla serie italiana Yara), ma quel tanto che basta ad avere nuovi lavori sul “mostro della Liguria”. Perciò, i delitti di Bilancia che già avevano generato prodotti come Ultima pallottola, sceneggiato televisivo andato in onda nel 2003 su Canale 5, sono oggi un banco di prova per capire come si sta muovendo il mondo della narrazione, oltre che il fenomeno del true crime, che ha conosciuto un grande successo dopo gli anni del lockdown. Una rinascita del racconto in formato audio in cui bisogna saper distinguere tra buoni prodotti e altri decisamente più scadenti.
Se chiedete in giro di Donato Bilancia, quei pochi che vi diranno di saper qualcosa, è perché hanno ascoltato Indagini, il podcast campione di ascolti di Stefano Nazzi. La puntata, uscita a marzo 2024 in due parti di circa 50 minuti, merita attenzione per il lavoro certosino di ricostruzione giudiziaria ed è la giusta base per conoscere la vicenda con obiettività: non s’interroga tanto sul movente o sulla psicologia dell’omicida, quanto sugli errori commessi da Polizia e Magistratura alla fine degli anni ’90 prima di arrivare all’arresto. È vero che il giornalista romano comincia con un particolare che evidenzia la dubbia moralità di Bilancia (l’affermazione durante gli interrogatori di essere dispiaciuto che una delle sue vittime fosse madre, perciò di lasciare un orfano) e si chiude con i nomi delle persone uccise in 186 giorni. Ma la vera essenza di questo lavoro è ricostruire le vicissitudini della Giustizia italiana, non tanto capire cosa sia successo nella mente di Walter.
Nazzi colpisce l’ascoltatore con tutti gli errori delle indagini, a partire dal più considerevole: nonostante gli indizi e le segnalazioni balistiche a favore dell’utilizzo della stessa pistola, gli inquirenti per molto tempo hanno creduto che si trattasse di delitti diversi, dovuti ora alla malavita genovese, ora alla criminalità organizzata. E poi l’incomunicabilità tra Procure diverse e le scene del crimine inquinate, o mal giudicate (come i mozziconi presenti e mai analizzati). Insomma, la voce di Indagini prende per mano il pubblico, gli instilla il dubbio della fallacità delle capacità umane e poi lo rassicura con l’incarcerazione e i tentativi di ravvedimento (non sempre sinceri). Il tutto con una tensione crescente che si stempera nel finale a lieto fine, senza comunque cercare di romanzare troppo la vicenda. È in fin dei conti un lavoro giornalistico, per quanto storytelling sia presente, e come tale, giustamente, va preso, apprezzandone l’onestà intellettuale più che la costruzione narrativa.
Entrando in un campo più letterario, diverso è il lavoro di Carlo Piano, figlio dell’architetto Renzo, che seguì il caso a Genova per un quotidiano nazionale. Nel podcast Indagini interviene per pochi secondi definendo il serial killer «un crogiuolo di contraddizioni […] un personaggio che sembra uscito da una tragedia di Sofocle», ma è nel libro Il torto (E/O, 2023) che viene approfondita la sua visione. Un ibrido tra memoir e reportage giornalistico, in cui Piano vuole ricostruire una vicenda che l’ha ossessionato nel corso degli anni (incontrò Bilancia anche dal vivo nel carcere di Marassi, poi in quello di Chiavari), ma a cui viene data anche una coloritura romanzesca, attraverso un narratore onnisciente in terza persona che racconta emozioni e «diavolerie da Belinetta» (p.128), partendo dalla sua morte per poi raccontare i delitti divisi in tre gironi (Vendetta, Cattivo sangue e Matta Bestialità).
Lo sguardo è lontano da quel tempo e da quei luoghi – «Milano è qui fuori, distratta dalle luci dei suoi grattacieli e non mi pare interessarsi a te, Genova e le tue minutaglie echeggiano oltre l’Appennino che ci allontana» (p.173) – , e la voce narrante si erge a un livello morale superiore, deridendo «un belinôn, uscito scorticato dalla bisca, la cui psiche era deragliata» (p.59). Perciò, più che un’inchiesta o una biografia, per quanto vengano ripercorse le giornate di Bilancia, dall’infanzia alla morte, si tratta di un attacco feroce a un essere umano ritenuto insulso, dopo un percorso dantesco verso la matta bestialitade, come suggerisce anche il sottotitolo Diciassette gradini verso l’inferno. Piano non cerca spiegazioni, non si mette sullo stesso piano, ma deride il «programma di Walterino, il mostro improvvisato» (p.218), tanto da arrivare a dare un significato denigratorio pure alle lettere della sua targa, la Mercedes con cui verrà incastrato, forse anche per un intento catartico e liberatorio verso i peccati di un’intera città che ha generato un individuo simile: «AE106AW. A come assassino, E come enuresi, W come Walterino-piscia-a-letto» (p.254).
