Le immagini dell’Altro / Victor I. Stoichita. Vedere a margine

4 Gennaio 2020

Un Bambino in una mangiatoia, avvolto in una coperta termica argentata e chiuso in una gabbia. Attorno a lui, poco lontano, le altre due figure della Sacra Famiglia, in gabbie separate, sormontate da filo spinato. A suggellare la rappresentazione una cometa di fortuna, che sembra fatta con le luci delle recinzioni. Circolano da qualche giorno le immagini della Natività “irregolare” della chiesa metodista di Claremont, in California, per protestare contro le separazioni inflitte ai migranti fermati al confine americano.

 

Dettaglio del presepe della chiesa metodista di Claremont, in California, 9 dicembre 2019 (foto di David McNew per Getty Images).


Alla prima immagine del presepe in cattività, postata su Facebook da Karen Clark Ristine, il pastore della chiesa, si sono poi subito aggiunte molte altre fotografie. Alcune mettono in scena i dispositivi che separano le tre figure tra di loro e dal nostro sguardo, per esempio Maria o Giuseppe in primo piano, ma dietro lo sfocato di una recinzione che quasi sfiora l’obiettivo fotografico; altre si concentrano sul rapporto tra le figure e i passanti, chiamati a interagire con esse e a misurare la nuova distanza che mette ai margini i volti familiari e rassicuranti dell’iconografia del Natale ora che sono sovrapposti a quelli dei migranti di oggi, l’Altro per eccellenza di questi nostri tempi.

 

Dettaglio del presepe della chiesa metodista di Claremont, in California, dicembre 2019 (foto di Kyle Grillot per Reuters).


La vera posta in gioco, in realtà, ed è per questo che operazioni come questa non possono che dar fastidio e sollevare polemiche (come tra i repubblicani cattolici), sembra quella di porre di fronte a chi guarda una domanda precisa, e scomoda: chi sei tu, che vedi loro come altri da te? Una domanda che in fondo non fa che riportare la questione alla sua vera radice: quella dell’incontro tra uno stesso e un altro.

Un tema, quello dell’alterità, oggetto di un ampio dibattito nelle scienze umane e in particolare all’interno del pensiero antropologico, che dell’altro e della differenza ha da sempre fatto un suo oggetto d’indagine, ma anche al centro dell’ultimo lavoro di Victor I. Stoichita, insigne critico e storico dell’arte: L’immagine dell’Altro. Neri, giudei, musulmani e gitani nella pittura occidentale dell’Età moderna, da poco in libreria per i tipi della Casa Usher nella collana “I libri di Omar”, con i contributi degli studiosi che, proprio come Omar Calabrese e Stoichita, hanno lavorato e lavorano sulle immagini all’incrocio tra più discipline, in particolare tra teoria dell’immagine e semiotica.

L’immagine dell’Altro è infatti l’affascinante tentativo di raccontare questo incontro tra lo stesso e l’altro “così come si produce sotto il segno del visibile”, ovvero così come è possibile vederlo prodursi incessantemente tra le pieghe dell’immaginario occidentale dalla scoperta del Nuovo Mondo in poi.

Detto altrimenti, l’oggetto di indagine di Stoichita non è l’altro già oggetto della filosofia (come in Lévinas) o dell’antropologia ma lo sguardo portato sull’altro dall’interno del nostro canone visivo – in breve, lo sguardo sull’altro tradotto in pittura. Una visione che da subito si fa ardua, dal momento che nell’arte classica la rappresentazione artistica è concepita piuttosto sotto il profilo dell’identità e invece “l’altro è costruito solo a margine”. “Che dirai tu essere dipignere altra cosa che simile abracciare con arte quella ivi superficie del fonte?”, scrive Leon Battista Alberti nel De Pictura (1435) a proposito del mito di Narciso, legando da subito rappresentazione e identità come il riflesso al suo oggetto.

Stoichita, però, da subito contrappone al Narciso albertiano quel Narciso che Caravaggio dipinse tra il 1594 e il 1596, quando un altro mondo si era già schiuso all’Occidente, dall’Atlantico di Colombo al Pacifico di Magellano, e le sue contraddizioni diventavano materia pittorica per chi era venuto al mondo per “distruggere la pittura” classica (come ebbe a dire di lui Poussin).

 

Caravaggio, Narciso, 1594-1596, olio su tela, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini, Roma.


Il Narciso di Caravaggio, “dipinto feticcio” per Stoichita, “impregnato di una tensione drammatica che la teoria albertiana aveva abilmente eluso”, circolarità perfetta tra un io e un altro che si risolvono continuamente l’uno nell’altro e continuamente si mescolano, è forse anche l’immagine che meglio riassume questo libro.

