Carson McCullers. La ballata del caffé triste
In un’intervista video del ’56, Carson McCullers racconta la genesi di uno dei suoi romanzi, The Member of the Wedding (versione italiana Invito di nozze, Longanesi 1964). Il giornalista le sta molto vicino, quasi la cinge con il braccio, in un gesto che vorrebbe essere protettivo e invece risulta volgare, forzato. Ben presto la nostra attenzione smette di recepire l’inglese mezzo impastato mezzo sussurrato della scrittrice per restare completamente catturata dai suoi gesti fragili ed eleganti, dall’inermità dello sguardo, dall’evidente distacco dal rito a cui sta partecipando, e insieme dalla sua totale partecipazione fisica e sforzo nel portare a termine quello stesso rito.
Carson McCullers era nata in Georgia; durante l’infanzia sembrava avesse un grande talento musicale, perciò fu mandata a New York alla famosa Julliard School a coltivarlo. Forse anche lei pensava di avere un grande talento musicale; in Wunderkind, racconto compreso nella Ballata del caffè triste, raccolta di racconti recentemente riedita da Einaudi, c’è una bambina prodigio che con la crescita perde ogni talento. In Wunderkind il disincanto della bambina viene detto in poche parole, nessuna più del necessario. Di fatto, a un certo punto si prende atto che la realtà è cambiata e che l’aura è sparita. Niente drammi, Carson McCullers racconta sempre con severità e a ciglio asciutto. In uno dei suoi libri migliori, Il cuore è un cacciatore solitario, la musica diventa invece la forma sotto cui una bambina povera del Sud inizia a percepire il mondo. La bambina che sogna la musica catalizza intorno a sé una piccola comunità di esclusi, ognuno dei quali perso nella vita della propria immaginazione e sordo agli altri (l’immaginazione parla a voce più alta degli esseri umani intorno).
Nella Ballata del caffè triste, il racconto lungo che dà il titolo al libro, protagonista è Miss Amelia Evans, silenziosa e dinoccolata proprietaria di un emporio che diventa un caffè in una cittadina del profondo Sud grazie al contributo di un cugino gobbo che poi la tradisce e la abbandona. Amelia Evans appartiene senz’altro alla galleria di personaggi di McCullers che conducono una loro vita ferocemente segreta e non comunicabile all’esterno. Per loro Carson McCullers non prova pietà, non li descrive con simpatia, non spinge il lettore all’immedesimazione, non impartisce lezioni consolatorie. La scrittura è secca e crudele come lo schiocco di una frusta, e la vecchia traduzione di Franca Cancogni ne rispetta la solennità, anche se non l’asprezza (non esattamente riuscita invece la scelta della copertina, che se da un lato rievoca un’atmosfera da inizio secolo, dall’altro vira su un glamour del tutto assente nei racconti di McCullers). Carson McCullers ebbe una vita curiosa, piena di contrattempi, di colpi bassi, di avventure e di malattie; per questo sapeva che i suoi personaggi possono assomigliarci, ma non per forza devono farlo. Di sicuro però devono suonare veri.
Il valore dunque e la qualità dell’amore vengono determinati unicamente da colui che ama. Per questo motivo si preferisce, nella maggioranza, amare più che essere amati. Quasi tutti vogliono amare. E la cruda verità è che per molti la condizione dell’essere amati riesce intollerabile. L’amato teme e odia colui che lo ama, e a ragione. Perché l’amante cerca sempre di mettere a nudo l’oggetto del proprio amore; e richiede ogni possibile genere di rapporto con l’amato, anche se l’esperienza gli porterà solo dolore.