La scrittura, atto di speranza / Margaret Atwood, I testamenti
Il romanzo più celebre di Margaret Atwood, Il racconto dell’ancella, pubblicato nell’85, finiva con la protagonista, Difred, prelevata da un furgone nero, al cui interno c’erano degli uomini; il custode con cui Difred aveva una relazione, Nick, le sussurrava di non temere e di seguirli. Il finale, tuttavia, rimaneva volutamente ambiguo; non sappiamo e non sapremo mai se ciò che aspettava Difred fosse la salvezza o una condanna a morte. Ho provato in questi giorni a immaginare l’effetto che può aver fatto il racconto distopico dell’85 ai lettori del tempo. Era prima della caduta del muro, prima di Trump, prima dell’offensiva mondiale delle destre; diventò presto un classico, anche se non frequentatissimo. Nel ‘98, quando me lo regalarono, era fuori commercio; ha riacquistato una nuova vita paradossalmente grazie a Trump e soprattutto alla brillante serie televisiva che ha consegnato al nostro immaginario la rappresentazione definitiva delle Ancelle prigioniere di un sistema che, in una società di donne sterili, le ha destinate alla procreazione di figli che non cresceranno mai.
Trentacinque anni dopo, Atwood ha pubblicato quello che è stato certamente il libro più atteso dell’anno, I testamenti (traduzione di Guido Calza, Ponte alle grazie, 502 p.): file davanti alle librerie, Amazon che consegna in anticipo di una settimana un discreto numero di copie e si scusa con l’editore che aveva chiesto segretezza assoluta fino all’ultimo, fiato sospeso per un possibile Nobel alla letteratura che gli accademici svedesi, da sempre nemici del mainstream, le negano mentre vince un non trascurabile Booker Prize: insomma, la Nostra deve avere un cuore molto forte per reggere tutte queste emozioni, e non a caso ha recentemente dichiarato di avere un’età fin troppo venerabile per avere paura di alcunché. Infatti, regna sulle copertine mondiali con la sua meravigliosa aria sardonica, le sue camicie e sciarpe multicolori, i suoi capelli da strega e il messaggio palesemente ottimista dei Testamenti: i cattivi governi possono cadere, e le dittature difficilmente durano in eterno. Il New York Times ha scritto che nella nuova distopia di Margaret Atwood la verità salva. E ha aggiunto: se solo questo funzionasse anche nella vita reale. Infatti, è impossibile non sovrapporre la narrazione a tratti esplicativa dei Testamenti, soprattutto della loro prima parte, agli Stati Uniti con i loro problemi con muri, confini e una strana invenzione giuridica chiamata “heartbeat bills”, con cui l’amministrazione Trump, anticipando di molte settimane il termine legale per l’aborto, sta riuscendo di fatto a rendere illegale l’interruzione di gravidanza in molti stati americani. Ci sono molti traffici clandestini, nei Testamenti, perché la Gilead apparentemente granitica del Racconto dell’ancella è percorsa ora da fremiti interni, movimenti di resistenza, dissidenze e tentativi di abbatterla che partono dal suo cuore femminile: le Zie.
La novità principale rispetto al primo volume è la presenza di tre voci femminili che si intrecciano per tutta la lunghezza dei Testamenti: la prima è una bambina cresciuta all’interno di Gilead che si ritrova dopo qualche anno ad apprenderne i segreti e a collaborare alla sua caduta, mentre la seconda è una sua coetanea, cresciuta in Canada, che si rivela essere un personaggio fondamentale nelle dinamiche interne di Gilead. Anche lei sarà determinante per il crollo della teocrazia, e lo stesso vale per la terza, che altro non è che la terribile zia Lydia, cuore del sistema; è lei che, non appena prende la parola, proprio all’inizio dei Testamenti, subito dopo la descrizione della statua che le è stata eretta ad Ardua Hall, capovolge le aspettative del lettore tessendo un paradossale elogio della vita negli ex-Stati Uniti: “Mi avete chiesto di raccontare com’è stato crescere a Gilead. Dite che sarà utile, e io ho tutte le intenzioni di esservi utile. Immagino che non vi aspettiate altro che orrori, ma la realtà è che molti bambini venivano amati e coccolati a Gilead come altrove, e molti adulti erano affettuosi, per quanto fallibili, a Gilead come altrove”.
Atwood fa di Zia Lydia un personaggio complesso, che al momento della nascita di Gilead si trova a fare un scelta difficile: aderire al nuovo regime, anche se la prima cosa che le viene richiesta è sparare ad altre donne (proprio lei, che in veste di giudice ne aveva aiutate moltissime), o soccombere. Zia Lydia è una sopravvissuta, che spiega le ragioni delle sue azioni con voce lucida e impietosa; quando dice che da giovane si era bevuta “tutte quelle fesserie sulla vita, la libertà, la democrazia e i diritti dell’individuo”, oppure quando la vediamo allo Stadio, prostrata e umiliata insieme ad altre donne mentre aspetta di essere deportata, non possiamo non pensare al presente. D’altra parte, Atwood non perde occasione, quando viene intervistata, per stabilire connessioni tra I testamenti e le urgenze dell’oggi; tra le cause della caduta degli Stati Uniti vengono annoverati dei disastri climatici che portarono il paese alla povertà e resero la gente spaventata e arrabbiata. I testamenti è il romanzo di un’autrice importante dalla lingua limpida e potente che ha un messaggio da consegnare ai suoi lettori; in un’intervista al “Guardian”, la giornalista ricorda che la scrittrice canadese cominciò a scrivere I racconti dell’Ancella nell’84 (e la data non fu certamente scelta per caso, dato che il romanzo di Orwell è a tutt’oggi la distopia più significativa che sia mai stata scritta), a Berlino, come risposta a coloro che volevano cancellare le libertà guadagnate dalle donne negli anni ’70. “Semplicemente allora non avevano il potere di far sì che questo accadesse”. Adesso sì? La scrittura, dice Atwood, è un atto di speranza.