L’esplorazione di Stoichita sull’altro in pittura, infatti, non può che risolversi in una pluralità di sguardi e di immagini, situati in epoche, fonti storiche, autori e stili molto diversi tra loro, proprio per rendere conto dei molteplici modi in cui l’altro (volta a volta da intendersi come lo straniero, il marginale, il diverso) “ha fatto irruzione nella scena della rappresentazione”, come efficacemente sintetizza Lucia Corrain, curatrice dell’edizione italiana, nella sua nota di accompagnamento al volume.

Pluralità di sguardi e grande ricchezza di immagini, dunque, che sono il punto di partenza e la cornice della densa indagine dell’“iconosfera della differenza” condotta dall’autore.

Prima tappa dell’indagine è quella intorno al Nero, da intendersi sia come colore che come polarità di una categoria che vede all’altro suo polo uno sguardo Bianco. Prima di tutto, quello dei viaggiatori e degli esploratori del XV secolo, il cui immaginario, come risulta sin dai resoconti di viaggio e dalle prime raffigurazioni dell’epoca, fu subito colpito dall’alterità cromatica del corpo nero, rappresentato nudo e perlopiù immerso in una natura esotica. Una diversità che è prima di tutto differenza cromatica e che è al centro anche del Giardino delle delizie di Hieronymus Bosch, in cui l’umanità più varia è popolata di nero, di bianco, e di altri colori ancora. 

 

Dall’emersione, però, di un corpo anonimo, quasi pura macchia di colore, al riconoscimento di un volto, dotato di un suo sguardo al pari dello sguardo Bianco, passano più di due secoli, suggerisce Stoichita ponendo a poca distanza nel suo corpus iconografico gli indigeni raffigurati su una carta geografica dell’Africa di fine Quattrocento e alcuni magnifici ritratti del tardo Settecento-primo Ottocento.

In particolare, è nel Ritratto di negra di Marie-Guillemine Benoist, dipinto poco dopo l’abolizione per decreto della schiavitù ed esposto ai Salons del 1801, che finalmente emerge un soggetto. La giovane donna ci guarda, ci fa oggetto del suo sguardo, dalla sua posa che ricorda la Fornarina di Raffaello, e i contrasti cromatici che sostengono la figura (con note di rosso, di bianco e di blu, ad alludere al tricolore della République) esaltano le qualità specifiche, cromatiche e materiche, della pelle scura, in un’immagine (avversata, all’epoca, dalla critica più conservatrice) ben diversa dalle immagini precedenti.

 

Marie-Guillemine Benoist, Ritratto di negra, 1800, olio su tela, Musée du Louvre, Parigi.


Se il “contendimento” pittorico tra bianco e nero, tra chiaro e scuro (il riferimento è al Dialogo della pittura di Ludovico Dolce, 1557), è infatti sempre presente nell’iconografia del Nero, è l’esplorazione del senso che ha nei diversi luoghi del visibile a farlo apparire non solo un espediente visivo ma una “vera e propria riflessione incrociata sul rapporto tra l’altro e lo stesso”.

Stoichita mostra infatti, attraverso una vera e propria dimostrazione per immagini, come il gioco del contrasto nero-bianco possa mutare di valore: può identificare il nero per difetto, come nella descrizione della cosiddetta Negra di padre Gumilla, affetta da una sorta di vitiligine, nelle parole dell’illuminista Le Cat, che però ne descrive le parti nere quasi come fossero accessorie, un di più rispetto alla pelle bianca (“Questa creatura aveva sulle mani come guanti neri […] sul petto e sulle spalle una sorta di mantelletta nera”); o può riverberare le qualità del bianco sul nero, come nel mito della Bellezza Nera, cantata per esempio da Giambattista Marino, in cui il nero diventa un “nero abbagliante”. 

Di tutt’altro genere sono le sfumature della differenza colte nella messa a fuoco della figura del Turco, altro non così esterno al canone visivo occidentale ma in un certo senso interno, grazie agli scambi commerciali e culturali intercorsi con l’Impero Ottomano. Un altro quasi familiare che ha pertanto bisogno, per poter essere identificato, di essere associato a una precisa iconografia, con i suoi specifici attributi vestimentari.

 

La prospettiva di Stoichita, tuttavia, non si compiace mai di identificarsi con la sola visione occidentale: è invece abile, come il Narciso di Caravaggio, a indagare l’interscambiabilità dei ruoli e degli sguardi, immagine dopo immagine.

