Raccontare le ferite del nostro tempo / Il confine che ci attraversa

7 Gennaio 2018

C'era una volta l'Europa, verrebbe da scrivere.

«Quest'idea ci girava in testa già da un po'. Percorrendo la frontiera esterna – la grande crepa – abbiamo notato moltissime spaccature nel sogno europeo. C'è l'immensa voragine dei profughi; la breccia dei nazionalismi, la chiusura delle frontiere e la minaccia dell'uscita del Regno Unito dall'Ue, il populismo e l'islamofobia, la crisi che ha opposto il Nord al Sud, la rottura di un blocco di Paesi dell'Est che vedono in Bruxelles la nuova Mosca; il baratro della Siria, dell'Iraq e della Libia. E poi c'è la Russia, un abisso enorme sul quale abbiamo l'intenzione di affacciarci. “Ci sono crepe più grandi e altre più piccole. E sono tutte collegate”, mi dice Carlos subito prima dell'attentato. “Se non si riparano quelle, collassa tutta la struttura”». 

Chi scrive è Guillermo Abril, giornalista spagnolo classe '81 che nel 2015, con il cortometraggio A la puertas de Europa, vince il World Press Photo con il fotografo Carlos Spottorno, connazionale nato a Budapest dieci anni prima di lui. Insieme hanno fatto un libro che – per dirla con le parole di Fabio Geda, che firma la commossa Prefazione – “è un'esperienza estetica impressionante che trascende la fotografia per invadere il campo della graphic novel”. 

 

 

La crepa (Add Editore 2017) è innanzitutto un viaggio iniziato nel dicembre del 2013 e diviso in tappe. Melilla, enclave spagnola su terra africana. Tracia, regione in cui si incrociano Grecia, Bulgaria e Turchia. Lampedusa, isola italiana più vicina all'Africa che all'Europa, e fregata Grecale, usata per operazioni di soccorso nel sud del Mediterraneo. Röszke, frontiera tra Serbia e Ungheria. E poi Pabrade – Lituania, a otto chilometri dalla Bielorussia –, Medyka – confine tra Polonia e Ucraina –, Szczurkowo – confine tra l'unico territorio russo che affaccia sul Baltico e quello polacco –, Narva e Salla – confine tra Estonia e Russia e Finlandia e Russia – e tanti altri luoghi che, ancora di più oggi in cui quelle interne sono così sotto i riflettori, ci sbattono in faccia la natura delle frontiere esterne dell'Europa. A volte ottusamente burocratiche, a volte anacronistiche e inutili, e a volte spietate, feroci, arroganti. 

 


Ma più che un viaggio, quello che i testi meravigliosi di Abril e lo sguardo nitido di Spottorno ci raccontano sembra l'esito disastroso di un'illusione, “quella sensazione d'impotenza di fronte alla storia che si ostina a ripetersi”, scrivono a un certo punto. I ritratti delle persone che hanno incontrato in questo loro interrogare i limiti incerti del nostro continente sono posati: dalle grottesche messiscene proposte ai giornalisti da uomini in divisa, al commovente senso del dovere di chi prova a tamponare una politica comunitaria nel migliore dei casi miope (nel peggiore complice), lo sguardo di Spottorno e la penna di Abril cercano sempre l'umanità nei protagonisti del loro racconto, anche dove questa sembra essere evaporata. E il trattamento cromatico la amplifica a dismisura, come nel caso della smorfia del colonnello della Guardia Civil che rassicura i giornalisti, come se fossero in un videogioco e non nella vita reale: “Roba forte, vedrete”, dice.

 

 

La ricordo bene, Melilla. 

Ci sono stato anche io, nel 2015, per realizzare uno speciale di Rai Cultura. La barriera alta sei metri si perdeva a vista d'occhio, dividendo questo confine estremo della Fortezza Europa dal resto del mondo, a sud. La vigilanza era imponente. Io e il film-maker “Ziblab” eravamo marcati a uomo da Juan Antonio, addetto alle relazioni esterne della Guardia Civil. Era gentile, educato, a tratti sembrava quasi affettuoso ma mai invadente. “Adesso stanno cercando altre rotte,” ci diceva, “passare di qua è troppo difficile”. 

Ci aveva accompagnati dalla barrera (la valla, la barriera, il muro) al cuore della cittadina – lui guidava il suo fuoristrada, noi a rimorchio con l'auto affittata. Alla centrale di controllo, era sceso dal fuoristrada. Le sue mani erano quelle di un burocrate che non ha mai sollevato un peso, che non ha mai sudato – se non per il caldo africano – dentro quella divisa verde. Le aveva appoggiate sulla mia spalla, con ostentata complicità. E a me era tornata alla mente la storia di Maurice Rossel, delegato del Comitato Internazionale della Croce Rossa che arrivò alle soglie di Auschwitz e si fece imbambolare da un ufficiale delle SS che riconobbe come suo simile. E che non andò oltre, non provò ad aprire gli occhi e a farsi voce dello sterminio degli ebrei d'Europa che era in corso. Quella mano sulla spalla per me fu uno schiaffo, come lo è stato cominciare a leggere La crepa, senza sapere che il racconto sarebbe iniziato proprio di lì. 

Perché noi andiamo e veniamo, facciamo reportage, scriviamo articoli, proviamo a denunciare quello di cui ci vergogniamo – in quanto europei, in quanto esseri umani. E poi torniamo a casa. Ma su quei confini, per chi è costretto ad attendere – settimane, mesi, anni – il momento giusto per passare, le giornate sono infinite. Su quei confini la gente aspetta, la gente prega, la gente muore. 

 

 

Ed è quello che ci raccontano i disegni di Andrea Ferraris, che con Renato Chiocca firma La cicatrice. Sul confine tra Messico e Stati Uniti (Oblomov Edizioni 2017), un reportage a fumetti che si apre con uno slogas dei latinons negli Stati Uniti: “We did not cross the border, the border crossed us”. Non abbiamo attraversato il confine, il confine ha attraversato noi – è quello che sembra sia capitato agli autori, che iniziano il racconto con una storia drammatica realmente avvenuta a ridosso della barriera americana, in cui il muro sempre protagonista della cronaca recente – e dannatamente simile a quello di Melilla – si scopre complice, o involontario coprotagonista, di un omicidio. La storia comincia con due ragazzi, sospesi nella terra di nessuno. 

 

Quella terra di nessuno che l'artista francese JR ha sfidato in ottobre, organizzando uno straordinario pic-nic al di qua e al di là del muro che separa Messico e Stati Uniti, che visto dall'alto regalava speranza ai nostri occhi. 

Giornalisti, fotografi, fumettisti, registi, artisti. Spagnoli, italiani, francesi. E queste sono solo due – appassionate, commoventi – delle tante opere che in questo scorcio di Europa in crisi provano a impostare una contronarrazione, per iniziare a raccontarci una storia diversa, una storia del presente in cui ci sono idee, energie e persone che giorno dopo giorno si battono per riparare queste crepe, per curare queste cicatrici, per abbattere questi muri. 

 

 

Per riprendere – ancora – le parole della Prefazione di Fabio Geda a La crepa, è anche grazie a queste persone che ci possiamo chiederci “ciò che siamo e ciò che vogliamo diventare”. Perché queste vite che volano via mentre le nostre scorrono si possono trattenere, perché queste porte sprangate si possono ancora aprire. 

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