Teatro Farnese di Parma / Lenz: il Grande Teatro del Mondo

28 Giugno 2018

Un campo lungo sul lato oscuro della commedia umana. Lenz Fondazione inquadra Il Grande Teatro del Mondo da Calderón de la Barca nel Complesso Monumentale della Pilotta di Parma (18-23 giugno). Figure, azioni, caratteri, sono riconoscibili, ma rimangono inglobati nell’ambiente. È il circostante il vero Dio/Autore, predomina su tutto e tutti, anche sulla sua copia in scena, che pur distribuisce tra gli attori ruoli e parti, giudizi e sentenze. Per Francesco Pititto (testo e imagoturgia) e Maria Federica Maestri (installazione, costumi e regia) questo luogo è l’opera. E, viceversa, la parola è il luogo, come recita il titolo del focus del 21 giugno sullo spettacolo e su 27 anni di poetica in dialogo con il corpo muto di archivi, musei, ospedali, regge e palazzi.

 

Difatti, fin dal 1991 e dallo studio sulle tre stesure de La morte di Empedocle di Hölderlin (1797-1800), la compagnia parmense ha usato una particolare espressione, mutuata dal regista Jean-Marie Straub, per definire le sue creazioni: “mise en site”. Lo spazio non è uno qualsiasi, è un sito, è storia, che qui ha attraversato lo Scalone Imperiale, la Galleria Nazionale, il Teatro Farnese. Il teatro, invece, è vita che lo riattraversa alla ricerca della luce nascosta in ciò che non si vede. Un lavoro a “scompensare” e “ricompensare”, spiegano Pititto e Maestri, l’impatto tra ambiente e testo, immagine e musica. Un gesto estetico che sospende l’attimo e rende possibile l’incontro con lo spirito del tempo e la condizione dei tempi, evocati dai performer dell’ensemble di Lenz e dai musicisti del Conservatorio ‘Arrigo Boito’ di Parma.

 

Ph. Francesco Pititto.


Ai piedi dello Scalone ci vengono impartite le regole d’ingaggio per la visione, votate, soprattutto, al rispetto della preziosità del Complesso, la pagina scenica per la riscrittura dell’auto sacramental, dramma religioso per la festa del Corpus Christi del 1641 a Valencia, composto da Calderón de la Barca nel 1633-36. È il benvenuto, per così dire, al movimento e alla combinazione degli spazi agiti da oltre 20 artisti. Investitura solenne dell’uno in tutti, perché ciascuno spettatore ha il compito di scegliere dove rivolgere lo sguardo o indirizzare il passo, tra forme reali e virtuali, opere concrete e fantastiche.

Sciamati al primo piano della Pilotta, la vista si apre sulla proiezione di Barbara Voghera. È intenta a farsi il segno, mille segni della croce, su un portale in legno dipinto, incorniciato da due coppie di colonne sormontate da una corona ducale: è il fastoso ingresso al Teatro Farnese. Quel cenno ossessivo restituisce l’ineluttabilità sacra della legge per cui l’universo è un palcoscenico e ogni uomo interpreta un ruolo: calato il sipario, l’Autore, cioè Dio, giudica la riuscita dell’attore.

Il nostro Dio/Autore è un bambino, Matteo Castellazzi, vestito con una tunica bianco papale. Arriva da sinistra, dalla Galleria Nazionale, dove ci recheremo tra poco. È l’anima giovane del puro fare e leva maestoso il grazie alla struttura che ci accoglie: ha bisogno del suo aiuto, della sua intercessione, per dire un “mistero allegorico” che si dipana tra due porte, la culla e la tomba, l’una il rovescio dell’altra (la stessa porta con due cornici in Quasi una vita di Roberto Bacci). Il richiamo fa breccia nel portale del Farnese e compare Voghera con una tunica rosso cardinalizio. Il Mondo si è staccato da sé, l’eterna parvenza si è incarnata nella viva presenza.

