11 marzo 2011 / Fukushima mon amour

11 Marzo 2019

Pika!

 

L’11 marzo 2011, sulla costa est del Giappone, si è verificato un triplo incidente, nell’ordine: terremoto del Tōhoku di magnitudo 9, tsunami con onde alte oltre 10 metri e catastrofe della centrale nucleare di Fukushima Daiichi. 15.703 vittime accertate, 5314 feriti, 4647 dispersi. Nel giorno in cui ricorre l’ottavo anniversario, in un Paese che, secondo il discorso pubblico dominate, è tutto proiettato all’organizzazione delle Olimpiadi del 2020, vale la pena interrogarsi sul suo impatto sull’arte.

Nei giorni che seguono l’11 marzo gli artisti giapponesi sono sotto choc, come il resto della popolazione: l’arte è incapace di affrontare un trauma di queste proporzioni. Alcune voci scuotono da subito le coscienze: restare con le mani in mano è un nonsense, come sostiene in un messaggio video accorato Ellie, leader del collettivo giapponese Chim↑Pom. 

Fondato nel 2005, è composto da sei membri poco più che ventenni (Ellie, Ryūta Ushiro, Yasutaka Hayashi, Masataka Okada, Toshinori Mizuno, Motomu Inaoka) che bazzicano la Bigakkō, una scuola d’arte anti-accademica di Tokyo. Erede di una tradizione dada e situazionista, segnato da un forte impegno sociale e da un’estetica caustica che ha valso ai suoi membri l’appellativo di “moralisti nichilisti” (Alan Gleason), Chim↑Pom si distingue da subito nel panorama dell’arte giapponese contemporanea. In Black of Death (2007) un corvo impagliato è trasportato per le strade della capitale su una motocicletta o una macchina, assieme a un megafono che diffonde il suono del suo gracchiare, attirando presto stormi di corvi al suo seguito. Quando per la prima volta ho visto il video alla biennale di Lione nel 2017 (Mondes flottants), ho trovato la scena irresistibile; una domanda tuttavia s’insinuava: che siano corvi del malaugurio, immagini della minaccia nucleare?

 

Chim↑Pom, Pika.


La questione del nucleare fa capolino nel lavoro di Chim↑Pom già nel 2008 con Making the Sky of Hiroshima ‘PIKA!’. Sui cieli di Hiroshima, precisamente sopra l’Atomic Bomb Dome, gli artisti fanno scrivere la parola onomatopeica “PIKA”, che sta per il lampo della bomba atomica. Due caratteri tracciati in modo approssimativo, cancellati man mano dal vento. Le voci delle vittime, c’era da aspettarselo, si levano presto contro questo gesto incomprensibile e irrispettoso, inconsapevoli delle intenzioni artistiche, ovvero mostrare l’ambivalente volontà di ricordare e, assieme, di dimenticare l’evento traumatico. Segue la cancellazione della mostra di Chim↑Pom prevista all’Hiroshima City Museum of Contemporary Art. Il collettivo non si limita ad incassare l’insuccesso causato dalla loro palese leggerezza e instaura un dialogo fruttuoso con diverse associazioni di sopravvissuti, che li rende più sensibili al modo di affrontare un tema così complesso. Ne faranno tesoro per un futuro prossimo.

 

In tempo reale

 

Tre anni dopo è il momento di Fukushima e Chim↑Pom è sul piede di guerra. Pochi giorni dopo l’11 marzo compiono un’azione eclatante alla stazione metropolitana Shibuya di Tokyo, una delle più frequentate dai pendolari. Nella hall principale troneggia il murale Myth of Tomorrow di Taro Okamoto che commemora la tragedia nucleare. Ispirandosi allo stile del pittore, Chim↑Pom realizza un pannello aggiuntivo con i resti ancora fumanti delle centrali nucleari di Fukushima. Installato clandestinamente verso le dieci di sera, ignorato dai primi passanti, twittato e diffuso profusamente sui social media in meno di due ore, questo supplemento è rimosso il giorno dopo dalla polizia in quanto atto vandalico. Siamo alle solite, ma questa volta Chim↑Pom non demorde.

Nei giorni che seguono l’11 marzo i membri del collettivo sono abbracciati e raccolti a cerchio con altre persone; sullo sfondo s’intravede una barca capovolta (KI-AI 100). Con impeto guerriero, gridano slogan a caso (“Compra spinaci!”) assieme ad altri legati al nucleare: “Lunga vita ai disastri nucleari!”. Gli altri partecipanti sono abitanti di Soma, toccata dallo tsunami, e aiutati dal collettivo a risistemare, per quanto possibile, i loro quartieri distrutti.

 

Taro Okamoto, Myth of tomorrow.


