Piero Manzoni 1959: mitografo e “scienziato”
Quarto appuntamento con le "Bolle di sapone" di Michele Dantini, serie dedicata all'arte italiana contemporanea nei suoi molteplici intrecci con eredità culturale, società e politica. I primi tre interventi hanno riguardato Giulio Paolini, Marisa Merz e Francesco Vezzoli. Adesso è la volta di Piero Manzoni: la cui importanza, nell’ambito della discussione sull’“identità” italiana postbellica è tanto grande quanto passata sottotraccia. La posizione di Manzoni è innovativa e spiazzante. Tuttavia neppure questa rubrica avrebbe potuto chiamarsi “Bolle di sapone” (la citazione è da Pascali, che definisce così le sue Sculture bianche) se Manzoni non avesse escogitato i suoi Achromes.
“Oggi la conoscenza sperimentale sostituisce la conoscenza immaginativa...
Si richiede il superamento della pittura, della scultura, della poesia e della musica”
Lucio Fontana, Manifiesto blanco, 1946
“Quando noi abbiamo cominciato ad avere un po’ di spazio e, come tutte le generazioni,
abbiamo definito le nostre ascendenze i due casi riportati in ballo furono Manzoni e De Chirico”
Luciano Fabro, 1986
L’interpretazione monografica di una singola opera è una sorta di esercizio al trapezio per lo storico dell’arte. Il salto riesce o non riesce. L’abituale ricorso a pezze d’appoggio manualistiche, vacuità dottrinarie o pensose parafrasi fallisce. Dunque Piero Manzoni 1959. Perché un Achrome con ami da pesca? [fig. 1]
Innanzitutto. Gli Achrome con “aggancio” o “ormeggio” sono tre, tutti del 1959. Con ami, gancio e anello [fig. 2].
Figura 2
Piccole “sculture” che hanno ricevuto scarsa considerazione nella letteratura critica, forse per la loro enigmatica singolarità; o per meglio dire “assemblaggi” vestiti di bianco, verosimilmente sul modello di Cy Twombly [fig. 3], che al tempo ha da poco esposto alla galleria milanese del Naviglio, risiede a Roma e (proprio nel 1959) riceve un fervido omaggio di Enrico Villa sul primo numero della rivista Appia antica, dal titolo Cy Twombly talento bianco – omaggio che certo non sfugge alla mobilissima attenzione di Manzoni.
Figura 3
I tre Achromes si inseriscono a mo’ di cerniera nella produzione dell’artista. Esiste l’evidente proposito, da parte di Manzoni, di connetterli agli Achromes bidimensionali attraverso la scelta del “bianco”. Al tempo stesso manifestano forse una prima insofferenza riguardo alla ripetizione dello standard, che infrangono senza esitazione. Riflettono inoltre, questa la mia tesi, un mutamento per così dire geopolitico di Manzoni, i cui modelli a venire saranno sempre meno continentali e (malgrado opinabili affermazioni storiografiche in senso contrario) sempre più americani.
Roma dunque non meno di Milano attorno agli Achromes “prensili”. E un editor “orfico” (tutt’altro che concretista!) come Villa che porta l’attenzione sui temi, cari a Manzoni, del “mito”, del viaggio e dell’”origine”. Voglio suggerire che interessi simbolici, archeologici o genericamente letterari aleggino attorno ai monocromi di Manzoni, malgrado le sue esplicite e ripetute smentite? No: l’errore sarebbe formidabile. La tradizione entro cui si iscrive l’artista è quella modernista-radicale e duchampiana della “verifica”: una tradizione antiletteraria. Desidero però richiamare l’attenzione su un’inedita complessità di elementi fantastici, genealogici, geografico-culturali che le interpretazioni oggi correnti, condotte in chiave concretista e “materiologica”, per lo più debitrici di Germano Celant, non riescono a cogliere né a tematizzare.