 

Per partecipare allo spettacolo dell’esistere bisogna, simbolicamente, rinascere. Così, il gruppo torna singolo, la moltitudine individuo, passando, in fila per uno, la prima porta, l’antro scuro, ignoto, della Galleria. Dentro, Dio/Autore, assiso in trono, fronteggia le decine di metri della Sala delle Colonne. In fondo, stanno il Mondo e la statua di Canova Maria Luigia d’Asburgo in veste di Concordia (1814), “irretita” da riproduzioni video di volti penitenti, con colori marcati e ripetizioni ostinate. Pare una selva di spettri, che subissano di suppliche la più alta autorità presente per avere una seconda opportunità, una nuova parte, un eterno riscatto.

 

Ph. Francesco Pititto.


Chi ha avuto accesso al copione de Il Grande Teatro del Mondo è seduto ai due lati della sala, accanto a teche in legno tipo quella che protegge una scultura in disparte nel Farnese. Una volta di più Lenz anima il recondito e l’inconfessato del luogo e ne fa la fonte principale di luce. I quadri alle pareti, solitamente il centro dell’attenzione, sono lasciati in penombra, neri come finestre affacciate sulle tenebre. La loro cornice è la fine, sono opere terminate, chiuse nel buio dopo l’applauso, mentre davanti agli occhi di Dio/Autore si palesano spettri, idee iniziali di esistenze ancora da venire.

Sono qualità emblematiche, posizioni che da formali diventano sostanziali, perché determinano le mosse in palcoscenico. Il Re (Sandra Soncini), la Bellezza (Carlotta Spaggiari), il Ricco (Monica Bianchi), il Contadino (Frank Berzieri), la Discrezione (Laura Bonvini), il Povero (Paolo Maccini), il Bambino mai nato (Lorenzo Davini). Al termine della recita saranno valutati non per il loro abito, ma per come l’hanno indossato, e al fianco del Creatore siederanno le creature che hanno fatto la loro parte “senza lamenti e senza errori”. È l’antico adagio dei teatranti, secondo cui non esistono piccole parti, ma solo piccoli attori. A loro si aggiungono i ruoli di apertura e chiusura, la Legge di Grazia (Valentina Spaggiari) e la Morte (Valeria Meggi), e gli interventi di Eugenio Degiacomi (basso). La tessitura musicale è barocca, eseguita da sei clavicembalisti dal vivo diretti dal Maestro Francesco Baroni (Sara Dieci, Alessandro Trapasso, Luciano D’Orazio, Alessio Zanfardino, Francesco Monica, Francesco Melani) e contrappuntata dai lampi dell’elettronica di Claudio Rocchetti.

 

La Sala non si mostra docile di fronte all’azione artistica. Il rimbombo non aiuta a seguire alla perfezione lo scambio delle battute, l’andare e venire per richiedere al Mondo il necessario per il ruolo. La narrazione acquista respiro, il suono si distende e la parola risuona di umana pienezza, varcata la soglia del Teatro Farnese, un’apertura ritagliata nella parete tra le altre tele “oscurate”. È questa la seconda e ultima porta.

Una distesa di cavalli a dondolo in legno ci fissa immobile giù dall’immenso palco, lungo 40 metri, con un’apertura di 12. Coevo de Il Grande Teatro del Mondo, il Farnese fu realizzato 400 anni fa, nel 1617-19, dall’architetto Giovan Battista Aleotti, e inaugurato nel 1628 con il dramma allegorico-mitologico Mercurio e Marte, testo di Achillini e musica di Monteverdi, arricchito da un torneo cavalleresco e da una naumachia, una battaglia di navi e mostri marini nella platea allagata ad arte. La “maraviglia” del teatro barocco oggi è un gioco a misura di un Dio/Autore bambino, è il potere creativo dell’immaginazione.

 

Ph. Francesco Pititto.


L’odore del legno è una presenza corposa, insieme alla semioscurità che, come con i quadri della Galleria Nazionale, ricopre la ripida gradinata a ferro di cavallo sormontata da una doppia loggia ad archi, che circonda la vasta platea, 14 gradoni per oltre 3000 spettatori. È il regno della finzione della finzione, della finzione al quadrato, dal momento che il Teatro fu ricostruito tra il 1953 e il 1965, secondo i disegni originali e con il materiale recuperato dal bombardamento degli Alleati, che lo distrusse quasi completamente il 13 maggio 1944.

