La grande nevicata: nostalgia bugiarda
A metà giugno 2022 la top ten musicale degli Stati Uniti desta clamore in tutto il mondo. Dopo 37 anni dalla sua uscita, Running up that hill di Kate Bush fa capolino tra le canzoni più ascoltate in America con 17,5 milioni di ascolti. A decretare il nuovo successo della cantante britannica è l’ingresso nella colonna sonora di Stranger Things, una serie Netflix che rivisita gli anni ’80 in chiave sci-fi attraverso le vicende paranormali di quattro ragazzini della cittadina di Hawkins. E proprio la quarta stagione, uscita nel 2022, manda in visibilio i ragazzini su Tik Tok con una vecchia hit datata 1985. Lo stesso anno in cui in Italia si verifica un fatto ricordato come epocale, in cui «il ritmo delle stagioni bussava un’ultima volta alla porta», sospendendo la crescita inarrestabile del secondo Dopoguerra. O perlomeno è quello che tutti credono di ricordare dell’ondata di freddo che il saggio La nevicata del secolo (Il mulino) di Arnaldo Greco e Pasquale Palmieri mette al vetriolo, decostruendo la macchina della nostalgia e riflettendo su cosa siano stati gli anni Ottanta per il nostro Paese.
È vero che i ricordi di chi ha vissuto quei giorni di maltempo vanno tutti alle previsioni del colonnello Andrea Baroni, all’Angelus del Papa in una piazza San Pietro tutta bianca, alle partite di calcio rinviate, ai coraggiosi esploratori in Moon boot o agli sciatori improvvisati nelle città di tutta Italia. Ma è anche vero che c’è una storia sommersa di strutture crollate, come il palasport di San Siro o il velodromo Vigorelli, di sfollati dell’Irpinia lasciati al gelo, di polemiche e accuse reciproche tra Nord e Sud e di dibattiti parlamentari sulle responsabilità della Protezione civile. Così, con grande dovizia storica, i due autori di questo libro – uno autore televisivo, Greco, e l’altro insegnante di Storia moderna all’Università Federico II di Napoli, Palmieri – solcano la strada meno battuta, quella che, per una malinconia dilagante nella nostra società capitalistica, pochi ormai ricordano.
Il volume parte dalla cronaca dei giorni successivi al 6 gennaio 1985, quando temperature sempre più basse colpiscono il Meridione e grossi fiocchi cadono un po’ dappertutto, provocando disagi ai trasporti e ai servizi. Roma diventa per i media la capitale della crisi e il suo sindaco Ugo Vetere (PCI) viene messo sul banco d’accusa. Ben presto però, nella notte tra il 13 e il 14 gennaio, la traiettoria del freddo si sposta verso Settentrione e tra le sue vittime c’è la Pianura Padana con Torino, Venezia e Milano nella bufera. Il sindaco meneghino Carlo Tognoli (PSI), dopo aver attaccato il collega romano per giorni, si deve arrendere all’evidenza e chiama l’esercito per ristabilire ordine in città. I crolli del «palazzone di San Siro» e della copertura del velodromo Vigorelli testimoniano una fragilità inedita per la capitale economica, che l’accomuna all’esperienza di tante altre realtà lungo la penisola.
Nel frattempo i giornali fanno a gara a spiegare cosa sta succedendo, tra note di colore – Mario Rigoni Stern che sulla Stampa paragona il fenomeno alla ritirata di Russia del 1942 o Giuliano Zincone che sul Corriere accosta gli abitanti attorno alle sponde del Tevere alle tribù di aborigeni Wotjobaluk descritte da Lévi-Strauss – e tentativi di trovare antecedenti storici, persino tra gli scritti di Tito Livio. Imperversano gli interventi di Luca Goldoni, divenuto maestro di costume dopo il caso «amore in prima pagina», che loda «l’impegno dei bravi cittadini», mentre tante testate optano per avvertimenti medico-sanitari o si accapigliano sulle critiche e sulle responsabilità politiche. Un segnale che la nevicata fu tutt’altro che pacifica, anche perché gli studi meteorologici erano ancora a uno stadio piuttosto arretrato e nessuno era veramente in grado di capire cosa stesse succedendo, nemmeno gli esperti.
Una delle parti più interessanti del volume è proprio quella dedicata al mito del colonnello in televisione. È infatti con la grande nevicata dell’85 che nelle case degli italiani il meteorologo assume la fisionomia di un «sorridente amico di famiglia», che elargisce «consigli su come programmare al meglio la giornata, tenersi coperti per non ammalarsi, portare l’ombrello, vestirsi “a cipolla” per non soffrire il caldo, indossare la sciarpa per difendersi dal vento» (p.152). A tutti gli effetti è un personaggio guidato da una «missione civica» che, nei ricordi di chi ha vissuto gli anni Ottanta, sembra scontrarsi con le previsioni dei giorni nostri, affidate a smartphone e siti online anonimi e pieni di pubblicità, quindi fastidiosi e disumani. Tutto vero, ma nessuno si rende conto che i canali odierni a nostra disposizione sono molto, ma molto più affidabili e precisi di quanto venisse raccontato agli spettatori di quel periodo.
Con la testa fra le nuvole è il supplemento del Corriere della sera che il 20 gennaio 1985 getta sotto i riflettori gli «uomini che sorvegliano l’atmosfera», che in quei giorni stanno assumendo la celebrità delle star, un po’ come accaduto ai virologi nella più recente pandemia da Covid-19. È il primo di una lunga serie di segnali che i calcoli matematici non sono facili da leggere, sia per l’attrezzatura poco sviluppata (Internet e intelligenza artificiale non esistevano) che per la mancanza di coordinamento tra Stati. I bollettini sono attendibili soltanto per le successive ventiquattro ore e chi parla agli ascoltatori non ha coscienza fino in fondo di cosa sta per accadere in quel gennaio fatidico. Lo ammette anche Guido Visconti dell’Istituto di Fisica dell’Aquila: «L’interazione fra radiazione (solare o infrarossa proveniente dalla Terra) e nubi è uno dei problemi più oscuri delle scienze atmosferiche» (p.138). Perciò l’effetto sorpresa gioca un ruolo fondamentale in questa storia, mettendo a nudo le carenze del settore e aumentando il ricordo di un’anomalia.
