Pronti, credo. Slogan e immagini della destra

30 Agosto 2022

Pronti, credo. Due campagne della destra hanno attirato l’attenzione dei media: quelle della Lega e di Fratelli d’Italia. Due storie diverse. Da dove arrivano?

La prima, quella con il volto di Salvini. Torniamo a qualche anno fa, quando l’esplosione dei suoi consensi personali fu accompagnata da una martellante presenza social – si alternavano i messaggi truci e le degustazioni di Nutella – e una parallela campagna basata sulla riedizione del vecchio dito puntato dallo Zio Sam (“I Want You for U.S Army”) disegnato da Montgomery Flagg (1917), a sua volta una revisione del precedente “Your Country Needs You” inglese, con ditone e volto di Lord Kitchener, a firma dell’illustratore Alfred Leete (1914).

Puntare il dito dal poster vuol dire tante cose ma di sicuro in quei giorni per Salvini era l’intenzione di mobilitare nuovi sostenitori e portarli in battaglia contro qualcuno e qualcosa. Mentre si lasciava chiamare “il Capitano”, evocava una moltitudine crescente, e con quello stesso indice suonava al citofono di un condominio della periferia di Bologna (lei spaccia?) o additava la folla dopo aver baciato il rosario. Il dito di Salvini puntava anche su noi e toccava il mondo trasformandolo in territorio di conquista.

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Però l’arto del potente non è distinto, diciamo così, dalle articolazioni del potere. L’ingresso nel governo Draghi e, ancora prima, la caduta del governo che lo vedeva Ministro dell’Interno, segnano un indebolimento, una frenata nell’azione. Perché le sconfitte e le incertezze disperdono la truppa, sì, ma anche perché la direzione da intraprendere adesso è meno chiara, l’obiettivo non abbastanza nitido. Dove andiamo, Capitano?

Mentre la politica impone nuove fasi, ora quell’indice si nasconde in un pugno chiuso e, invece di arruolare la folla, le rivolge un incoraggiamento a distanza, quasi a dire “dai, ce la fai”. D’altra parte, dopo aver votato la fiducia al governo Draghi, a che pro sobillare l’esercito dei sostenitori? Da lì a poco la mano si ritrae del tutto, e sempre più spesso finisce per nascondersi tra le braccia conserte, dove si ferma e non può più agitare il mondo. Infine arrivano le dimissioni di Luca Morisi, responsabile fino ad allora dell’escalation comunicativa della Lega, che suonano come un definitivo smantellamento di quella stagione di parole e di gesti.

Ed è alla fine di questa discesa che arriva la campagna attuale, nella quale il ritratto si ritrae, ancora, ed è visibile solo in primo piano oppure, in qualche rara declinazione, mentre brandisce il pugno di cui sopra. Niente più indice puntato né I want you, va da sé, ma con la novità di un claim: Credo. Un verbo che, nel decalage di bellicosità appena descritto, potrebbe persino suonare come l’espressione di un’incertezza (“è così… almeno credo”) arrivato a compimento della progressiva perdita di sicurezze.

La verità non è molto lontana: questo Salvini che dà spazio alla voce interiore, all’intimo convincimento, è la prosecuzione estrema di quel ripiegamento. Credo equivale insomma un dito puntato non più verso il mondo ma su di sé. E appare come una sorta di training autogeno, il tentativo di farsi forza nel fuoco della lotta. Introspezione inedita, in una cultura politica rappresentata in logo non da interrogativi ma dallo spadone sguainato di Alberto da Giussano.

Salvini 2021 Post Draghi

Naturalmente, di questo claim non è sfuggito l’ambiguo riferimento al sacro. Il teologo Giuseppe Lorizio lo ha commentato su Avvenire, mettendo in guardia circa la ricchezza di significati della parola, e Salvini ha argomentato in risposta come il suo credere fosse invece da intendersi in modo laico. Basta in verità ascoltarne il testo completo, letto con intenzione grave da Pino Insegno, per avere la conferma di quanto cerchi l’imitazione e la musicalità della preghiera. Ma il modello produce il suo effetto. E visto che si tratta di una preghiera senza Dio, inevitabilmente nella ripetizione di questa prima persona singolare si avverte una sensazione di isolamento, di monologo solitario.