Performer, musicisti e spettatori abitano la cavea. Il palcoscenico, invece, è l’orbita del Mondo, su cui gravitano tre grandi pannelli, “Trinità” di Dio/Autore che imita gli attori soltanto con le smorfie del viso. Osserva la rappresentazione e si guarda guardare: Castellazzi è seduto lassù in alto, nella loggia centrale, maestoso e reale. Ognuno comincia a interpretare il ruolo per sé: il Re esercita il potere terreno, il Ricco non condivide i suoi averi, il Contadino si lamenta del duro lavoro, la Discrezione viene derisa dalla Bellezza. La veduta si fa paesaggio drammatico con il Povero, che impersona un ruolo che non basta a sé.

Preso dalla disperazione, “bussa” alla riottosità degli altri per chiedere l’elemosina. Viene allontanato, rifiutato, scacciato dalle teche in legno che ora li ospitano. Maccini raffigura la diversità, la fragilità messa alla porta, esclusa da chi pensa di contare di più o comunque qualcosa. Al collo ha la corda con cui non sono riusciti a impiccarsi Vladimiro ed Estragone (è stata Valeria Ottolenghi su “La Gazzetta di Parma” ad accostare per prima questo Lenz a Beckett). Non ha scelto di vivere, non può ancora morire, anche lui è in eterna attesa, punto minuscolo nella vastità di un Creato ostile, segnato fin dal copione. Il ragazzo che dice che il signor Godot non verrà nemmeno stasera, ma di sicuro domani, qui è il Bambino mai nato, si dondola su uno dei cavalli giocattolo e non ha niente di suo.

“Datemi il pane, ho fame, che pena, che vita grama, che pietà”. Il monologo del Povero è la nenia straniante che accompagna il termine della commedia e la restituzione al Mondo di abiti e modi presi in prestito. Sfilano a uno a uno sul palco del Teatro Farnese, restano in mutande e canottiera. Niente appartiene a nessuno, in questo specchio l’immagine riflessa è quella della disumana perdita di sé. La bocca della scena mangia i suoi stessi figli, Barbara Voghera ha tutti i loro orpelli addosso, e in grandi sacchi di iuta forse stringe quelli di chi li ha preceduti e seguirà: gli spettri che infestano il candore geometrico della statua di Canova.

 

L’atto finale è la costruzione della tavola di Dio/Autore con una fila di casse in legno che taglia per lungo la cavea. Il Re adesso “conta” meno del Povero, ma la speranza cristiana di Calderón de la Barca nelle mani di Francesco Pititto e Maria Federica Maestri suona in battere, non in levare, è un diminuendo inesorabile. La tavola è imbandita di niente, gli ammessi mangiano in ginocchio un pane inesistente. Non c’è remissione dei peccati, salvezza o redenzione. Quasi trasfigurati, si dileguano tutti come ombre nella notte che avanza.

Il Farnese resta un polmone nero, tutto il percorso a ritroso lo è. Sono accese unicamente le luci di servizio, le videoproiezioni, le teche e la schiera di cavalli a dondolo, esercito infantile nel dormiveglia. La suggestione sembra rimandare al tema del progetto triennale di Lenz su Calderón de la Barca con e per il Complesso Monumentale della Pilotta: il passato imminente. Il Grande Teatro del Mondo costituisce la prima parte, poi sarà la volta de La vita è sogno, in forma di auto sacramental (2019) e di dramma teologico-filosofico (2020 per Parma Capitale Italiana della Cultura).

Dunque, per Pititto e Maestri il monumento farnesiano è la drammaturgia che racchiude nel medesimo spazio-tempo la vita e il sogno, tra periodo storico e contemporaneità, fruizione individuale e memoria collettiva. Un enciclopedico abbraccio delle differenze, delle possibilità dell’essere umano. A occhi chiusi ben aperti.

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