Cartolina da Canelli

24 Marzo 2024

«Da quando, ragazzo, al cancello della Mora mi appoggiavo al badile e ascoltavo le chiacchiere dei perdigiorno di passaggio sullo stradone, per me le collinette di Canelli sono la porta del mondo. Nuto che, in confronto con me, non si è mai allontanato dal Salto, dice che per farcela a vivere in questa valle non bisogna mai uscirne. Proprio lui che da giovanotto è arrivato a suonare il clarino in banda oltre Canelli, fino a Spigno, fino a Ovada, dalla parte dove si leva il sole. Ne parliamo ogni tanto, e lui ride». Anguilla, il protagonista della Luna e i falò, descrive così il lungo rettilineo che separava il mondo contadino di Santo Stefano Belbo da quello cittadino di Canelli. Oggi è una provinciale, spesso affollata da auto e furgoni, ai cui bordi resistono l’azzurra casa di Nuto, la cascina della Gaminella e un totem rettangolare e scrostato che annuncia «Ci sono paesi che varrebbe la pena di viverci» con le parole di Cesare Pavese. Attorno campi e colline, interrotti da un grande impianto di depurazione e un allevamento di polli, da cui fuoriescono, in certi periodi, maleodoranti profluvi. 

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Procedendo oltre al portale, si arriva a una curva dalla quale appare, in primo piano, il cartello che annuncia l’ingresso a Canelli. In alto, si staglia una macchia di giallo che incombe sul moderno abitato della città, sviluppato in piano. Man mano che l’auto si avvicina al centro astigiano si distinguono i tratti del castello Gancia, il cui nome evoca subito la famiglia produttrice di spumante che da un secolo lo possiede. Quasi un post-it messo lì a ricordare lo “champagne di Canelli” che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento ha dato il via a una rivoluzione leggendaria, portando questa terra di mezzo tra Langhe e Monferrato a un’inedita fama mondiale. Fu un pioniere come Carlo Gancia a inventare nel 1865 il primo spumante italiano, importando lo champenois dalla Francia. 

Allora come oggi, il vino destinato a divenire spumante con metodo classico, come l’Alta Langa, viene fatto rifermentare in bottiglia dopo averlo arricchito di zuccheri. Dopo mesi o anni di riposo sui lieviti, le bottiglie vengono ruotate con molta cura e costanza (remuage) per essere poi stappate in modo da rimuovere i residui convogliati nel collo (dégorgement). Un lavoro che gli champagnisti migliori, operai specializzati, riescono a fare con velocità: uno dei più famosi è Mauro Ferrero della cantina Contratto, capace di trattare 300 bottiglie al minuto. Ma di artisti come lui ne rimangono pochi. Anche il florido indotto di bottai e artigiani fiorito a cavallo tra il XIX e il XX secolo sta scomparendo, nei casi migliori in favore dell’automazione e, nei peggiori, della delocalizzazione o della chiusura definitiva.

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Sono quattro le cattedrali sotterranee (Gancia, Contratto, Coppo e Bosca), divenute patrimonio Unesco e sparse per il centro, che testimoniano chilometri di gallerie nelle viscere della terra per mantenere al fresco il celebre vino bianco, con sale piene di bottiglie impilate. Dopo il miracolo economico vissuto a inizio Novecento – che si è protratto fino al Dopoguerra anticipando di molto le fortune langarole –, Canelli si è reinventata, passando da un trainante mondo vinicolo alla creazione di un polo enomecannico legato all’imbottigliamento e al packaging, che oggi conta circa 1.500 addetti, con ramificazioni in tutta Europa e clienti come Ferrero o Coca-Cola. 

Lasciata l’auto nella grande piazza Carlo Gancia – un enorme parcheggio a pochi passi dal centro, attorniato da palazzoni anni ’70, qualche bar e un negozio di una nota catena di cosmetici e pulizie, è l’ora di addentrarsi nell’area pedonale: appena due piazze (Amedeo D’Aosta e Cavour), collegate dal porfido di via XX settembre, e un grande platano ricordano il salotto cittadino che doveva essere a inizio Novecento. «Entrai per un lungo viale che ai miei tempi non c’era, ma sentii subito l’odore — quella punta di vinacce, di arietta di Belbo e di vermut. Le stradette erano le stesse, con quei fiori alle finestre, e le facce, i fotografi, le palazzine. Dove c’era più movimento era in piazza — un nuovo bar, una stazione di benzina, un va e vieni di motociclette nel polverone», dice l’alter ego pavesiano. 

