Franco La Cecla. Falsomiele, il diavolo, Palermo
Caruso si muove per Palermo senza sapere bene dove andare con l’aria un po’ blasé dei colti trentenni col precariato segnato sulla faccia, condizione assunta necessariamente a stile di vita, capelli spettinati, barattolo del caffè sempre alla fine; conosce bene la sua città, ma non ha mai messo piede a Falsomiele, quartiere dimenticato dalle guide turistiche, a ragione direi, visto che altro non è che una borgata di case popolari che si innesta fra una montagna e un cavalcavia.
Eppure Falsomiele diventa il titolo di questo romanzo; è un nome ossimorico, che seduce ma annuncia delusione, un po’ come le donne siciliane, dice Caruso, tentatrici ma disperatamente inaccessibili. La scelta di questo titolo non ha solo funzione allusiva: l’ossimoro è infatti la cifra del romanzo di Franco La Cecla, il suo motore interno, la struttura complessa che lo muove e sviluppa. Palermo è una città ossimorica: dopo la visita a Falsomiele Caruso ci porta nella preziosissima cattedrale di Monreale, ed ecco mostrarsi l’essenza della città: un luogo fatto di tanti luoghi e epoche, stratificati l’uno sull’altro, in cui nulla si sostituisce a nulla, tutto permane e si mostra in una innaturale contemporaneità. Palermo si presta così a essere il teatro di questo Faust ultracontemporaneo in cui la labilità dei luoghi suggerisce la vera tentazione dell’uomo di oggi, quella di essere ovunque, di tenere tutto insieme, appropriarsi di quella qualità che ci appare squisitamente divina: l’ubiquità. Anzi ubiquity, perché il diavolo tenta in lingua inglese e preferisce comunicare per email, dall’indirizzo agenziaurbietorbi@malo.it.
Caruso riceve da Volpes, un Mefistofele che assomiglia più al manager rampante di qualche finanziaria multinazionale che al belzebù comunemente concepito, un bonus di ubiquità, che gli permette di trovarsi, quasi contemporaneamente, a Palermo, Parigi, in Tunisia, a Berkeley, in Ecuador. Ogni luogo un ricordo, una relazione, una donna, in un intrecciarsi di immagini che si confondono l’una nell’altra, lasciando il protagonista nel dubbio di aver sognato, o addirittura solo ricordato, e con la terribile sensazione di star perdendo qualcosa… quell’antica parola, che oggi pare non aver alcun significato, e che dunque si cede senza grandi pentimenti, forse il totem di una filosofia antica, facilmente rottamabile: l’anima.
Ma ossimoro non è antitesi: Falsomiele è un vocabolo unico, in cui i termini opposti si intrecciano e integrano; anche l’adesione al progetto diabolico di Volpes implica già la sua risoluzione in una realtà più ampia e complessa in cui male e bene si complicano e in cui riemerge il senso della frase del Mefistofele di Goethe: “Sono una parte di quella forza che vuole sempre il Male e opera sempre per il Bene”. Ecco apparire infatti l’altro nume di segno opposto, Andronico, il creatore, al secolo gestore di un piccolo chiosco di Gela, venditore di bibite e i numeri del Lotto; Volpes, il suo migliore collaboratore, come tradizione vuole, ha voluto ribellarsi per lucrare sul simulacro dell’ubiquità, da vendere caro alle anime umane. Le email di Andronico a Caruso dall’indirizzo deusexmachina@infinito.it sono meravigliose: è Dio che parla, un Dio ferito, umile, che autoironicamente mostra la necessità del limite, e che non si capacita di come l’uomo si faccia un’idea tanto inflazionata delle qualità del creatore.
Egli sta a guardare attonito il dimenarsi esagerato di questa umanità e scrive: “È probabile che il supremo essere non abbia così tanta voglia di essere ubiquo come voi. […] Il problema è che a un certo punto anche lui si è costretto all’imitazione. Pur di potervi stare dietro, dà retta alle fandonie metafisiche che si moltiplicano, dalla Divina commedia a quelle di Jodorowski. Tutto per dare una parvenza di verità ai vostri balbettìi.”
Il romanzo tocca temi complessi in un modo squisitamente leggero e divertente; la scrittura rifiuta qualsiasi barocchismo e arriva diretta al cuore dei problemi giocando con citazioni, mitologia, antropologia in un turbine di suggestioni che lasciano senza fiato, spaesati, come se fossimo noi i beneficiari del diabolico bonus e camminassimo sulla superficie concava dell’abside di Monreale, sprovvisti di un sopra o un sotto che ci facciano da punti cardinali, costretti a ogni pagina a riorganizzare il nostro equilibrio, in metamorfosi continua, incapaci di trovare un orizzonte, nessun luogo dove poter definitivamente sostare.