Figura 4
L’attività matura di Manzoni si apre (pressoché ossessivamente) nel segno della “chiave”, dunque con un invito, rivolto all’osservatore, a indagare l’immagine e muovere oltre le apparenze [fig. 4]. Un confronto iconografico, che mi pare indiscutibile, rivela quanto sia acuta la capacità di autoposizionamento dell’artista, certo più evoluta della mera abilità tecnica. Dal punto di vista del ritratto picassiano di Wilhelm von Uhde (1910), fonte imprevedibile e negletta dell’acerbo Domani chi sa (1956) manzoniano, la “chiave” apre al mondo della veggenza. La vediamo disegnata in basso a sinistra, a mo’ di emblema, nel ritratto del critico, collezionista e gallerista tedesco, al tempo appena divorziato da Sonia Terk (in seguito Delaunay-Terk) [fig. 5]. In Domani chi sa l’impronta di una chiave è ripetuta innumerevole volte entro un’area che riproduce la sagoma di Uhde, la posizione di tre quarti del volto, l’inconfondibile piega della piccola bocca serrata in un imperativo silenzio. Al di là del motivo ideografico, sono proprio le affinità profonde a convincerci di un rapporto genealogico tra le due immagini.
Figura 5
Manzoni è abile a dotarsi di una tecnica indiretta e a risolvere in termini di meccanica figurativa il particolare della chiave, che Picasso in effetti ripropone, quasi a suggerirne un impiego modulare, nel mento e nelle orecchie dell’amico e protettore. Con Domani chi sa ci muoviamo entro retoriche inassimilabili agli orientamenti nucleari. La pittura “cubista”, insegna Picasso al giovane Manzoni, esplora territori immateriali, ignoti all’immagine naturalistica, sia pure “totemica” o grottesca; e soprattutto visualizza processi creativi. Ricostruiamo l’intima inquietudine di Manzoni: desidera farsi conoscere ma sa di non poter contare sull’attenzione della critica più accreditata, che non lo comprende o lo ignora. Si sforza dunque di promuovere la novità della sua ricerca disseminando emblemi che invitano a approfondire.
Che cosa cattura l’amo? Che cosa si appende al gancio? Quale “vitalità” si lega all’anello? Queste le prime domande. E poi: in che senso “bianco”?
“Ho pensato a quelle strane forze che ci legano, a quelle cose che non sappiamo se siamo noi o cos’altro sono; revenants, forze, spettri? [Ho pensato] al mito che in un certo senso si agita in noi e ci dà forma” (Piero Manzoni, Diario). Se considerata dal punto di vista dello studente di filosofia che, abbandonati gli studi di diritto, decide improvvisamente di trasferirsi a Roma pieno di tormentosi interrogativi generazionali sull’eredità culturale, l’annotazione è carica di implicazioni artistico-culturali e in senso lato politiche. Manzoni giunge nella capitale tra la fine del 1954 e l’inizio del 1955. Vi cerca il “mito solare”. Si tratterrà a Roma meno di un anno, ma proprio nella città pontificia, scopre (dechirichianamente?) che “l’Italia è una città che dorme”; e che “noi latini non possiamo non dirci cattolici”.
Il Diario che Manzoni tiene tra 1954 e 1955 non è prodigo di riferimenti all’arte contemporanea: se eccettuiamo la certa ammirazione per il Picasso “classico” e un più ambivalente omaggio a Dalì potremmo supporre, forse sbagliando, che il futuro artista (e al tempo pittore domenicale) sia pressoché digiuno di articolate cognizioni figurative. E’ tuttavia senz’altro pronto a considerazioni identitarie. “La vita è rito religioso”: nell’aforisma troviamo sedimentate le esperienze letterarie del giovane Manzoni, che nello stesso periodo cita più volte Proust e Rilke. I temi della “memoria involontaria”, dell’”atavismo” e della trasformazione sembrano essergli ben presenti: è ben per questo che riflette sui “miti” e la loro persistenza o si dibatte tra fedeltà (a “famiglia, patria, eroismo, pensiero”) e “emancipazione”.