Della parte bassa che conosceva Anguilla rimane poco, se non l’albero monumentale vicino al bar Torino, mentre ha mantenuto una sua autenticità la città antica che si arrampica sulla collina di Villanuova lungo la Stërnia. Questo nome, comune a molte strade piemontesi, forse deriva dal latino sternere, cioè selciare, perché fatte di pietre. Ma indicava anche il tratto acciottolato che saliva dall’aia alla stalla nelle vecchie cascine. Per i più romantici è invece la Via degli Innamorati, perché costellata d’installazioni artistiche ispirate alla visita dell’illustratore Raymond Peynet nel 1983, celebre per i disegni di candide coppiette. Mentre molti rimangono in basso, facendo qualche scatto da postare sui social nei numerosi ristorantini e locali chic, pochi affrontano questo ripido serpente di pietra, costeggiato da splendide chiesette barocche e villette d’epoca dai toni caldi e pastello, il quale permette con pochi passi di percorrere secoli di storia.

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Si parte dalla chiesa di San Tommaso e dalla vicina Addolorata, da qualche anno punto di riferimento per la comunità ortodossa romena e ribattezzata Sant’Andrea, che fa intuire un passato prossimo di multiculturalità. La direzione intrapresa verso il settore enomeccanico, oltre alla continua attività vitivinicola, ha richiamato negli anni ’80 e ’90 una forte immigrazione. La peculiarità di Canelli è la grande concentrazione di macedoni: secondo i dati Istat, nel 2023 si contavano 564 cittadini del piccolo Paese balcanico. Un’enclave orgogliosa che ha tenuto legami con le proprie radici. Al festival Classico 2016 – un’ambiziosa rassegna culturale dedicata al dantista canellese Giambattista Giuliani – fu ospite il regista macedone Milcho Manchevski, già vincitore del Leone d’oro a Venezia, che venne osannato da una folla estasiata di suoi concittadini, i quali lo acclamavano come il proprio «Leonardo da Vinci». 

Il percorso d’integrazione dei macedoni nel tessuto sociale non è stato facile, né improvviso, ma frutto di trent’anni di coabitazione. In L’amico del pazzo di Marco Drago, lo sguardo delirante del protagonista descrive la vita dei primi arrivati, spesso finiti in giri di malaffare o trattati con sufficienza dagli italiani: «Li vedi qua in Piemonte, provincia di Asti, freddo d’inverno, soffoco d’estate, malpagati in mezzo a razzisti e leghisti. Stanno qua e si divertono: non ci pensano nemmeno più a fare una vita regolare». Oggi esistono casi d’imprenditori e cooperative macedoni che gestiscono autonomamente il proprio lavoro nelle viti come Ilona Zaharieva, tra le prime a dare una mano ai connazionali. Il problema dello sfruttamento si è invece spostato verso quei ragazzi africani che vengono ingaggiati durante la vendemmia e spesso vengono stipati in luoghi di fortuna, con paghe da miseria, per poi migrare nel Cuneese nei campi dove si coltiva frutta.

Ma il ‘900 canellese non è solo vino e industria. Risalendo un po’ la strada acciottolata, ci si imbatte in una storia d’amore che in pochi conoscono. Villa Ungà, villetta color madreperla, è la casa che Bruna Bianco ha acquistato qualche anno fa per tornare alle sue origini e celebrare il poeta Giuseppe Ungaretti, conosciuto nel 1966 a San Paolo, dove suo padre era direttore della filiale brasiliana di una ditta vinicola. È un ampio caseggiato che la splendida ottantenne ogni tanto mostra ad amici, rinnovando la memoria di un rapporto durato pochi anni, ma portato nel cuore per tutta vita e messo nero su bianco in alcune pagine leggibili in Lettere a Bruna (Mondadori, 2017). Quel legame con una giovane donna, un’allieva oltre che un’amante, ha ridato speranza nella parola poetica al poeta romano, che scrisse insieme a lei o per lei alcune delle ultime liriche, contenute in Vita d’un uomo. Negli occhi di Bruna quegli anni di passione bruciano ancora, nonostante la sua vita sia andata avanti con una brillante carriera da avvocata. Perciò è solita ripetere che ha «inghiottito Ungà», perché quegli attimi di bellezza sono rimasti nel suo corpo e ora vuole restituirli con iniziative, mostre e documentari.

