Andrea Tarabbia. Il demone a Beslan

22 Novembre 2011

Marat Bazarev è l’uomo che cammina con una testa di forca appesa alla cintura: è il demone e la vittima, il carnefice e il prigioniero, la fine e l’inizio, è Petja il bambino ucciso, e Ivan il vecchio deforme, Marat è anche l’unico attentatore sopravvissuto al massacro della scuola di Beslan in Ossezia.

 

Andrea Tarabbia nel suo romanzo Il demone a Beslan (Mondadori, pp. 350, euro 18,50) gli fa dono della parola, la sua unica possibilità di spiegare l’inspiegabile.

Una voce priva di suoni, come L’urlo muto di Edvard Munch, dalla cui bocca deforme fuoriesce un fiume di parole che invade in maniera capillare lo spazio della narrazione. La sua testimonianza ha un andamento sequenziale, un ritmo immutabile, entro cui l’autore tenta di circoscrivere il caos con cui si deve misurare.

 

Così come nell’inferno dantesco, Marat scende uno dopo l’altro i gironi di un mondo a lui noto, in cui si alternano i ricordi del suo villaggio distrutto dai soldati russi senza volto né pietà, le storie dei suoi compagni, i resoconti delle giornate trascorse in prigione con i fantasmi che vi aleggiano e il culmine della tragedia: il massacro nella scuola.

Non c’è nessuno che lo accompagna in questo viaggio, la scrittura è la sua unica guida. Una scrittura che sgorga dalla luce impietosa che illumina la sua cella negandogli l’oblio della notte e del buio: il carnefice di fronte a un giudice invisibile e la punta della matita che si trasforma in un indice puntato verso se stesso, un condannato a cui la redenzione appare quasi impossibile.

 

Anche le poche crepe nella dura corazza dell’assassino Marat fanno sollevare dei dubbi. La pietà per il suo gatto crocifisso sull’uscio di casa e il coltello offerto alla disperazione di una madre prigioniera nella scuola, che come alternativa può solo ridurre l’agonia dei propri figli, sono solo alcuni dei pochi momenti in cui Marat pare chiedersi cosa significa provare pietà e resistere alla facile giustificazione di un male necessario e una vendetta irrinunciabile.

 

Pochi momenti, poche parole, anch’esse al confine tra l’umana pietà e il male, che preludono allo sfogo rivolto all’amico Shamil verso la fine del libro: “Noi avevamo altre idee, altri progetti, noi non eravamo quello che siamo ora. Mi ascolti? Ascoltami, Shamil: noi volevamo vivere in pace, te lo ricordi?”.

 

Anche qui una sola frase, che deve reggere l’immenso peso della colpa e dei suoi demoni. E forse è davvero troppo poco. Probabilmente la complessità della materia da narrare pone problemi talmente difficili da risolvere, che l’intero romanzo sembra un grande specchio, la cui fedeltà agli eventi risulta talvolta vicina alla pura cronaca.

 

Resta il fatto che Il demone a Beslan è un libro che solleva molti dubbi e non si abbandona ad alcuna certezza: il suo pregio è saper suggerire senza retorica i grandi interrogativi sul senso del male, ma anche della pietà e della vita.

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