Cartolina da Alba
«Johnny guardò giù con il cuore in gola. Guardò le rossigne fortezze mura del Vescovado, circondanti l’ultimo parlamento. E la città sulla bilancia appariva vuota, ma viva di un segreto cardiopulso». Ormai quasi settant’anni fa Beppe Fenoglio, con gli occhi del partigiano Johnny, cristallizzava nelle sue carte un movimento nascosto nelle pieghe di Alba, che nel 1944 seppe guadagnarsi la libertà dai repubblichini per ventitré giorni. Un episodio che è valso alla città la medaglia d’oro al valore militare, custodita nell’ufficio del sindaco fino allo scorso maggio, quando è stata rubata da ignoti e si è persa per sempre. L’orgoglio e la forza degli albesi non si sono però interrotti, una vibrazione nascosta ha continuato a palpitare sotterranea. La si avverte ancora quando si inizia ad osservare la città da Altavilla, l’Hollywood langarola con le ville dei ricchi. Dalla cima del colle riluce uno skyline di tetti rossi, condomini bianchi, qualche torre vermiglia e il campanile scarlatto del Duomo, su uno sfondo di colline verdeggianti, dietro le quali, se si è fortunati, s’intravedono le Alpi e il Monviso. Uno spettacolo silenzioso, sonnolento e leonardesco, non solo perché si può ammirare soltanto al mattino presto, ma per la quiete che si respira, interrotta in un unico momento dell’anno dai trattori in vendemmia. La discesa rapida e ripida, in pochi minuti porta in piazza Monsignor Grassi, sede di quel vescovado di cui parlava Johnny e testimonianza di un’antica magnificenza. Quest’area – ormai divenuta un parcheggio dove i turisti stranieri ricaricano le auto elettriche e ammirano le vestigia in rovina del nucleo romano di Alba Pompeia – è la porta del cuore medievale di una città che secondo la leggenda ospitava cento torri, ma oggi se ne possono vedere soltanto tredici.
Da via Acqui iniziano i cubetti color porpora di porfido, le case intonacate a tinte chiare e i portoni in legno scuro che conducono al Duomo di San Lorenzo, cattedrale che si slancia verso il cielo con i suoi mattoncini rossi tipici del neogotico piemontese e gli animali simbolo dei quattro evangelisti in bassorilievo, le cui iniziali compongono il nome di Alba. Nell’ampia piazza Risorgimento si sprigionano i profumi della cucina piemontese, in cui a far da padrone è ancora il colore rosso, così presente e sanguigno nel tessuto urbano e artistico: dalle osterie e dalle piole che campeggiano nella piassa, così come dalle traverse vicine, fuoriescono gli effluvi dei piatti di carne cruda, dei tajarin al sugo, dei vitelli tonnati e dei brasati al Barbaresco, mentre si stappano bottiglie di vini color rubino. Un vero trionfo per i più ferventi carnivori dopo secoli di malora, ora confluiti nel riscatto e nel benessere economico. Anche se l’operosità e il silenzio, tipiche del mondo contadino, rimangono i tratti distintivi della gente che abita queste terre o le plasma ogni giorno con l’esempio. D’altronde, non a caso, Cesare Pavese nei Mari del sud diceva: «Tacere è la nostra virtù / Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo».
L’importanza dell’etica del lavoro è confermata dalla recente intitolazione di due punti nevralgici della città ad altrettanti patriarchi. Il primo è il commendatore Roberto Ponzio, commerciante che per decenni ha infiammato la galleria della Maddalena che porta oggi il suo nome, ideale incrocio tra città e campagna dove si contrattavano i pregiati tartufi bianchi. Questo luogo porticato scarsamente popolato – ci sono appena una libreria, un caffè e un negozio di abiti –, un tempo era l’arena dove si facevano affari, si discutevano i prezzi, si saggiava la bontà e i profumi dei migliori esemplari che uomini e tabui raccoglievano di notte, in segreto, con una complessa liturgia. A ricordarlo rimangono un paio di foto affisse alle pareti, che ritraggono all’opera, con la sua bilancia, colui che sarà soprannominato re del tartufo bianco d’Alba. Un titolo attribuito a Ponzio per le vittorie a fiere e mostre, ma che rimane al centro di un’infinita querelle con il suo maestro Giacomo Morra, il quale iniziò la tradizione pubblicitaria di inviare trifole ai potenti del mondo. Si sa, la provincia è fatta di campanilismi e di furori difficili da spegnere.
Il cortile della Maddalena, giusto a fianco, ospita da ottobre a dicembre il nuovo mercato mondiale: per tre mesi migliaia di turisti da tutto il mondo affollano le vie del centro e uno spazio che forse, sempre meno, accoglie lo spirito con cui era nato. Anche i prezzi non sono più quelli di una volta: oggi si toccano quote record di 600 o 700 euro l’etto. Presto quest’area accoglierà anche il Museo del tartufo, una scommessa dell’attuale Amministrazione che vuole dare ai visitatori un luogo multimediale in cui riflettere su una cultura patrimonio dell’Unesco. Quello che non si è perso, ma anzi si è ravvivato, è l’attenzione per l’ambiente, una sensibilità che già i trifolao di cinquant’anni fa dimostravano nel contatto quotidiano con boschi e foreste. Lo slogan «No alberi, no tartufo», diffuso negli anni Sessanta proprio da Ponzio, rivive ancora nelle tartufaie create per salvaguardare un patrimonio naturale ridotto al lastrico. Nel 2017 a Santo Stefano Roero è nata la prima, seguita da quelle dei paesi di Mombercelli, Piobesi e di Barbaresco: segno che qualcosa si sta smuovendo. Una piccola resistenza ecologica per preservare un prodotto a cui Alba deve molto, e che è messo a dura prova da clima, bracconaggio e uso di pesticidi.
