Prin e concorsi dell'università italiana / For English Press One

14 Giugno 2018

Uno dei più noti studiosi italiani di letteratura, Alberto Asor Rosa, ha deplorato su «Repubblica» del 28 aprile una decisione del Miur (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) riguardo alla lingua italiana. L’ultimo bando per i Progetti di ricerca di interesse nazionale (Prin), che sono tra le principali fonti di finanziamento della ricerca in Italia, prevede che i progetti siano presentati in inglese; a discrezione, è possibile anche aggiungere una versione in italiano. Le critiche di Asor Rosa sono di due ordini. Da un lato egli giudica paradossale che richieste di finanziamento rivolte ad autorità italiane per ricerche inerenti alla cultura italiana condotte da studiosi italiani vengono formulate in una lingua diversa dall’italiano. Dall’altro insiste sul fatto che una lingua, oltre ad essere uno strumento di comunicazione, è anche uno strumento identitario, il più possente strumento identitario a nostra disposizione: «uno è la lingua che parla» (L’università, la ricerca e gli eccessi dell’inglese, 28 aprile). Beninteso, questo di Asor Rosa non era il primo intervento sull’argomento. Tempestive critiche all’operato del ministero erano state avanzate da Annalisa Andreoni sul « Sole 24 Ore» del 30 dicembre 2017, da Pierantonio Frare sul «Corriere della Sera» del 6 gennaio; né sono mancate dure prese di posizione da parte di associazioni e istituzioni, come la Società di Linguistica Italiana, attraverso il GSPL (Gruppo di Studio sulle Politiche Linguistiche) e l’Accademia della Crusca, nella persona del suo presidente Claudio Marazzini.

 

Sta di fatto che all’intervento di Asor Rosa hanno replicato il giorno seguente, sempre sulle pagine di «Repubblica», la senatrice Elena Cattaneo e la linguista Roberta D’Alessandro. Il loro intervento è imperniato sull’idea dell’inglese come lingua internazionale della scienza: la ricerca non ha confini, necessita di una lingua comune, e questa lingua è l’inglese, ci piaccia o no. Premetto che non conosco Roberta D’Alessandro, docente all’università di Utrecht, ma della senatrice Cattaneo ho molta stima. Se ovviamente non posso valutare la sua attività come biologa (ma non ho ragione di dubitare che abbia meriti scientifici importanti), ho apprezzato molti suoi interventi su questioni di interesse pubblico, come ad esempio la destinazione degli spazi di Expo 2015. In questo caso, però, trovo che abbia assunto una posizione sbagliata. Non perché tutto il contenuto dell’articolo sia da respingere, ma perché per un verso sfonda porte aperte, e per un altro manca il bersaglio – cioè non coglie il nocciolo della questione. 

 

Non credo davvero che occorra ribadire l’importanza dell’inglese, o insistere sulla necessità che gli studenti italiani lo imparino meglio di quanto oggi non avvenga, o appellarsi alla dimensione sovranazionale della ricerca. Su questo mi pare che, semplicemente, non ci siano dissensi: siamo tutti d’accordo. Lo stesso dicasi per la distinzione fra la lingua intesa come oggetto della ricerca e la lingua in cui i risultati della ricerca vengono comunicati. Un esempio che viene proposto dalle autrici dell’articolo è quello del pirahã, lingua amazzonica senza scrittura, studiata prevalentemente da linguisti americani che hanno scritto in inglese. Nessuno dubita che sarebbe impossibile presentare un progetto di ricerca sul pirahã in pirahã – e non solo perché il pirahã, come alcuni sostengono (ma la questione è ancora controversa) non conosce sistemi di numerazione. 

 

Ma proviamo ad allargare il discorso. Non sarebbe pensabile nemmeno un progetto di ricerca sulla tradizione letteraria napoletana in napoletano (a meno, s’intende, di infarcire il testo di italianismi o di anglicismi): e ciò nonostante il napoletano, per numero di parlanti, ricchezza culturale, antichità di storia, possa dare dei punti a non poche delle odierne lingue nazionali d’Europa. È possibile, invece, presentare un progetto di ricerca sulla tradizione letteraria napoletana in inglese, così come in francese, tedesco, spagnolo, russo: e, s’intende, in italiano.

 

 

Che cosa voglio dire con questo? Una cosa che dovrebbe essere, oltre che ovvia per un linguista, intuitiva per chiunque: il rango delle lingue parlate nel mondo (alcune migliaia) è molto variegato. Fra il livello della lingua potenzialmente universale, o meglio, della lingua franca – il global English, detto anche, con ardita crasi, globish (cioè un inglese che più lontano non potrebbe essere da quello che si sente al Globe Theatre) – tra il livello, dicevo, della lingua veicolare delle scienze e il livello delle parlate locali di piccole comunità isolate, scritte per la prima volta solo da ricercatori forestieri, ci sono moltissimi gradini intermedi. Uno di questi, il più prossimo al global English, è rappresentato dalle grandi lingue di cultura: le lingue che hanno caratterizzato lo sviluppo della civiltà, che hanno saputo unire popolazioni geograficamente distanti, che hanno alimentato gli studi e la ricerca e le arti. L’italiano è una di queste. È una delle lingue mondiali – quante siano non saprei, ma dubito che se ne possano contare più di poche decine – nelle quali è possibile parlare di qualunque argomento, a qualunque livello. Per questo chiamiamo Dante padre della lingua italiana; e per questo, nella storia della lingua italiana, si studia anche Galileo, che aveva inteso perfettamente una cosa a molti oggi sfugge: cioè che è un vantaggio per la scienza poter parlare di scienza nella lingua comunemente usata da una popolazione. 