Un mese esatto dopo il disastro di Fukushima, l’11 aprile 2011, è il momento di Real Times, primo intervento nella Exclusion Zone, zona rossa di 20 km, radioattiva, disabitata e inaccessibile a ogni presenza umana, e che ha portato al trasferimento di 150.000 residenti. Viene chiamata anche, con un eufemismo, “la zona in cui è difficile tornare”. Nel video scorgiamo due uomini coperti dalla testa ai piedi da tute protettive che – come veri e propri Stalker – penetrano clandestinamente nella Zona, attraversando strade deserte piene di crepe causate dal terremoto. Raggiungono una terrazza panoramica prospiciente il mare, utilizzata dalla popolazione locale per ammirare la prima alba dell’anno nuovo. Diverso lo scenario che si spalanca sotto ai loro e ai nostri occhi: è una giornata ventosa come dimostra l’audio del video, saturato dal rumore delle loro tute; sullo sfondo svetta non la cima di una montagna sacra ma il reattore 1 della centrale nucleare ancora fumante. I due uomini srotolano una bandiera bianca su cui disegnano un sole rosso con una bomboletta spray. La bandiera del Giappone? L’illusione evapora in un battibaleno: si tratta in realtà del famigerato trifoglio che indica il pericolo radioattivo. La bandiera sventola, immagine di quello che noi, guardando il video, possiamo solo immaginare, ovvero l’atmosfera tossica cui si espongono in quel momento gli artisti, in quel Real Times captato dalla telecamera. 

Per esteso, il titolo si riferisce al modo in cui i media stanno riportando il disastro, tra annunci allarmanti, versioni contraddittorie, notizie tecniche incomprensibili, proclami politici ufficiali, silenzi delle autorità sul futuro del nucleare. Seguendo Miwako Tezuka, il titolo contiene anche un’assonanza ai Modern Times di Charlie Chaplin nonché al Japan Times e al mondo dell’informazione.

Un’azione incisiva quanto l’anonima Finger Pointing Worker (2012), diventata virale grazie a un video dove un uomo si riprende davanti alla telecamera a circuito chiuso dell’impianto nucleare, puntando il dito in direzione dell’obiettivo per un quarto d’ora. Immagine icastica, silente e potente accusa, che preferisco alla celebre serie di Ai Weiwei con il dito medio puntato contro monumenti in giro per il mondo, studi prospettici, come li chiama, di cui mi sfugge l’interesse.

 

Curatorial team di don't follow the wind.


Non seguite il vento

 

Presto Chim↑Pom entra in contatto con gli ex-residenti di alcune città come Futaba e Namie vicino Fukushima, costruendo uno spirito collettivo e una comunità d’intenti. Così, agli inizi del 2013, nasce quello che resta il loro progetto più ambizioso: Don’t Follow the Wind. Il titolo si riferisce a quei giorni terribili che seguono l’esplosione della centrale nucleare, quando le autorità invitano la popolazione ad abbandonare la loro terra dirigendosi verso nord. Un abitante di Fukushima con l’hobby della pesca e la capacità di “leggere” i venti, si accorge che non solo il vento ma anche le radiazioni soffiano verso nord. Decide così di trasgredire le istruzioni dirigendosi nella direzione opposta, salvando di fatto la sua famiglia.

Non seguite il vento è un ammonimento che viene dall’esperienza popolare e non dalla scienza, un’istruzione anonima per sopravvivere in un’era post-atomica. Un vento invisibile non diversamente da quell’atmosfera che, nel corso della storia dell’arte, i pittori si sono sforzati di rappresentare, servendosi ad esempio delle nuvole. Per esteso, il titolo si riferisce a quel venticello che porta voci da altrove, “rumors” che contraddicono la versione ufficiale del disastro trasmessa dalla stampa e dalla televisione, che minimizzava i rischi altissimi cui è esposta la popolazione.

 

Chim↑Pom, Real Times.


Visitando la Zona, Chim↑Pom passa attraverso spazi evacuati in poche ore in fretta e furia, appartamenti abbandonati nell’emergenza, senza il tempo di raccogliere l’essenziale, di scegliere cosa portare con sé e cosa lasciare lì probabilmente per sempre. Il paesaggio post-nucleare che si dispiega al loro sguardo è lontano da quello catastrofico generato dal terremoto e dallo tsunami. Dei tre disastri, quello nucleare è il più insidioso, quello dalle conseguenze più durature, ma anche il meno visibile e pertanto il meno comprensibile. La difficoltà di rappresentarlo è agli antipodi delle immagini del disastro che saturano i media e la nostra immaginazione. E se le città possono essere ricostruite, nessuno sa come sbarazzarsi delle radiazioni.

Chim↑Pom è interessato a lavorare non sullo scenario devastante del terremoto o dello tsunami, ma sugli effetti fisici e psicologici delle radiazioni. Raccogliendo la sfida, Chim↑Pom fa, di questa invisibilità stessa, la sua materia prima, senza trasformarla in altro da sé. Non sfuggirà lo scarto decisivo nella storia della rappresentazione del nucleare: durante il modernismo gli artisti – da Baj a Warhol – erano attirati dalle immagini più iconiche delle esplosioni nucleari, dal funghetto che ben restituiva la minaccia che incombeva sulla società durante la Guerra fredda. Oggi, sotto l’indubbia influenza dell’arte concettuale e della smaterializzazione dell’oggetto artistico, gli artisti rivolgono l’attenzione alle radiazioni, con un lavoro più sottile sull’invisibilità.