L’altro punto che ha cambiato nome, in favore di un albese Doc, è piazza Michele Ferrero. Un tempo denominata Savona e luogo di partenza delle passeggiate degli albesi, che si danno appuntamento sotto il suo orologio, oggi ricorda l’inventore della Nutella, il cui odore di nocciole tostate si sente ancora entrando dal ponte Albertino. L’anima della città è qui, simboleggiata da una gigantesca statua d’acciaio a forma di bambina, alta più di dodici metri, che saluta un po’ genà (intimidita) chi arriva da via maestra (guai a chiamarla via Vittorio Emanuele, non vi capirebbe nessuno). La sua sagoma abbozzata permette allo sguardo di rincorrere la Langa, oltrepassando case, finestre e tetti, appena sotto al cielo che la sovrasta. Poco lontano un bambino, stilizzato in una stele, osserva Alba: è Michele Ferrero, ritratto da Valerio Berruti come un infante curioso e perspicace. «L’ambizione è un sentimento per quelli di collina che hanno la fuga nelle gambe, il dubbio che dall’altra parte possa esserci qualcosa di meglio – o anche solo di diverso – da questo verdegrigio sempreverde e la speranza di poterlo raggiungere», sembra aver intuito Marta Cai nel suo recente romanzo Centomilioni, finalista al premio Campiello. E forse proprio quel sentimento deve aver guidato l’imprenditore.
Da un piccolo laboratorio in via Rattazzi nel 1942 Michele Ferrero è riuscito ad arrivare nelle case di tutti gli italiani con un prodotto che coniuga due ingredienti semplici, ma non scontati. Le nocciole, che non mancavano nelle colline langarole, e il latte in polvere, portato in abbondanza dagli Americani giunti per combattere il nemico nazifascista: nessuno aveva mai pensato di unirli in una crema spalmabile. Dai 50 dipendenti del 1946 si è arrivati ai 5.875 che l’azienda impiega adesso ad Alba, una città nella città che ogni giorno produce e sforna dolci, portati in giro per il mondo da tir che si alternano senza sosta. Un lavorio costante e incessante, a cui nessuno sembra fare caso. Anche gli immensi capannoni non si notano, perché sono camuffati per bene nel tessuto urbano. 417mila metri quadri di suolo che ricoprono un’ampiezza pari a quella del centro storico. Forse Michele non poteva nemmeno immaginare che le sue ambizioni l’avrebbero portato a crearsi una sua Alba, oggi replicata in numerose altre parti del mondo con oltre 25 stabilimenti.
Come tutti gli aggregati umani fin dall’alba dei tempi, non poteva mancare un fiume, il Tanaro. Scorre placido a poca distanza dalla Ferrero e segna il confine tra Langhe (la parte destra con le colline del Barolo e del Barbaresco) e Roero (quella sinistra con Arneis e frutteti). Vigoroso nei mesi invernali, il corso d’acqua si riduce ormai drasticamente in quelli estivi, diventando quasi un rigagnolo, per le temperature sempre più elevate. Giano bifronte, nei secoli è stato una risorsa idrica per gli abitanti e le loro attività, ma ha rappresentato anche un rischio per l’esistenza di Alba stessa con le sue piene. Lo sapeva bene Beppe Fenoglio che le descriveva così nel Partigiano Johnny: «Più alto dello scroscio della pioggia rumoreggiava il fiume, amplissimo, enfiato e insaccato come una belva dopo la digestione della preda, eppure sembrava aver perso in virulenza quanto acquistato in lutulenta ipertensione».
Una piega drammatica venne raggiunta nel 1994, più precisamente nella notte tra il 5 e il 6 novembre, data che nessuno ad Alba si può dimenticare. Dopo tre giorni di piogge, la pancia del Tanaro si gonfiò di oltre 600 millimetri e portò via ponti, case e strade causando 70 vittime e 2.226 sfollati in tutto il Basso Piemonte: il conteggio dei morti ad Alba arrivò a nove e i danni furono incalcolabili. Eppure in quell’inferno di fango e detriti spuntarono fuori ancora una volta l’orgoglio e la forza dei langaroli, il cui unico pensiero fu quello di rimettere in piedi attività e aziende. Sentimenti ancora vivi nella memoria dei testimoni oculari, a trent’anni di distanza, e riassunti nell’immagine miracolosa degli operai della Ferrero che in quindici giorni, riuscirono a ripulire gli stabilimenti e a rimettere in piedi un’azienda che da quel giorno non si è più fermata.
Bibliografia
Marta Cai, Centomilioni, Einaudi, Torino, 2022
Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, Einaudi, Torino, 1968
Franco Manzone, Roberto Ponzio. Come il tartufo conquistò il mondo, Alba, 2023
Cesare Pavese, Le poesie, Einaudi, Torino, 2020