Gli Achrome del biennio 1957-1959, a riquadri o con fascia di iuta increspata, acquisiscono impassibilmente il fato amletico dell’artista contemporaneo e lo espongono come cosa certa. Nessun cedimento emozionale: il punto di vista è antipsicologico e normativo, dogmatico ( Cfr. Emilio Villa, Piero Manzoni, in Attributi dell’arte odierna, 1947/1967, Le Lettere, Firenze 2008 - 1970). E’ quel che è e urgono compiti di “verifica”. Alla data considerata, Manzoni si colloca nel punto esatto di intersezione tra spazialismo e orfismo, concretismo e metafisica. Rifiuta tutto ciò che non inerisce plasticamente all’oggetto-quadro – non è ancora il momento di celebrare performativamente “corpo”, “vitalità” e “fisiologia” – ma al tempo stesso riconduce questo stesso oggetto a un umile ruolo di servizio. L’Achrome è utensile, indice, “parte” di una totalità inattingibile; “specchio”.
Quello che davvero preme a Manzoni e che lo pone in rotta con la tradizione astratto-concreta, non sta dentro l’immagine o la sua cornice: ma fuori e ha a che fare con la decifrazione e consacrazione artistica di un’“epoca”. I primi Achrome costituiscono come un corroborante passo indietro rispetto alle angosciose riflessioni sul “revenant” affidate al Diario, da cui, nell’inverno 1957-1958, ci separano ormai quasi tre anni. Nell’Achrome Manzoni sospende la propria attività quasi a prefigurare il Delfo di Giulio Paolini (1965); si ritrae, scrutina e al più formula “ipotesi”. Il dramma identitario è alle sue spalle. Non cerca risposte: con l’abrogazione di forme e colori ha già “trovato” e dischiuso la situazione in atto. Il bianco è il colore (o non-colore o meta-colore) della latenza. All’artista spetta un ruolo indiretto. Tace perché ciò che deve manifestarsi, il “mito” o l’“origine”, si manifesti emergendo dal “substrato collettivo”, sia o meglio viga, in senso evenemenziale.
Al tempo in cui inizia la produzione dei primi Achrome, nell’autunno del 1957, l’atteggiamento di Manzoni non è quello dell’artista-sacerdote o dell’iniziato. Al contrario: è quello del ricercatore in laboratorio o dell’etnografo sul campo, a caccia di miti. Non interferire con l’esperimento (l’osservazione o la raccolta) è il solo obiettivo prefissato. I “risultati” attesi sono quelli che si autodeterminano. Non a caso insiste con lessico scientifico sui “metod[i] di scoperta”. L’Achrome è per lui prioritariamente un dispositivo sperimentale, una “zona di immagini” o meglio un congegno a funzionamento mitografico: uno “schermo” su cui, con il tempo e in modo del tutto preterintenzionale, potranno (o potranno non) dispiegarsi “miti” fondativi e propagarsi nuove divinità. L’artista è un “innovatore”, scrive: non un poeta e neppure un profeta, piuttosto un maieuta (taluni al tempo avrebbero detto “fenomenologo”: legittimamente). Un ricercatore ingegnoso e tenace, persuaso (senza dubbio da Lucio Fontana) del primato della “conoscenza sperimentale” su quella “immaginativa”. L’invenzione (o “inventio”, come Manzoni stesso la chiama) è perciò tecnico-linguistica: consiste nella messa a punto di una macchina “celibe” posta al servizio della collettività. Non ha a che fare con il sogno (anche se può proporsi di destarlo) né con l’“espressione” di stati d’animo individuali.