Altro esito è quello di Alessandro Ceccherini, scrittore di razza, che già si era cimentato con gli omicidi accaduti a Firenze tra gli anni ’70 e ’80 con Il mostro (nottetempo, 2022). In un mercato italiano sempre più saturo di autofiction e romanzi famigliari, spicca ancora di più il suo intento autoriale di entrare nei fatti e nei personaggi, per toccarne le asperità e i nodi che riguardano la nostra esperienza umana, restituendole con una narrazione compiuta e letteraria dalle tonalità noir. Che venga la notte (nottetempo, 2024) è il tentativo, faticoso, di leggere la psicologia di Donato Bilancia e di metterla alla prova in un racconto, in cui coesistono elementi fittizi e altri accuratamente reali. Ecco allora da una parte i ragazzi di piazza Martinez e i loro scherzi sadici, soprattutto Beppe Grillo che perseguita il giovane Walter, la fidanzata Valeria, il fratello Michele e sua moglie, così come tutte le vittime, mentre dall’altra sfilano personaggi d’invenzione come Artù e Miccia, amici di giochi o compagni di ruberie ̶ «Che venga la notte, io sono pronto», dice Walter quando gli regalano una tronchese per rubare bici ̶ , o Debora, una ragazza con cui Donato intrattiene un amplesso veloce e insoddisfacente, archetipo di molte sue relazioni future.
Anche lo scenario in cui si muove il protagonista è ricostruito con dovizia storica, come si vede nelle pagine in cui si raccontano le nottate vuote, passate a fare zapping in televisione: «Donato siede nell’isola luminosa generata dalla televisione e osserva quei cinque coglioni cantare a cappella, poi ecco di nuovo il pallone gonfiato che starnazza presentando la nuova canzone e i cinque partono col loro balletto da finocchi sincronizzati. Cambia canale: su Rai 2 c’è il film sui gorilla che al cinema gli aveva messo inquietudine e tristezza; Rai 3 propone Lubrano, che con la sua aria da accentino mostra ai mentecatti italici come evitare truffe da terza elementare; su Rete 4 c’è Umberto Bossi che dal palco di una piazza invoca l’oscuramento delle reti Fininvest…» (p.129). Oppure nei tanti episodi di cronaca cittadina ripescati dai giornali dell’epoca: « “Ieri ha preso fuoco l’Achille Lauro giù al porto,” risponde Donato. “La zona di Caricamento, piazza Cavour, corso Saffi, San Lorenzo… tutto pieno di fumo. Ha fatto una fumata altissima, si vedeva dapperttutto”». (p.65)
Il quadro di solitudine e nichilismo ritratto da Ceccherini arriva poi al parossismo del vizio, quando la mente del killer inizia il percorso di morte innescato dall’umiliazione degli amici biscazzieri. È a questo punto che lo scrittore toscano intensifica le visioni alterate, come quando Donato si guarda allo specchio: «La superficie lo duplica nella penombra come fosse una figa che vomita un altro essere umano, il varco immondo da cui la carne, su questa terra prende la forma di Walter» (p. 163). Il narratore entra nei pensieri distorti, li fa suoi e li restituisce al lettore: «Pensa che uccidere è bello al di là del guadagno, è forse il gesto assoluto che un uomo possa fare in una società dove tutti competono cercando di distruggersi l’un l’altro, il gesto più onesto e vicino al cuore della volontà» (p.207).
Fino ad arrivare ai sogni, la parte in cui più l’autore sguazza nell’invenzione di una mente malata che non giudica, ma cerca di capire quali cortocircuiti possano essere avvenuti. Ed è in queste pagine che si uniscono la sete di sangue e di denaro (di cui Bilancia assocerà l’odore), la paura per l’altro sesso e l’impotenza, i traumi rimossi e i desideri sopiti: «“Eunuco!” ti urla una voce di donna da non sai dove. “Eunuco” ripete. “Mezz’uomo” urla un’altra. Non reggi l’umiliazione e ti lanci sul fucile per farti ammazzare, ma quello diventa un cazzo che ti finisce in bocca […] è il cazzo enorme di un essere dalla struttura e dal busto umano ma con le gambe e la testa da caprone» (p.243). E le stesse vittime, come Mariangela Rubino uccisa sul treno per Ventimiglia, diventano parte di un orrore collettivo, in cui è il mondo stesso e le sue certezze a implodere: «Se qualcosa di simile a un dio esiste, Mariangela lo immagina come un bambino alienato davanti a una tv, condannato a guardare ininterrottamente tutto ciò che accade e a osservare il mondo senza provare più alcuna meraviglia, annoiato e ormai privo di ogni interesse» (p.232).
Perciò il romanzo di Ceccherini può assurgere a esempio di ciò che un buon narratore può ancora fare, nonostante le mode e le aspettative del pubblico: calarsi nelle viscere della vita, nei blackout della psiche umana o nelle contraddizioni della società per dare un pugno nello stomaco al lettore e ridefinire insieme i paletti dell’esistenza.