Oggi le sneakers le faccio io
Anche sui più noti red carpet la standardizzazione della moda può manifestarsi nella sua ineluttabilità: quante volte due celebrity hanno indossato un vestito simile, se non proprio lo stesso, dando adito a gossip e a titoloni altisonanti inerenti a incidenti diplomatici e fughe da eventi mondani. Anche nella più bieca quotidianità spesso capita di irritarsi non poco se a una festa, in ufficio, o in altri ameni contesti, si incontra qualcuno con lo stesso capo. O ancora si evita di comprare una data borsa perché «è cheap, la indossano tutti». Come ovviare a tale imbarazzo? Come distinguersi in un mondo in cui tutte si sentono fashion blogger grazie alla continua condivisione di foto di outfit debitamente “hashtaggate”? Alcuni brand offrono una soluzione a portata di clic, ovvero la personalizzazione, accessibile a tutti gratuitamente o con pochi euro di differenza dal costo di base.
Si tratta di progettare il prodotto sulla base dei propri gusti attraverso una piattaforma ad hoc o alcuni strumenti dedicati. Il fine ultimo è la tanto agognata fidelizzazione, o in termini più aulici, il creare una stabile empatia con il cliente, attribuendogli, almeno per ciò che gli compete, il ruolo di designer creativo del bene. La personalizzazione, o customizzazione, rientra nelle strategie di marketing dei brand sotto le voci di valore aggiunto e di vantaggio competitivo nei mercati globali. Per l'azienda consiste anche in un incremento della complessità che viene gestito aumentando i tempi di attesa del cliente e della consegna del prodotto.
Sarah Jessica Parker. La mantella porta le sue iniziali
Entrando nel particolare, io so che quest'anno vanno di moda le sneakers, mi piacciono e credo si adattino a me, ma mi secca investire i miei soldi in qualcosa che mi omologa alla massa perché presumo di essere diversa dagli altri, di avere un mio stile, o almeno ci provo. Insomma, vorrei tentare di individualizzare un oggetto di consumo globalizzato, declinandolo rispetto alle mie inclinazioni, e così arrivo alla piattaforma di personalizzazione proposta da Adidas all'interno dello shop online che mi permette di “creare” le mie scarpe e di “mostrare” il mio stile. Scelgo il modello e, quasi come in un videogame, vengo proiettata in un'interfaccia interattiva in cui ho la possibilità, grazie a un clic, di scegliere materiali, cromie e testo da apporre alle sneakers che, a loro volta, cambiano in tempo reale il loro aspetto di pari passo con l'esplicarsi della mia creatività. Alla fine del processo di personalizzazione posso condividere il risultato con i miei amici, usando vari canali social o via e-mail, salvare il prodotto se ho bisogno di una pausa di riflessione, oppure procedere all'acquisto delle scarpe per cui dovrò aspettare ben quattro settimane. L'attesa giustifica l'esclusività del prodotto poiché si appella alla temporalità del sartoriale, del fatto su misura, e non stona affatto con la velocità del modello produttivo a cui siamo abituati dal fordismo, anzi rappresenta un ulteriore valore aggiunto. Restando nell'ambito del brand Adidas, esiste un secondo servizio di personalizzazione, disponibile solo in forma di app per tablet e smartphone, circoscritto alle scarpe da running ZX Flux, o meglio alla loro tomaia in mesh che può essere stampata con qualunque immagine caricata dal cliente. Mi sono soffermata su Adidas perché propone due peculiari tipi di personalizzazione, ma nell'ambito calzaturiero esistono diverse piattaforme integrate negli shop online come nel caso di Converse, Nike e Kickers, per citarne alcuni, oppure, in questo e altri settori del fashion, vengono venduti a parte oggetti atti a rendere unico il bene di moda desiderato.
Adidas ZX Flux doppiozero
Infatti, Anya Hindmarch, designer britannica di accessori di lusso, ha lanciato gli stickers di pelle per consentire alla clientela di personalizzare qualsiasi cosa con lettere dell'alfabeto ed emoji e renderle vere e proprie opere d'arte pop. Dai fashion blogger deputati a ingolosire il pubblico, sono molto usati gli adesivi a forma di hashtag o di chiocciola seguite dalle iniziali o dal nome, proprio o del blog, ricreando una trasposizione del discorso di moda online sui suoi stessi oggetti.
L'aspetto che intendo sottolineare è il concetto di “creatività controllata”, ovvero il fatto di poter creare una scarpa, o un altro prodotto, ma all'interno di frame predisposti e con un numero limitato di opzioni. A livello meramente tecnico serve per non sovraccaricare di input la produzione e per non aumentare i costi, ma dal punto di vista della percezione del processo di personalizzazione potrebbe essere inteso come una distruzione del significato di creazione perché non avviene alcuna nascita dal nulla. Si tratta, dunque, di un più semplice bricolage dell'esistente, pratica che caratterizza anche lo stile contemporaneo, grazie alla pedissequa attenzione per i particolari e all’imperativo del mixing che, in generale, consiste nella possibilità di comprare capi a buon prezzo per stare al passo con il sempre più veloce evolversi dei trend, risparmiando sull'abbigliamento e puntando su oggetti di moda definiti continuativi, cioè trasversali a tutte le collezioni, vere e proprie icone, che non mutano da decenni, come le borse Kelly e Birkin di Hermés, rispettivamente ispirate a Grace Kelly e Jane Birkin, lanciate nel 1956 e nel 1984, che richiedono veri e propri investimenti pecuniari dato che il loro costo è superiore a seimila euro.
Parlo di una vera e propria “griffemania”, ossia il considerare i monogram come iscrizione del gusto di un'epoca, come nuova declinazione del glamour anni Ottanta, che all'epoca constava anche nella personalizzazione del guardaroba con le iniziali.