Stabiliamo un punto. Il “bianco” degli Achromes, il loro “immacolato stupore”, equivale sì a un punto di domanda, dunque a una sottrazione di colore, ma in nessun senso a una riduzione pre-poveristica o protoconcettuale destituita di senso specifico. L’adozione del tono neutro, seriale e distintiva, è sin dall’inizio consacrata all’ambivalenza – ambivalenza che l’artista si guarda bene dal risolvere. Il “bianco” corrisponde alla posizione terza che l’artista sceglie per sé in partenza, in quanto autore di “verifiche”: né affermativa né distruttiva. Traduce inoltre plasticamente il partito preso antiromantico che echeggia perentorio nei manifesti, non solo nei più precoci, e che rimanda a una tradizione primonovecentesca di “valori plastici” e “moralità” sovraindividuali. Il “bianco” ha presupposti anti-stilistici. Tuttavia sollecita in modo potente la nostra memoria storico-artistica perché il candore è prerogativa della statua. “L’arte”, stabilisce Manzoni in Metodo di scoperta, breve testo databile al 1957, “ha sempre avuto un valore religioso”. Appunto. E a distanza di alcuni anni, in corrispondenza con Juan-Eduardo Cirlot, critico e poeta surrealista spagnolo, chiarirà che uno “spirito classico è sempre alla base della nostra pittura”. Può senz’altro accadere, e di fatto accade, che l’”accertamento” diventi a sua volta immagine; e che la “latenza del Mito” evolva nel Mito della latenza.
Non c’è alcuna necessità di ritenere che l’Achrome nasca come residuo ironico di una qualsiasi piazza d’Italia dechirichiana, assolata e spettrale, o di un candido “figliol prodigo” metafisico; sarebbe fuorviante. Tuttavia neppure le retoriche “analitiche” o tautologico-formalistiche in auge sin dagli anni Settanta nella letteratura critica su Manzoni, amabilmente condotte in chiave International Style, rendono giustizia alla densità semantica del “bianco” dell’artista, ai suoi frequenti slittamenti metaforici (tutt’altro che contraddetti; anzi accompagnati da specifiche affermazioni dei manifesti) o al molteplice gioco con i detriti della memoria storico-artistica e dell’eredità culturale primonovecentesca. Soprattutto precipitano l’Achrome nell’equivoco “retinico”. Possiamo invece affermare, ragionevolmente rispettosi della duplicità, che negli Achromes del primo periodo, anteriori alle Linee, mitologie della “luce” e della quarta dimensione da un lato, “metod[i] di scoperta” dall’altro coabitano assieme pressoché in ogni momento, anche se in modi (e con equilibri) diversi in circostanze e occasioni diverse. Il compito di evocare il “mito” o designare l’“epoca” separa l’Achrome manzoniano dal semplice quadro-oggetto così come dall’opera d’arte programmata. In oscillazione strategica tra “autonomia” e “eteronomia”, per citare Luciano Anceschi, tra divinazione e scienza, il “bianco” si tiene in un rapporto ritroso, mediato e sibillino con i processi storici e sociali, di cui (ma certo non per iniziativa dell’artista) potrà eventualmente propiziare la cristallizzazione simbolica.
Si getta un amo perché ci si attende che il pesce abbocchi. All’anello si lega un cane, una barca, una sporta della spesa. Si cerca un gancio ogni volta che dobbiamo appendere alla parete un quadro o un vestito. Che cosa potrà mai rivendicare un Achrome, o trattenere presso di sé?
Figura 6
La produzione duchampiana degli anni prebellici e l’intricata serie di studi attorno al Grande vetro (1915-1923), interpretabile nel suo insieme come una sorta di istrionico “taccuino” leonardesco messo assieme dallo stesso Duchamp, sono attraversati da bizzarre saghe sartoriali [fig. 6, fig. 7]. Le origini immediate della metafora sartoriale – il quadro come “idea” cui occorre conferire stile, che occorre dunque “vestire”, “abbigliare”, mettere in piega – sono da cercare nella cultura artistica francese di fine Ottocento, nella descrizione monetiana del dipinto come enveloppe (“involucro”) o nelle maliziose stiratrici di Degas; nella riduzione Nabis della pittura a policromia ornamentale o nelle leggendarie attività di misurazione intraprese da Seurat.