L’allarme maltempo del 1985 funge allora come motore propulsore per lo studio dei cambiamenti climatici, facendo intuire le conseguenze negative dell’azione antropica, oltre a dare positivo impulso a finanziamenti da parte delle istituzioni, finora molto ridotti. Proprio quell’ultimo «giro di giostra» del meteo, che seguì i casi degli inverni straordinari del ’29, del ’46-‘47 e del ’56, fu la scintilla per iniziare a parlare di riscaldamento globale, come testimonia anche l’istituzione nel 1988 della Commissione intergovernativa sul cambiamento climatico da parte dell’Onu. Un fenomeno ora evidente e allarmante nella nostra contemporaneità, visto che fino a 25 anni fa nel Nord Italia nevicava sul 40% del territorio durante le feste natalizie, mentre nel 2023 il dato è sceso ad appena il 13% e al Centro e al Sud si sono registrati precipitazioni soltanto due volte nell’ultimo decennio (dati di Copernicus). Anche se non siamo esenti da negazionismi e complotti inventati nemmeno ai giorni nostri.
Ieri come oggi, comunicare mutazioni lente e poco improvvise rende i meteorologi vere e proprie Cassandre agli occhi di Governi e di semplici cittadini. Il linguaggio bellico usato sui giornali (proprio come avvenuto con il Coronavirus più recentemente) mostra l’incapacità di prendere consapevolezza su fenomeni di lunga durata, equiparandoli a momenti passeggeri, così come la memoria corta degli italiani che, dopo quei giorni di freddo in cui si discusse di «filtri sugli scarichi aziendali» e riduzione delle emissioni inquinanti, dimenticarono la faccenda del clima, ricordando soltanto fiocchi bianchi e spensieratezza. È qui che gli scienziati intuirono la difficoltà di spiegare «che la mancanza di piogge può favorire le alluvioni, e allo stesso modo è arduo comprendere che un aumento di temperatura in un angolo del pianeta possa stimolare l’arrivo di un’ondata di freddo polare a una latitudine opposta» (p.145).
Quindi suggerimenti per il weekend sì, meglio ancora per le neonate settimane bianche, ma indicazioni su passato e futuro dell’umanità, sempre più a rischio, no. Soprattutto in tv, che in quei giorni registra indignazione e scandali un po’ in tutta Italia. Ma di questo, a quarant’anni di distanza, rimane molto poco, sia perché il piccolo schermo ha perso il ruolo centrale che aveva in quegli anni, sia perché in una quotidianità in cui l’anniversario e la nostalgia sono funzionali alla vendita e al consumismo, appaiono molto più allettanti le memorie d’eccezionalità ed esotismo che quelle sui persistenti problemi del nostro Paese (trasporti, sanità, costo della vita). Così, «la rappresentazione estatica di quei giorni, sviluppata con molteplici mezzi di comunicazione e forme di espressione artistica, ha donato ai microcosmi della società degli anni Ottanta una sorta di ideale ricomposizione» (p.165).
E allora ecco che il riflusso, il terremoto dell’Irpinia, la banda della Uno bianca, Tangentopoli, la morte di Berlinguer, il muro di Berlino e la stessa nevicata si confondono in una narrazione che sempre di più traveste di nostalgia la Storia, unendo la memoria collettiva a quella individuale. Si cancellano complessità, problemi sociali e politici, per accostarli ai ricordi musicali, cinematografici e soprattutto pubblicitari. Il saggio arriva così al suo vero punto: «la tv, oggi, usa il passato per rendere intellegibile il mondo, fabbricando un’interpretazione del presente […] produce in noi un’illusione di presenza, inducendoci a credere di ricordare un evento storico, anche se in realtà ne stiamo solo introiettando la rievocazione in una prospettiva mitizzata» (p.175). Questo perché piano piano siamo tutti più vulnerabili ai suggerimenti commerciali, soprattutto quella generazione di over 60 che ha molta più disponibilità economica dei giovani e guarda molto di più la televisione.
Se l’oblio è una condizione essenziale per la memoria, tanto che se ricordassimo tutti gli oggetti, le persone e i luoghi della nostra esistenza impazziremmo di certo, la «retrotopia» moderna – per dirla alla Zygmunt Bauman – appare tendenziosa e legata a dinamiche consumistiche. È questo il disvelamento principale di Palmieri e Greco, la cui operazione fatta con un singolo avvenimento (la nevicata più celebre del Novecento italiano) per decretarne la falsità (non fu la più copiosa) e gli aspetti controversi (non fu così felice, né amata come si pensa) mostra un metodo attuabile con tanti falsi miti. Anzi, costituisce un grande esercizio di pensiero critico per ragionare sulla realtà che ci circonda e sulla sua rappresentazione sempre più mistificata, al di là di gelati, biscotti, magliette, cd e un’infinità di altri oggetti che sembrano ricordarci i nostri giorni migliori.
E se dopo tutto questo, avrete comunque ancora voglia di ascoltarvi il vinile di Running up that hill nel vostro giradischi o di cercare le polaroid scattate nell’inverno del 1985, nessuno potrà biasimarvi, ma almeno sarete più consapevoli dei meccanismi indotti da tv e aziende ogni giorno.