La griffemania è ormai uno stile di vita a cui aspirano principalmente coloro che non possono permettersi di spendere grosse cifre per i capi d'abbigliamento, fattore che ha contribuito all'espansione selvaggia delle “produzioni parallele” di borse e scarpe di determinate griffe, tra cui Burberry, Gucci e Louis Vuitton. Conta la riconoscibilità della configurazione di capi e accessori che, per essere considerati di lusso, devono essere artigianali e tailor-made, aspetti che in un panorama ormai oberato e dominato dal fast fashion, costituiscono l'unico valore aggiunto che giustifica i prezzi poco accessibili. A volte il prezzo del prodotto non è giustificato dalla qualità o dalla rarità del materiale, come nel caso di Louis Vuitton e Gucci che hanno tra i loro prodotti più venduti borse di tela plastificata e non, con inserti in cuoio o pelle, ma dalla presenza/assenza del monogram.
Grazie a Burberry il tipico plaid scozzese è passato dal divano alle spalle delle fashion icon di tutto il mondo, dopo la sfilata AI 2014 che ha visto, tra le altre, top model come Cara Delevingne, Suki Waterhouse e Jourdan Dunn, indossare in passerella il blanket coat, un poncho-coperta double face in lana e cashmere, realizzato, appunto, rigorosamente in Scozia. Cosa ha reso iconico (e, per un periodo, sold out) questo capo d'abbigliamento rubato al salotto? Le non proprio sobrie iniziali in stampatello realizzate con il font Burberry che se includono il doppio nome, vedasi SJP di Sarah Jessica Parker, rendono la copertina ancora più glamour. Per la serie: accompagno le mie figlie alla loro scuola trendy di Manhattan, rifuggo i paparazzi perché sono uscita con il plaid, ma mi frega il maxi-monogram.
Lina Sotis informa, ne Il nuovo Bon Ton (Rizzoli 2005), che l'ostentazione della griffe “fa tipo che non conosce l'eleganza” e per questo motivo l'uomo deve guardarsi dalle cravatte con il marchio in evidenza. La griffemania non rientra nei canoni del galateo, fa cafone, e ciò, sempre secondo Sotis, deriva dalla sovradiffusione delle iniziali degli stilisti come “marchio di fabbrica” che ha reso ciò che era “una raffinatezza per pochi” una pratica dissennata e spersonalizzante. Il nuovo bon ton insegna che “le iniziali da usare sono solo le proprie e in modo discreto”, come quelle ricamate a mano per il corredo della giovane donna. Così come accade per la biancheria per la casa, uno dei capi di abbigliamento più semplici (cfr. Marco Belpoliti, La camicia di Renzi), la camicia da uomo, con l'apposizione delle iniziali diventa espressione di status e di fattura pregiata.
Se nel passato, infatti, la cifratura era la peculiarità delle camicie fatte su misura, oggi, grazie all'avvento del lusso accessibile, anche la camicia più dozzinale può assumere le caratteristiche di un manufatto sartoriale nel segno della raffinatezza low cost. Le camicie con cifratura, ritenute da Lina Sotis “una civetteria” da non disdegnare nel guardaroba purché cum grano salis, e facendo attenzione a farle apporre a sinistra verso il basso, in stampatello, sono un tratto caratteristico dei giovani uomini della media borghesia con aspirazioni manageriali che vogliono imprimere la propria identità anagrafica nella stoffa e nella mente dei loro interlocutori. La vicinanza di cifratura e allure dirigenziale trova conferma nelle illustri ciabatte, precisamente loafers, ricamate con le iniziali degli sposini, che Flavio Briatore ha indossato al suo matrimonio, o viste ai più rinomati piedi di Brad Pitt alla premiere spagnola di Bastardi senza gloria. Quando si dice loafers il pensiero corre subito all'uomo che ne abusa più di tutti, Lapo Elkann che nel 2013 ha disegnato con Frida Giannini, ex direttore creativo di Gucci, la capsule collection Lapo’s Wardrobe, afferente al programma Made To Measure del brand, vale a dire un “servizio sartoriale di lusso personalizzato per il gentleman moderno” e nelle cui immagini promozionali troviamo borse con su impresso “L.E.”. Gucci, inoltre, è tra i marchi che offre in omaggio, in store e online, con determinati accessori un servizio di personalizzazione che consiste nella tecnica dell'embossing, l'incisione delle iniziali in oro.
Monogram Louis Vuitton
Stesso discorso vale per Louis Vuitton, noto come Gucci per il suo monogram, che permette di personalizzare borse, portafogli, e valigie, con l'hot stamping e la pittura a mano, utilizzata agli albori della Maison di lusso, in origine specializzate nella costruzione di bauli e pelletteria da viaggio che venivano arricchiti dalle cifre dei nobili acquirenti. Nella contemporaneità dei voli low-cost, in cui il bagaglio è soggetto a restrizioni di dimensioni, peso e chiusura TSA, sembra anacronistico viaggiare con set d'antan, ma i sempre presenti selfie o foto dei look aeroportuali delle dinamicissime fashion blogger ci informano che ancora oggi è un trend, o almeno una delle tante affermazioni identitarie anche se, afferma laconicamente Lina Sotis, “non c'è niente di peggio di quelle madamine che viaggiano con un intero set firmato”. Grazie a Gucci e Vuitton le iniziali dei clienti si fondono con i monogram registrati, generando un loop di brandizzazione, in moto perpetuo dall'oggetto di moda al sé, che giustappone identità e valori nel segno della riconoscibilità a tutti i costi anche ai tempi di Anonymous e della privacy (il-)legalizzata.