Figura 7
Non è questa la sede per addentrarsi in una minuziosa, e verosimilmente vana, interpretazione del Grande vetro, il cui titolo, La fidanzata messa a nudo dai suoi celibatari, anche, aggiunge feerico mistero all’immagine anziché aiutarci a decifrarla. E’ sufficiente dire che la composizione si presenta come un dittico, è incompiuta ed è stata programmaticamente concepita da Duchamp come narrazione cinematica: ha caratteri di sequenza, di catalogo o repertorio simultaneamente dispiegato davanti ai nostri occhi ben più che di immagine unitaria ( Cfr. Michele Dantini, Macchina e stella. Tre studi su arte, storia dell’arte e clandestinità: Duchamp, Johns, Boetti, Johan & Levi, Milano 2014, pp. 9-41). Al suo modo caustico, Duchamp inscena l’impasse dell’arte contemporanea, predestinata (a suo avviso) a un vacuo formalismo. Non ha alcuna fiducia nella scuola “cubista” e trova anzi che l’impegno teorico di taluni seguaci di Picasso e Braque, come Gleizes e Metzinger, sopravvaluti meriti e potenzialità della svolta prefigurando patetici fallimenti. Se Braque affigge un chiodo a trompe-l’oeil nella celebre natura morta con Violino e brocca (1910), quasi a illustrare nel modo più vigoroso i propositi di ricostruzione plastica dell’universo, Duchamp risponde in Tu m’, la sua ultima tela (1918), simulando uno strappo della superficie pittorica, dunque la morte (del quadro) e lo sfregio [fig. 8, fig. 9].
Figura 8
Assumiamo pure (semplificando non poco) che gli “stampi” maschili, cioè le “uniformi” dei “celibatari” del Grande vetro, siano per Duchamp metafora dello stile, o meglio delle diverse opzioni stilistiche disponibili [fig. 6]. La “fidanzata” è l’“idea”: tumida, lusingata, fugace, si accende e corrisponde al desiderio erotico dei suoi corteggiatori. Mai però al punto da congiungersi definitivamente a uno di essi; e generare. L’“idea” non trova lo “stile” e viceversa. Girate le spalle alla natura, quadri e sculture non riescono a trovare una forma comprensibile e duratura, un equilibrio nuovamente “classico”. Sono retoriche in cerca di un argomento insigne.
Figura 9
Il Grande vetro è una reinterpretazione del mito di Edipo e la Sfinge condotta da corrosivi punti di vista crepuscolari, del tutto antinostalgici: un’allegoria professionale, se preferiamo, o meglio un “accertamento” dello stato contemporaneo delle belle arti in cui persino qualcosa delle inquietudini erotiche del Tannhäuser wagneriano è beffato e preso di mira. Giunta a un ultimo climax con Matisse, la pittura, per Duchamp, diviene una bagattella commerciale ammantata di inutile mistero. L’artista affida dunque a spogli readymades il compito di comunicare il proprio intento scismatico e il gaio furore distruttivo.
Figura 10
Come abbigliare la “fidanzata”? Quali tecniche, quali stili, quali motivi adottare? Quali abiti appendere al gancio dell’arte e dell’immaginazione futura? Se lo Scolabottiglie duchampiano (1914) pone per primo la domanda, protendendo nel vuoto sostegni dalle apparenze divenute ortopediche, L’Appendicappello o il Trabocchetto del 1917 ci conducono nella più stretta prossimità ai tre Achromes da cui siamo partiti, eventualmente in compagnia di un’enfatica variazione sul tema di Man Ray, la teatrale Ostruzione (1920). Anche la posizione terza che Manzoni sceglie per sé presuppone “gancio” e attesa [fig. 10]. Né bouffonnerie sola né afflizione metafisica, dunque. Invece un’attitudine trattenuta e interrogativa, “scientifica” o meglio: maieutica.
* Una “extended version” del presente saggio con un più ampio e esaustivo apparato di note è in corso di pubblicazione su Predella #34, estate 2014.