 

Magistrale è, al riguardo, il sito internet di Don’t Follow the Wind: una semplice pagina bianca, senza menù scorrevoli, senza informazioni né credits riportati in basso, senza la possibilità di navigarci con il cursore cercando il punto su cui cliccare per accedere ai contenuti. Si può ascoltare giusto una presentazione orale di un paio di minuti in cui artisti e curatori, in inglese e in giapponese, espongono a grandi linee il progetto Don’t Follow the Wind. Voci senza corpo, fuori campo – come quel vento che il titolo c’incita a non seguire?

Chim↑Pom finisce per allestire una mostra d’arte contemporanea nella Zona, una mostra sui generis che trasgredisce il protocollo e il dispositivo stesso dell’esposizione. Coinvolge sei artisti asiatici – Ai Weiwei, Nobuaki Takekawa, Kota Takeuchi, Meiro Koizumi, Aiko Miyanaga –, sei artisti internazionali – Trevor Paglen, Taryn Simon, Grand Guignol Mirai, Nikolaus Hirsch e Jorge Otero-Pailos, Eva e Franco Mattes, Ahmet Ögut – e quattro curatori internazionali: Eva e Franco Mattes (New York), Kenji Kubota (Tokyo) e Jason Waite (Londra). Con l’aiuto di alcuni ex-residenti, seleziona quattro spazi all’interno della Zona: un appartamento, un magazzino, una fattoria e uno spazio ricreativo. Dopo tre anni di lavoro, le opere sono definitivamente installate. È l’11 marzo 2015, il quarto anniversario della catastrofe. 

 

Chim↑Pom, Real Times.


Non-Visitor Center

 

Se solo gli artisti di Chim↑Pom conoscono il percorso e le opere di Don’t follow the wind, ignoto persino agli artisti che vi prendono parte, sconosciuto invece all’umanità intera è il momento in cui la mostra aprirà finalmente al pubblico. Che, per inciso, coinciderà col giorno in cui gli abitanti potranno riprendere possesso delle loro abitazioni. Il vernissage è legato a misurazioni scientifiche e altre varianti e variabili che incrociano dati sui rischi dell’esposizione alle radiazioni, calcoli complessi e affatto oggettivi sulla pericolosità dell’aria per gli esseri umani. Se è impossibile azzardare previsioni, non è inverosimile pensare a un lasso di tempo di diverse generazioni – tra 3 o 30.000 anni butta lì l’artista Trevor Paglen. 

Il destino della mostra è legato a un futuro remoto che non vivremo, se seguiamo la terribile premonizione del sociologo Ulrich Beck secondo cui le vittime di Fukushima non sono ancora nate. Un paradosso temporale che mostra quanto siamo lontani dall’aver intimamente compreso un evento quale Fukushima e le sue conseguenze.

 

In assenza di foto disponibili dell’installazione nella Zona, Chim↑Pom ha organizzato una mostra al Watari Museum of Contemporary Art di Tokyo (19 settembre-3 novembre 2015), Non-Visitor Center. Le opere – simili a quelle esposte a Fukushima – sono visibili dietro delle vetrine inaccessibili e al di là di una piattaforma. La scenografia è così utilizzata per creare fisicamente quella barriera della Zona segnata dalle radiazioni invisibili. Oltre a riferirsi all’inaccessibilità del sito, Non-Visitor Center prende di mira la tendenza museografica, predominante in ambito contemporaneo, della mediazione culturale, così come quegli spazi di promozione nucleare installati vicino le centrali nipponiche oramai smantellati.

Non avendo visitato la mostra, non sono in grado di giudicare l’efficacia del Non-Visitor Center. Di certo, il collettivo Chim↑Pom si è qui trovato ad affrontare una sfida rischiosa: come allestire un’esposizione su un’esposizione (Don’t Follow the Wind) senza svelarne il contenuto e senza svilirne la carica concettuale? Non si rischia di tradire un progetto invisibile e che ha vocazione a restare tale?

 

Finger pointing worker.


Nessuna resilienza

 

Chim↑Pom ci permette di riflettere sull’esperienza estetica nel mondo post-nucleare e, più concretamente, sull’arte dopo l’11 marzo (come dovremmo chiamare Fukushima, allo stesso modo in cui diciamo 9/11 e non Manhattan). Sull’arco di una delle maggiori arterie di Futaba – sito della centrale nucleare della TEPCO (Tokyo Electric Power Company) oggi abbandonato – troneggia ancora il seguente motto: “Potere nucleare. Energia per un futuro radioso”. Sono molti a crederlo nel mondo, persino in Giappone. Che sia l’effetto di quella che, nella gestione del rischio, chiamiamo resilienza, la capacità di una comunità di tornare a uno stato iniziale dopo una perturbazione che ne ha alterato l’equilibrio? Di una resilienza che sembra manifestarsi nei ciliegi in fiore nella Zona, immagine di una normalità riconquistata o di una natura indifferente ai disastri creati dall’uomo? Chim↑Pom non la pensa così, e io con loro.

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