Chissà, forse il modello originario era il ben altro credere di Trump, ossia quel believe me che da candidato alla presidenza ripeté all’ossessione fino a farne il cripto-slogan, ben più penetrante del celebrato Make America Great Again, riedizione del claim Reagan-Bush nel 1980. Un intercalare del tutto irrituale, che trasformava il discorso politico in una conversazione personale e argomentava le proprie mirabolanti proposte inventando una divinità alternativa nella quale credere: egli stesso. E lì non c’è teologo che possa intervenire. Eppure la totale irresponsabilità di quei believe me bilanciò il suo straparlare, portando il comizio in uno spazio di assoluto spaesamento, mentre l’introspezione salviniana non sostanzia in nessun modo, né razionale né magico, l’autoreferenzialità delle affermazioni su quei manifesti. Ok, lui crede.

 

Altro il tragitto di Giorgia Meloni e del suo Pronti. Al singolare salviniano qui si contrappone il noi. Pronti a risollevare l’Italia, Pronti a difendere l’agricoltura, Pronti a valorizzare lo sport e difendere stili di vita sani… il claim parla a nome di una formazione che è plurale nel nome – Fratelli d’Italia – e vuole segnare un approdo storico per l’estrema destra italiana. C’è più di una ragione in realtà se la contesa in questi giorni si è spesso concentrata sul logo. Il punto non è solo la fiamma ma, se così si può dire, la forza balistica che da quel disegno promana, perché questo claim ne va considerato il finale in crescendo. Il simbolo di Fratelli d’Italia è una macchina del tempo, una sorta di spirale ipnotica in movimento i cui tre cerchi, uno dentro l’altro, ci portano a epoche lontane. Nel cerchio più piccolo, lo sappiamo, figura la fiamma tricolore che nella mitologia missina arde in eterno sulla tomba di Mussolini e fu disegnata da Almirante stesso, ex repubblichino e segretario dell’MSI, partito il cui nome fu ideato a evocazione di quello della Repubblica Sociale Italiana, RSI.

Meloni con fiamma

Non che serva qui il bignami dell’antifascismo, semmai è utile la sottolineatura della profondità storica custodita da quei segni grafici. Significativo che Giorgia Meloni, nei giorni della polemica, abbia difeso quel logo – “ne andiamo fieri” – definendolo “il riconoscimento del percorso” compiuto da quella che definisce “la destra democratica”. Un lungo tragitto è in effetti leggibile nel puro linguaggio visivo: a un’epoca segue l’altra, dalla fiamma si salta nel cerchio con il nome del partito e poi in quello più vicino al nostro sguardo con il nome dell’attuale leader. Un’autentica sequenza, che ne fa il logo più stratificato e saturo di passato tra quelli delle forze politiche principali. Per inciso, non soltanto non è alle viste l’eliminazione della fiamma ma, appena un anno fa, i giovani dello stesso partito hanno proposto anche il recupero della fiaccola che negli anni cinquanta era stata patrimonio simbolico dell’organizzazione giovanile dell’MSI, Giovane Italia, con parole ancora una volta ispirate al percorso: La stessa torcia che, da decenni, generazione dopo generazione, continuiamo a passarci l’un l'altro per custodirla ed assicurarci che il suo fuoco non si spenga mai.

“Pronti” insomma non è solo il claim reattivo di chi si fa trovare sul pezzo alla caduta del Governo Draghi, ma anche un avviso inviato alla storia del paese, arrivato da stagioni remote della politica italiana, e di quel logo che non smette di estendersi va considerato come un quarto cerchio, più vasto, dai contorni impalpabili, sparso sulla repubblica antifascista. Pronti dopo tanti anni, pronti dopo tanto attendere. Qui c’è il viaggio politico di una formazione nata minoritaria, da una scissione di Alleanza Nazionale, per la quale dichiararsi “pronti a" è anche toccare con mano la possibilità di essere non più formazione ancillare della coalizione ma addirittura sua guida. E anche se il claim è plurale, il noi si scioglie volentieri in un singolo volto che governa il manifesto.

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