Certo, d’acchito non parrebbe questa la posta in gioco nel caso dei bandi Prin. «L’impatto dell’inglese dei Prin sulla lingua italiana è nullo», affermano le due autrici: «4.000 documenti di dieci pagine in inglese, fatti circolare solo tra scienziati, molti dei quali all'estero, non hanno alcuna influenza sull'uso della lingua a livello nazionale». Ora, che una biologa sostenga una tesi del genere, non stupisce più di tanto: le sue competenze sono altrove. Ma che lo sostenga una linguista lascia un po’ interdetti. Innanzi tutto perché le istituzioni statali hanno giocato un ruolo molto importante nella storia di tutte le lingue. Il comportamento dello Stato, e delle autorità in generale, è importante sempre; non è affatto indifferente che un settore della pubblica amministrazione italiana, per una procedura interna, dismetta l’uso dell’italiano. 

 

Ma la ragione principale è un’altra, e non riguarda la dimensione delle conseguenze pratiche immediate. In passato (su questo hanno insistito giustamente Frare e Marazzini) i bandi Prin prevedevano che i progetti venissero presentati in due lingue, italiano e inglese. Quest’anno invece l’inglese è obbligatorio, l’italiano facoltativo. Che differenza c’è? Sul piano pratico, nessuna. La differenza è simbolica. Qualcuno dirà: è solo simbolica. Io dico, invece: proprio perché simbolica è enorme; e, di nuovo, nessuno meglio di un linguista dovrebbe saperlo. Declassare l’italiano a forma facoltativa, anche se non provoca effetti concreti nel breve termine, investe direttamente il rango della lingua. Colpisce la sua dignità, cioè la sua posizione nella coscienza dei parlanti. La coscienza dei parlanti è una categoria fondamentale per capire la natura della lingua, il suo funzionamento, le dinamiche sociali ad essa legate (i fatti simbolici hanno sempre, a breve o lungo termine, ripercussioni concrete). Insomma: la lingua non è mai uno strumento neutro. Il fatto che tenda a diventarlo in parecchi campi della ricerca scientifica non può valere come norma o paradigma per gli altri usi. Come giustamente sostiene la denuncia del GSPL, il caso dei bandi Prin 2017 dimostra «una preoccupante confusione tra internazionalizzazione e sudditanza culturale».

Vorrei, per concludere, fare un esempio spicciolo di che cosa sia valore simbolico. Molti anni fa una mia anziana parente, figlia di italiani emigrati oltre oceano prima della Grande Guerra, si lagnava del fatto che ormai in California le risposte telefoniche automatiche cominciavano tutte con la frase For English press one. A infastidirla era la richiesta di un gesto, ancorché minimo – pigiare un tasto – per avere una cosa che reputava ovvia, dovuta, non negoziabile, cioè la possibilità di usare l’inglese (ovviamente, quelle registrazioni continuavano: Para español marque dos). Io allora pensai che mi pareva un grande progresso; e che, del resto, nella maggior parte dei luoghi del mondo dove i telefoni funzionavano così, la seconda opzione era For English press two. Ma, lo dico a mio disdoro, non ebbi il coraggio di sostenere questa posizione ad alta voce. Del resto, non riuscii nemmeno a domandarle perché avesse votato per Ronald Reagan. Per tutto il resto, era una persona adorabile.   

 

Proviamo ora ad aggiornare l’aneddoto con un piccolo esperimento mentale, riferito (mutatis mutandis, anche in termini di autostima linguistica) all’italiano. Immaginate che in Italia le risposte telefoniche automatiche propongano, come prima opzione, For English press one, e che solo dopo arrivi il nostrano Per l’italiano premere due. Sul piano pratico è difficile sostenere che cambi qualcosa. Ma sul piano simbolico – e perciò culturale – una differenza c’è, eccome. A me non piacerebbe affatto, chiamando in Italia un numero telefonico italiano, sentirmi dire Per l’italiano premere due, anche se non mi costa più fatica premere il tasto 2 che il tasto 1. Piacerebbe a voi? A lei, stimata senatrice? A lei, gentile collega? A lei, onorevole ex ministro? Ma facciamo un passo più in là. Che ne direste di una registrazione che, invece di cominciare con la frase (tutto sommato familiare) For English press one, recitasse in apertura Zhongwen fuwu qing an yi? (中文服务请安1: «Per il cinese premere uno»). Stando ai fatti nudi e crudi, potremmo ripetere, citando le due autrici dell’articolo: «l’impatto sulla lingua italiana è nullo». Dov’è il problema, se la registrazione comprende anche Per l’italiano premere tre? O premere quattro? A tacere del fatto che avremmo ancora margini, almeno fino al nove, anzi, allo zero (cosa importa? è solo un simbolo); poi c’è un problema con la tastiera. Con l’italiano, s’intende. Con il pirahã, segreterie telefoniche di questo tipo non si possono fare proprio. 

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