Con il pretesto di un anniversario / Giuseppe Tomasi di Lampedusa. “Finché c’è morte, c’è speranza”

23 Luglio 2017

Il 23 luglio 1957 morì in una clinica romana, dove era arrivato da Palermo per ultime e pietose cure, l’autore di un’opera senza la quale la letteratura e, in generale, la cultura italiana del Novecento non sarebbero quelle che oggi sono e universalmente ci si rappresenta. Della morte di costui, fuori della cerchia di familiari e amici, nessuno seppe nulla. D’altra parte, in quella cerchia si ignorava largamente si trattasse di uno scrittore. E anche tra i pochi che lo sapevano scrittore, s’era lontanissimi dall’attribuire qualsivoglia rilievo a tale sua attività. La cosa era infatti vista per quello che era: una sua privata bizzarria. 

Insomma, quel giorno di sessanta anni fa, in una clinica romana morì un tale della cui morte non c’era ragione scrivessero i giornali, non c’era ragione parlassero la radio e la televisione (la seconda, arrivata in Italia da poco). La società nazionale colta e letteraria fu in tal modo inconsapevole della ferita che quella morte le stava infliggendo. E, non sapendolo, essa non ne soffrì. Né allora né dopo: s’è mai visto infatti il caso di una ferita del genere differita? 

L’uomo in questione era nato il 23 dicembre 1896. Si congedò dal mondo prima di completare il suo sessantunesimo anno di vita. Non è certo un’età in cui che uno muoia desti stupore. Ma non è ancora quel limite che fa del togliere il disturbo un atto opportuno e quasi doveroso. Va così detto che egli fu sfortunato. 

 

Al tempo stesso, va però detto che, a morire ignoto, così come gli capitò, il nostro uomo fu molto fortunato. In vita, il defunto aveva peraltro tenuto in grande considerazione un insigne uomo di cultura francese dell’Ottocento, Charles Augustin de Sainte-Beuve. E a proposito di morti di personalità pubbliche nell’evo moderno, proprio Sainte-Beuve aveva a suo tempo diagnosticato crudamente: “La plupart des hommes célèbres meurent dans un véritable état de prostitution”. Diagnosi, da allora, verificata come corretta in uno sterminato numero di casi, anche recenti (e ovviamente senza preclusioni di genere). 

Per sua buona stella, la morte raggiunse invece quell’uomo nella proba integrità della sua vita privata e prima che i timidi tentativi, che pur fece, di attentarvi producessero qualche effetto: λάϑε βιώσας, ‘vivi nascosto’, è l’antica massima epicurea. Le si potrebbe aggiungere una chiosa sulla stringente opportunità morale, oggi, anche del morire nascosti. Avendo vissuto nascosto, nascosto egli morì, senza essere nemmeno sfiorato dal sospetto di quella celebrità che, deflagrando inopinata, sarebbe poi toccata alla sua opera e al suo nome. Come persona, si salvò quindi dalla infamia che come una tabe incurabile rode la fama nel contraddittorio mondo moderno (a differenza di quanto forse accadeva nel rigoroso e antico). Si ammetta che, come buona sorte, non è da poco.

 

Chi è allora costui? È Giuseppe Tomasi, principe di Lampedusa. Appena il caso di aggiungere che si tratta dell’autore di un romanzo (il suo unico) che brilla singolare nel cuore del Novecento letterario italiano: Il Gattopardo. Singolare, frequentatissimo ma ancora intatto.

“Per chi un viaggio in Sicilia non ha rappresentato un premio, o quasi il compimento di un voto? L’uomo non ha cessato, neanche nei tempi storici, di favoleggiare sulla Sicilia, che è la terra stessa del mito: qualsiasi seme vi cada, invece della pianta che se ne aspetta, diventa una favola, nasce una favola”: è l’esordio di Viaggio in Sicilia di Cesare Brandi. Che il viaggio in Sicilia sia reale o figurato, l’osservazione di Brandi, insigne uomo di cultura, storico dell’arte e viaggiatore, è ineccepibile. Per essa, d’altra parte, non c’è illustrazione migliore dei casi intervenuti al Gattopardo e, dopo la comparsa del libro, alla figura del suo autore: per uno sterminato numero di lettori di tutto il mondo, un viaggio in Sicilia.