Un esempio di questa visione che tiene conto tanto della visione dell’altro (genitivo oggettivo, in cui l’altro è oggetto di indagine) quanto della visione propria dell’altro (genitivo soggettivo, stavolta) è nella densa narrazione tessuta intorno al ritratto di Maometto II e nell’iconografia occidentale e nell’opera di Gentile Bellini, ritratto dell’Altro voluto dall’Altro stesso, il Gran Turco, e pertanto condotto secondo le sue regole.

Ne nasce un’immagine ibrida: “una vaghissima pittura”, dice il Vasari, nello stile del fratello Giovanni, ma “a visibilità controllata”, in cui l’effigie del Sultano è incastonata in una serie di soglie sceniche atte, come nella tradizione apotropaica orientale, a custodire l’immagine e a proteggerla dagli influssi malevoli dell’Occhio che guarda.

 

Attribuito a Gentile Bellini, Il sultano Maometto II, 1480, olio su tela, National Gallery, Londra.


Altro caso complesso di costruzione dell’alterità è quello dell’“invenzione dell’Ebreo”. La sua “differenza”, infatti, è costruita, storicamente e culturalmente, a partire da quella che è una continuità, di sangue e di stirpe, la stessa che lega Maria, Giuseppe, Anna, Elisabetta e Gesù; la differenza, ovvero, nasce solo per opposizione, ed è solo quando nega il cristianesimo che l’Ebreo diventa l’altro.

Del “carattere fantasmatico” di questo altro diventa esemplare l’intero ciclo di affreschi della Cappella degli Scrovegni, in cui Giotto esplora sul piano iconografico l’oscillazione continua dell’Ebreo lungo lo spettro tra inclusione ed esclusione: se è il giallo il colore che contrassegna tanto Elisabetta quanto Giuda, non è tuttavia lo stesso giallo. Quello di Elisabetta, colta nella testimonianza del prodigio divino, è ammantato di una sfumatura dorata, mentre quello di Giuda è un giallo altro – il giallo che serve a indicarlo e a metterlo ai margini. E l’inafferrabilità di questa condizione di alterità è nello stesso volto di Giuda, diverso in ognuno dei momenti del ciclo, e mai uguale – quasi sfuggente a sé stesso.

Ultimo esempio di alterità mobile sono gli Zigani, Zingari, o Gitani, per citare solo alcuni dei loro molti nomi. Sono figure di confine, tenute ai margini della città – e magari oggetto di osservazione da parte dello stesso che in città vive, e va alle sue porte per osservare l’altro in transito, come in alcune immagini del Quattrocento e in alcune fonti coeve che rendono evidente l’attrazione e la repulsione per “le creature più povere che abbiamo mai visto arrivare […] da che gli uomini esistono”.

La curiosità per l’imperscrutabile “popolo in cammino” si mescola alla difficoltà di fissare, in un canone visivo, i tratti distintivi di chi è migrante per definizione, cosa che spinge a interpretare l’ignoto (lo zingaro errante) per mezzo del noto (la fuga in Egitto) e a ibridare, in una moltitudine di Madonne Zigane tra XVI e XVII secolo, l’alterità secondo la tradizione. (Non senza strappi o frizioni che evidenzino, in controluce, il serpeggiare dello stereotipo, come nella Fuga in Egitto di Giovanni Andrea Ansaldo cui era rimproverato di aver dato alla Vergine i tratti di una “ladroncella”, dando alla rilettura della migrazione biblica l’aria di un travestimento illecito.)

Ancora una volta, è Caravaggio a fornire un prisma attraverso cui guardare, con ricchezza, all’alterità come a un fenomeno complesso: dipinta dai margini di una condizione di vita precaria, quasi anch’essa “zingara” (il Bellori racconta di un Caravaggio senza indirizzo fisso, sceso in strada da bottega a prendere come modella una zingara che passava di lì per caso), la Buona ventura, nella doppia versione di Parigi e di Roma, allaccia insieme una giovane donna e un giovane uomo uniti dalle mani e dai reciproci sguardi, uno stesso e un altro quasi pronti a scambiarsi di posto e di segno.

 

Un incontro che è uno slancio reciproco e che rafforza per converso quella che è una delle più importanti conquiste dell’antropologia: l’idea che si è altro – e altri – solo nello sguardo di qualcuno, che ogni sguardo è sempre il riflesso di un’identità. Tocca poi a chi fa “immagologia”, come suggerisce Stoichita, il compito di prolungare il lavoro dell’antropologo e di seguire la scia di questo sguardo, attraverso le immagini che produce – anche solo per mostrarci che non ci sarebbero gabbie, confini, margini senza un Occhio con il potere di istituirli come tali.

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