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Facendo slalom tra villette e chiese barocche, ci si imbatte nella stele che ricorda il rastrellamento di Bruno Miglioranza da parte dei nazifascisti nel 1944: un monito al passato partigiano della città. Non è un caso che Una questione privata di Beppe Fenoglio attraversi queste colline astigiane con le scorribande di Milton, alla ricerca di un fascista per scambiarlo con l’amico-rivale Giorgio, caduto nelle mani dei repubblichini. Nelle vicende dei badogliani si rivivono alcuni momenti di grande tensione che si consumarono anche qui durante la Resistenza, entrati nelle pagine dello scrittore albese grazie al suo vissuto personale. Il legame stretto da Fenoglio con Canelli passò anche attraverso l’amicizia con due personaggi di grande notorietà per la comunità cittadina: l’avvocato Giovanni Drago, suo compagno di studi al liceo Govone di Alba, e il farmacista Nino Bielli, con il quale tornò in treno da Roma dove frequentava la scuola Allievi Ufficiali, dopo l’8 settembre 1943 (esperienza che trova una rielaborazione, almeno in parte, negli Appunti partigiani ’44-’45).

«Un solo sguardo, rapido e comprensivo, poi subito si diede a esplorare i viottoli e le stradine che rimontavano il versante, se non ci fossero pattuglie al lavoro. Nulla e nessuno, e allora si concentrò a studiare il paese. Era perfettamente, innaturalmente deserto e silenzioso, privo anche di quel brusio che pur si leva dal più piccolo borgo. Attribuì quella totale inanimazione al passaggio fresco fresco della colonna rientrata da Santo Stefano. L’unico segno di vita era il fumigare bianco e denso dei comignoli, il fumo bianco subito si mimetizzava nel bianco cielo bassissimo», racconta il narratore di Una questione privata. Oggi a colpire l’occhio dello spettatore che si affaccia dal Belvedere Unesco di piazza San Leonardo – accerchiata da gioielli dell’officina barocca astigiana come San Rocco –, è ancora la macchia di camini e tetti amaranto, che si estendono per chilometri e chilometri, interrotti soltanto da qualche sparuto albero. 

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Un paesaggio che si ammira meglio dal castello Gancia, notando un contrasto sempre più evidente. Al mondo rurale e al piccolo borgo medievale che un tempo l’ampio maniero giallo sovrastava, si è aggiunta una modernità che è un coagulo di capannoni e condomini che s’intrecciano a edifici storici e cascine piemontesi. Se l’industrializzazione ha creato aggregati asfittici e sacche urbane di cemento, oggi il turismo crescente, piovuto a cascata in tutto il Basso Piemonte anche grazie alla notorietà raggiunta dall’Albese, cerca un’autenticità di panorami e tradizioni sempre meno presente. Il visitatore trova ristoranti e strutture che propongono menù ed esperienze perfette per le bacheche social, ma viene sempre meno a contatto con le storie che l’antico passato canellese forse, ancora, sa custodire gelosamente. 

BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA

Marco Drago, L’amico del pazzo, Feltrinelli, 1998
Cesare Pavese, La luna e i falò, Einaudi, 2020 (introduzione di Wu Ming)
Beppe Fenoglio, Una questione privata, Einaudi, 2022 (introduzione di Nicola Lagioia)
Beppe Fenoglio, Appunti partigiani ’44-’45, Einaudi, 2007 (a cura di Lorenzo Mondo)
Giuseppe Ungaretti, Lettere a Bruna, Mondadori, 2017
Filippo Larganà, “La calda estate canellese di Giuseppe Ungaretti”, in Astigiani, dicembre 2012 (disponibile on-line)
Sapori del Piemonte, “La storia. L’ultimo champagnista piemontese” 
Massimo Branda, “Canellicentrismo”, 
La nuova provincia, “Canelli: Ilona Zaharieva modello di integrazione

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