Per via di una vicenda già essa stessa favolosa, l’opera di Lampedusa finì infatti per essere pubblicata l’anno che seguì la morte dell’autore: sarà trascorso un sessantennio dunque nel 2018 e già si annunciano i relativi fasti. Con il patrocinio di Giorgio Bassani, ottenuto grazie alla mediazione di Elena Croce, la mise in circolo un’impresa economico-culturale allora nuova e rampante, la casa editrice voluta da Giangiacomo Feltrinelli.

 

 


Con Il Gattopardo, oltre che con il Dottor Živago del poeta e romanziere russo Boris Pasternak, essa diede solide fondamenta alla sua successiva e ancora persistente fortuna. 

Lo strepitoso successo di vendite del romanzo fu seguito e consacrato dall’apparizione, nel 1963, di un film di Luchino Visconti, come al solito leccatissimo e anch’esso subito assunto tra i miti cinematografici e tra le fonti di un immaginario collettivo ancora vivamente operante: da allora, come figurarsi Fabrizio Corbera, principe di Salina, se non sotto le fattezze di un Burt Lancaster principescamente fornito di folti e biondi favoriti? E la conturbante Angelica Sedàra non è una freschissima Claudia Cardinale? E l’occhio ceruleo di Tancredi Falconeri non è quello del mai tanto affascinante Alain Delon? E gli sguardi rozzi e rapaci di Calogero Sedàra non sono quelli di un grande Paolo Stoppa? Padre Pirrone? Romolo Valli. Ciccio Tumeo? Serge Reggiani.

Il romanzo parve d’impianto e di fattura molto tradizionali alla maggioranza dei lettori di livello. Magari lo è. Ma chi lo sa? Forse pare tradizionale soltanto perché è un classico e non c’è classico che non sia iscritto in una tradizione: eventualmente, la tradizione che, singolarmente, esso istituisce. Quelli erano d’altra parte gli anni in cui, con il ritardo tipico degli innovatori italiani, tra i professionisti e gli addetti ai lavori, in letteratura, c’era chi proponeva vie sperimentali altrove già sperimentate: la storia molto tradizionalmente raccontata da un nobiluomo siciliano, letterato dilettante, non poteva che essere letteratura di consumo. 

 

Il Gattopardo fece comunque il botto, come oggi s’usa dire, tra lettori d’ogni genere e divenne così un caso socio-culturale. Favorì il fenomeno anche un’atmosfera politica molto sensibile agli aspetti storico-ideologici, reali o supposti, della storia lì raccontata. Anche da tale punto di vista, le polemiche furono roventi. Ove ce ne fosse stato bisogno, l’interesse ne fu rinfocolato e spinse se non la lettura, almeno la notizia della problematica esistenza dell’opera ben oltre le consuete aie della società letteraria. 

La conseguenza fu l’immediato affermarsi, nel lessico politico, di un nuovo valore per il nome comune gattopardo, non più ristretto alla designazione di una specie di felino piccolo e piuttosto modesto, a dire il vero. Niente d’imponente: ironicamente, solo un grosso gatto selvatico. Lo testimonia l’imbarazzo, davanti al titolo, dei traduttori che prestissimo s’erano messi all’opera: un lavoro che avrebbe immediatamente assicurato al romanzo una straordinaria circolazione internazionale. Interpretando creativamente, come allora sembrò opportuno, nelle traduzioni francese, Le Guépard, tedesca, Der Leopard, e inglese, The Leopard si fece così ricorso a designazioni di bestie che parvero più degne (non nella spagnola: El Gatopardo). In Germania, la soluzione più ovvia è venuta in mente solo di recente e per una nuova traduzione: Der Gattopardo.

