Politiche, 4 marzo 2018 / Le tre vittorie della Lega
La Lega vince due volte. La prima sui suoi storici avversari, ossia il centro-sinistra. Sia su quello connotato dal flebile liberalismo di un “partito della nazione” che è divenuto sempre più spesso la “lista del capo”, che su quello identitario delle liste minori. Queste ultime tali erano e tali rimangono, destinate ad essere messe in soffitta, in attesa che alla prossima tornata elettorale ci si inventi un altro nome ed un nuovo logo. La seconda vittoria, ed è in fondo il risultato più importante, si consuma sui suoi alleati di coalizione elettorale, detronizzati – nel caso di Forza Italia – dalla rendita di posizione consegnata tradizionalmente agli azionisti di maggioranza. In tutta probabilità Silvio Berlusconi aveva già intuito l’esito prima che le urne si aprissero. Si tratta di un successo storico per Matteo Salvini, erede di un esangue partito che la famiglia Bossi e i suoi accoliti del “cerchio magico” erano riusciti a portare al quattro per cento, consegnandolo all’irrilevanza e quindi al prevedibile tramonto.
Un successo che si può intestare con pieno merito. La Lega, non più “nord”, non più “padana” ma sovranista e identitaria, può giocare ora il ruolo di global player rispetto agli altri attori politici. Le settimane a venire ci diranno quali saranno gli scenari possibili. Invero assai pochi, a meno che il Movimento cinque stelle, sempre più orfano di Grillo e sempre più collocato a destra nell’asse politico continentale, non “getti la maschera”, abbracciando un leghismo con il quale, in fondo, avrebbe diverse cose da condividere. Quanto meno in termini di passioni e concezioni del mondo. Ma Salvini è vincitore anche una terza volta, incassando un assegno ancora da compilare, quello del ritorno dei temi fascistoidi nel lessico e nella subcultura popolare.
Di riflesso, della loro proiezione politica e ricaduta istituzionale a venire. È lui, per il momento, che beneficia degli “sdoganamenti” che da trent’anni a questa parte hanno accompagnato i mutamenti strutturali della società italiana. Poiché del fascismo storico si può dire di tutto e di peggio ma non che non fosse riuscito a radicarsi in alcune parti della società italiana. Troppo presto, troppo frettolosamente è stato archiviato. Per poi sostituirlo, in questi ultimi tempi, con il rimando a una risorgente minaccia neofascista, altrettanto precipitosamente evocata come se il passato potesse pedissequamente ripetersi. Il fuoco della nuova/vecchia destra è invece quello che, almeno per il momento, Matteo Salvini riesce meglio a intercettare, dandogli uno spessore che ne nobilita politicamente il vasto catalogo non di idee bensì di paure: dal malumore diffuso all’angoscia organizzata, dal risentimento per una “perdita” alla rivalsa per una qualche “riconquista”, dalla crisi delle identità del fare (il lavoro) all’ipertrofia del sogno di un’appartenenza etnica e territoriale ora estesa al perimetro nazionale (l’Italia “padrona a casa sua”). Soprattutto, dall’integrazione sociale alla selezione per comunanza di ceppo. Questo e altro ci offrono le nuove idee di cittadinanza e di coesione sociale nella comunità dell’indistinto, della sovrapposizione tra realtà e immaginazione, nel coacervo delle pulsioni.
Dove il vero collante è una miscela tra individualismo narcisistica e senso di spaesamento, egotismo e agorafobia, populismo e anti-intellettualismo. Il tutto frullato nella più totale mancanza di un progetto politico che non sia quello di accordarsi, passo dopo passo, agli sviluppi che la crisi incipiente dell’Unione europea consegnerà ai singoli paesi, magari offrendo opportunità per accentuare ancora di più i tratti aggressivi e regressivi della propria “identità”. Si tratta di un lungo trend, che coinvolge tutti i paesi a sviluppo avanzato. La frantumazione del lavoro, delle cittadinanze e dei diritti ad esso legati, sta concorrendo a ridisegnare il campo delle costituzioni materiali di queste stesse società. L’Italia tra esse. Matteo Salvini lo ha capito da tempo, ribaltando lo sfiancato provincialismo e il campanilismo leghista, sospeso tra improbabili secessioni e inconsistenti “federalismi”, in una piccola ma determinata macchina da guerra, che si alimenta di ciò che la stessa destra berlusconiana (insieme all’insipienza di una sinistra che parla esclusivamente il linguaggio dei diritti civili per non affrontare l’annullamento di quelli sociali) in venticinque anni ha prodotto.
Anche per queste ragioni – laddove il razzismo edulcorato ma insindacabile è divenuta l’ossatura di una visione della società che sostituisce la mobilità sociale con la mobilitazione antagonistica delle piccole caste immaginarie, insieme all’abbraccio asfissiante di una nazione etnica – il leader della Lega ha molte possibilità dinanzi a sé. Sta insidiando il patrimonio politico di Berlusconi, che per più di due decenni ha raccontato a una parte degli italiani che cosa potessero diventare in assenza di un processo di reale inclusione. La radice del problema, prima ancora che nel politico, sempre più ancillare alle trasformazioni di campo delle nostre società, sta in una collettività tanto timorosa e angosciata dai mutamenti da essere divenuta recessiva. In fondo, avevano ragione quei capitani coraggiosi di certa sinistra, quando definivano la Lega come una loro costola. Peccato che oggi si riveli come l’ossatura di ciò che resta dell’idea di “stare insieme”.
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