 

Tratto dal libro medesimo, ma non con il valore che ha nel libro, accompagnò il nuovo gattopardo un derivato aggettivale: gattopardesco. Nell’intenzione di chi cominciò a fare un uso sistematico di tali parole, da esse veniva descritto, nelle sue attitudini morali e nei suoi comportamenti pubblici, chi è in apparenza favorevole al mutamento, ma in realtà è un conservatore, se non un reazionario. L’idea moralmente discutibile della simulazione del mutamento da parte di chi, al momento opportuno, non vuole cedere un’acca dei suoi privilegi fu tenuta come l’ideologia soggiacente del romanzo e come il suo succo. E fu ritenuta tipica del suo protagonista, il principe di Salina, e sospettata anche come propria del suo autore, il principe di Lampedusa. Il primo fu a sua volta identificato, per via antonomastica, con Il Gattopardo del titolo e quindi, per via metaforica, come il prototipo del gattopardo.

Quando tutto ciò cominciò a prodursi, tra la fine degli anni Cinquanta e il debutto dei Sessanta, erano i tempi in cui in Italia si preparava lentamente e poi si realizzò da parte della Democrazia Cristiana il coinvolgimento nel governo della nazione del Partito Socialista. Ferveva il dibattito pubblico sul mutamento di indirizzo, apparente o no: gli intellettuali vicini al Partito Comunista o francamente “organici”, come allora si diceva, non ebbero remore a gettare addosso all’operazione l’accusa di “gattopardismo”, altro fortunato derivato nominale, forti di questo nuovo arsenale di parole alla moda, adatte all’invettiva (se non all’insulto), la cui inopinata apparizione, all’orizzonte della cultura politica italiana, dovette parere a molti miracolosa: i giusti termini tecnici in corrispondenza biunivoca con una nuova epifania di un tradizionale aspetto della realtà nazionale. 

 

Si consideri il caso esemplare di Leonardo Sciascia. Al momento della pubblicazione del Gattopardo, Sciascia, da intellettuale già confermato ma ancora giovane e certamente in crescita, si trovava nella condizione appena descritta (anni dopo, ebbe occasione, come si sa, di mutarla). Si schierò allora senza tentennamenti tra coloro per i quali l’opera di Lampedusa e il suo incontenibile successo erano sintomi di uno stato della cultura (politica) italiana tutt’altro che positivo. Ebbene, da subito per Sciascia il titolo del romanzo fu “Il gattopardo”, con iniziale minuscola. E il dettaglio marcò un suo indirizzo interpretativo persistente e inequivocabile: “Il gattopardo era stato pubblicato alla fine del 1958 [...]. Chi, come me, avanzò allora delle riserve sui contenuti del romanzo, sull’idea che lo informava, oggi è portato a riconoscere che quello che allora parve inaccettabile e irritante nel libro, s’apparteneva a delle costanti della nostra storia che allora era legittimo ricusare o tentare di ricusare, come legittimo era per Lampedusa riconoscerle e rappresentarle”. Parole del 1989: qui le si offre alla meditazione di chi legge. A chiosa d’uno scritto sui luoghi del Gattopardo, sono tratte da una raccolta di saggi che fu l’ultima a essere pubblicata con Sciascia in vita.

 

Dopo le fasi iniziali di diffusione epidemica, gattopardo, gattopardesco, gattopardismo si fissarono solidamente nel lessico politico-giornalistico. In modo endemico, appaiono ancora oggi, come chiunque può verificare, e ragionevolmente appariranno ancora in futuro nella relativa prosa. Dopo I Promessi Sposi e i suoi perpetua e azzeccagarbugli, capita così che il romanzo di Lampedusa sia tra le poche opere letterarie ad avere lasciato un sedimento stabile e ormai autonomo nel lessico italiano.

La circostanza è ancora più singolare se si osserva che gattopardo non ricorre mai nel romanzo (il fatto è forse molto meno stupefacente di quanto non paia a prima vista). Vi ricorrono una ventina di volte Gattopardo, tre volte Gattopardi, una Gattopardine, una Gattopardorum: in contesti variabili ma tutti meritevoli di molta attenzione, anche perché in essi il narratore non ottunde per nulla, anzi affila la sua sardonica penna.  

 

Non c’è d’altra parte una sola pagina tracciata da quella penna che autorizzi la nascita dei nuovi valori connessi alla parola gattopardo e che ne giustifichi il loro uso largo e, a ben vedere, indiscriminato. Ciò può essere provato non solo sviscerando l’opera con le modeste armi della filologia ma anche con quelle, per quanto grossolanamente impugnate, di una critica ideologica (ammesso che le due procedure siano separabili: chi scrive non lo crede). L’idea che il gattopardo che circola in italiano da più di cinquant’anni trovi fondamento nel Gattopardo è esito di letture scorciate e sommarie. Solo benevolmente essa può essere inoltre definita un malinteso. A uno sguardo equanime, invece, appare per ciò che fu e rimane: un tentativo aperto e, bisogna ammettere, molto ben riuscito di operante falsificazione.

Per intenderlo, basta rivolgere solo un po’ di attenzione a ciò che fece da fondamento testuale all’innovazione lessicale. Si tratta dell’espressione ritenuta emblematica dell’attitudine morale gattopardesca, tipica di un gattopardo. Nel famigerato “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” si è vista compendiata l’ideologia dell’opera, nel suo complesso. 

 

Come chi scrive sottolineò or sono venticinque anni e capita oggi di sentire ripetere ma senza che dall’osservazione si sviluppino sistematiche deduzioni, non è Fabrizio Corbera, il supposto gattopardo, a proferire il motto. Esso sta sulle labbra del giovane nipote Tancredi Falconeri. E nel sistema del romanzo, i due personaggi riempiono funzioni molto diverse. Va detto soprattutto che Tancredi conduce un gioco perverso con lo zio (e, a dire il vero, con l’intera famiglia dello zio). Tra i due c’è un legame morboso e complesso: per certi aspetti somiglia a quello tra  pusher e cliente, per altri a quello tra sadico carnefice e vittima masochista. 

Dal punto di vista di Tancredi, l’esito cui tende la partita consiste non solo nell’annientamento morale di Salina e dei Salina (a quello materiale provvede il suocero Sedàra, cui il giovane offre peraltro un’attiva collaborazione), ma anche e soprattutto nello svilimento dei valori che, indefiniti anche perché indefinibili, l’opera presenta sotto forma di un’ironica allegoria: appunto, Il Gattopardo

Ecco qual è il tropo del titolo misterioso: un’allegoria, ironicamente prospettata. Non un’antonomasia, come crede chi la prende per una designazione figurata di Fabrizio, né una volgare metafora, come crede chi vi vede la definizione di un’attitudine morale. “Il Gattopardo, sicuro, il Gattopardo; ma dovrebbero esistere dei limiti anche per quella bestiaccia superba”, così esplode Tancredi nel solo momento in cui la narrazione pare porlo in una condizione di scacco. E a metterlo in tale condizione, provocando la sua stizzita reazione, è l’indomita cugina Concetta, che ne pagherà il fio. La vendetta va infatti consumata e, in una narrazione che procede con inesorabile precisione, non c’è conto che infine non torni. Lo dicono le scene conclusive dell’ultima Parte del romanzo: la critica l’ha in genere giudicata ridondante e di scarso valore; Visconti e i suoi sceneggiatori l’hanno semplicemente espunta, come hanno espunto la penultima, dove si narra della morte di Fabrizio. 

 

Ebbene: Tancredi, campione del progresso personale e generale, destina il suo “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” allo zio Fabrizio, scettico e indolente, ed è come se gli fornisse la dose dello stupefacente di cui lo zio ha bisogno. Peraltro, nell’occasione questi lo paga. Gli mette in tasca “un rotolino di «onze» d’oro”: le sintassi concettuali del romanzo, non solo la superficiale, ma anche le soggiacenti sono inappuntabili. È la dose decisiva, nello sviluppo narrativo. A Fabrizio essa è indispensabile per continuare a credere, con pretesa di ragionevolezza, di non dovere fare altro che contemplare le sue stelle e dormire. La trovata di Tancredi è solo furbesca e parolaia, ma è quanto basta a rendergli accettabile la pur consapevole illusione. Ottenuta la formula, Fabrizio comincia in effetti a ripetersi le parole ascoltate dal nipote, variandole secondo il suo umore, talvolta euforico, talaltra disforico. Sono divenute il suo mantra. Quando ne necessita, in altri termini, assume la pozione espressamente preparatagli da Tancredi.

 

Scorre d’altra parte nel romanzo, narrativamente, una serie intrecciata e sistematica di mutamenti, tanto personali quanto sociali: “Quel Garibaldi, quel barbuto Vulcano aveva dopo tutto vinto” è tra gli ultimi pensieri di Fabrizio, appunto. Ammesso che, da tale punto di vista, se ne voglia trarre una morale, essa somiglia all’aforisma con cui (non si saprebbe qui dire, su due piedi, se un austriaco o un tedesco, ma in ogni caso) una persona non priva di spirito commentò vicende storiche dell’evo moderno, in maniera definitiva. L’aforisma dice a un dipresso che una rivoluzione, come ogni altra impresa, comporta delle spese, ma, diversamente da ciò che accade per la messa in opera di imprese d’altro genere, a coprire le spese necessarie a una rivoluzione sono i medesimi che la subiscono. “[Tancredi] rideva: «Sussidi la rivoluzione, adesso! Ma grazie, zione, a presto; e tanti abbracci alla zia.» E si precipitò giù per le scale”: ecco il beffardo commento che al giovane ispira il “rotolino” appena intascato.  

Prendere allora Il Gattopardo come opera-manifesto di un pensiero e di un’ideologia politica o anche solo culturale e letteraria che considerano apparente il divenire o, peggio, che ritengono pragmaticamente possibile una sua addomesticata gestione, ai fini di una sostanziale conservazione, più che un paradosso testuale è, come si diceva, una consolidata falsificazione.  

 

Una falsificazione del genere non può nemmeno essere smascherata. Non ha mai indossato una maschera, in effetti. Ha solo spudoratamente proceduto sull’onda di un andazzo e di una δόξα, di un’opinione maggioritaria se non universale. Lo attesta il lessico italiano, in modo ormai anonimo e quindi ineluttabile. Tancredi Falconeri ha insomma vinto. La sua parola, la parola dell’antagonista morale del Gattopardo, è stata da subito ed è rimasta l’emblema incancellabile del romanzo. E un gattopardo, una corriva metafora, pronta, se è il caso, a essere declinata al plurale, è quanto resta del Gattopardo, cioè dell’allegoria di una risentita singolarità personale. Fu del resto una risentita singolarità personale a generare, nel suo autore, un’opera in tutti i sensi singolare. E ancora intatta.

Morì il 23 luglio 1957, Giuseppe Tomasi, principe di Lampedusa. I modi del successo della sua opera gli furono risparmiati. Forse ne avrebbe sorriso. Avrebbe persino potuto esserne soddisfatto. Questo ha di bello (e di tremendo) l’ironia: fa dell’espressione un mare così alto da impedire che se ne veda il fondo. Quindi, il parere di Lampedusa non si saprà mai, perché un’ironica morte gli risparmiò i fasti del trionfo. E gli risparmiò altro che, in proposito e con il pretesto, è venuto e continua a venire fuori: biografie di carta e in immagini, itinerari turistici e geografie della memoria, commercio di souvenir morali e materiali, di carte disperse e peregrine, vendute e rivendute, a cadenze regolari, come fossero reliquie. Qui, non se ne è detto per rispetto non solo della sua memoria, ma anche della pazienza e del gusto di chi legge.

 

Si dica allora con onestà se quel tale Lampedusa, a morire prima che di tutto ciò ci fosse anche solo il più piccolo segno premonitore, non fu un uomo oltremodo fortunato. In estrema sintesi, questo è il solo argomento a sostegno del quale qui si è inteso fornire qualche pezza d’appoggio. In considerazione anche del fatto che, in un romanzo pieno di ironia, pronta a un’interpretazione letterale c’è forse perlomeno un’espressione. Appare tra i pensieri di Fabrizio come rovesciamento inatteso di una tradizionale corrività. Una di quelle che prende positivamente a tema la vita. E già questo suggerisce (sebbene non assicuri) che va intesa alla lettera. Suona “[f]inché c’è morte, c’è speranza”.

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