La riscoperta di uno scrittore / Frassineti civico e bestemmiatore
Torna grazie al coraggioso ripescaggio dell’editore Italo Svevo Tre bestemmie uguali e distinte di Augusto Frassineti: uscito nei roboanti “Narratori” feltrinelliani nel ’69 e mai riproposto da allora, questo curioso libretto è oggi riedito per le cure di Graziella Pulce, che presenta il testo riveduto alla luce delle correzioni emerse dalle carte d’autore, con una prefazione di Guido Vitiello. Non vorrei commettere l’errore di dare per scontato che chi legge sappia chi è Augusto Frassineti: molti, soprattutto tra le nuove generazioni, difficilmente lo avranno incontrato sul proprio percorso. Diverso è il discorso per chi ebbe l’occasione di leggere in gioventù la terza e definitiva edizione di quello che resta il suo libro più noto, Misteri dei Ministeri (Einaudi ’73), o poté apprezzare le sue versioni di classici della tradizione francese (Diderot, Rabelais e Scarron fra gli altri). Alla base di questo ingiusto oblio stanno ragioni non solo poetiche, che hanno a che fare con la fisionomia, anzi la fisiologia, intellettuale di Frassineti, ma anche motivazioni editoriali e di politica letteraria: mai entrato del tutto nell’orbita promozionale del Gruppo 63, Frassineti non solo non confezionò mai un romanzo in grado di consacrarlo presso un pubblico ampio, ma nemmeno un antiromanzo di gusto neoavanguardista che lo segnalasse come autore di tendenza presso la nicchia dell’iperlettorato di quegli anni.
Oltre a ciò, Frassineti dedicò principalmente all’attività traduttiva gli anni che separarono l’uscita dell’edizione einaudiana di Misteri dei Ministeri, il suo massimo sforzo come autore, dalla morte sopraggiunta nel 1985, dopo la quale la sua figura è caduta in un dimenticatoio, del quale si lamentava già lo storico amico Giorgio Manganelli alla fine degli anni ’80, qui e là rischiarato dagli sparuti per quanto significativi omaggi degli amici e dei suoi lettori più affezionati. Eppure, questo strano prosatore è stato in grado di mettere d’accordo nel tempo una lunga fila di intellettuali, alcuni dei quali molto lontani tra loro: da Calvino a Flaiano, da Celati a Fofi, da Manganelli a Pasolini, da Cavazzoni a Mari. Nonostante i significativi attestati di stima provenienti dalle voci più diverse, non solo tra i letterati, la maggior parte dei suoi libri non è oggi in commercio se non attraverso i canali del modernariato.
Aprendo il libro è possibile farsi un’idea meno sgranata dell’inattualità della prosa di Frassineti: tuttavia, per il paradosso degno di un umorista, gli stessi motivi che in passato hanno relegato Frassineti all’estrema periferia delle storie letterarie, se osservati da un altro punto di vista, permettono e rendono, non dico necessario, ma straniante e insieme salutare riprenderlo in mano al giorno d’oggi. Tre bestemmie uguali e distinte non è solo un libro satirico, aggettivo oggi così annacquato da renderne l’uso quasi imbarazzante, bensì un libro di satire, genere in disuso e già in odore di polvere quando Frassineti si ostinava a praticarlo. Un’opera di matrice swiftiana, dunque, sviluppatasi in un clima dove un ‘satiro’ già maturo come Frassineti, classe 1911, riscopriva insieme ad altri intellettuali alla fine degli anni ’60 la letteratura del grande pastore irlandese nel fervido laboratorio culturale creatosi intorno alla rivista «Il Caffè», diretta da Giambattista Vicari.
Bambini da questa parte, ad esempio, il primo e più corposo pannello di questo «trittico blasfemo», è a tutti gli effetti una modest proposal contro i bambini e a favore di una «Soluzione Finale» che una volta per tutte liberi l’Italia da questa perniciosa categoria: «Non vale immettere corrente ad alta tensione nelle strutture metalliche di recinzione dei giardinetti e dei terreni edificabili, né chiudere a doppia mandata l’uscio del salotto buono. Bisogna ucciderli» (p. 23). La vergine di Norimberga che campeggia in copertina non è dunque solo un macabro peritesto, ma il manifesto di un preciso programma di lavoro. Tuttavia, ogni volta che Frassineti indica la luna il lettore deve osservare con grande attenzione il dito puntato verso di essa: quest’iperbolica crociata anti-infantile, infatti, altro non è che la profilassi che l’autore adotta per attivare il secondo livello del discorso umoristico, che mira a scrostare le retoriche ufficiali del dopoguerra per portare alla luce il putridume reazionario che continuava a circolare copioso, per usare un’espressione di Frassineti usata altrove, anche dopo lo «sfasciume dello stato littorio». Per ribaltare un memorabile motto di Manganelli su Dickens, Frassineti non ci prende a bambini morti in faccia per farci piangere, ma per farci aprire gli occhi.
Le note di Graziella Pulce, ricche di spunti critici e robustamente documentate, rendono conto della vera e propria ossessione, prima biografica e poi letteraria, di Frassineti nei confronti del mondo della burocrazia italiana, quella “ministerialità” magistralmente indagata in termini fisici e metafisici in Misteri dei Ministeri, ossessione che, come nota giustamente Vitiello, rende questo autore una sorta di ponte tra Kafka e Fantozzi. Ebbene, mi pare che questo che resta e sempre resterà il chiodo fisso di Frassineti, il concretissimo fantasma ministeriale che l’autore di libro in libro ha dissolto e riplasmato in ogni possibile foggia, in Tre bestemmie uguali e distinte viene addomesticato e scatenato verso nuovi bersagli, nella fattispecie contro le forme di autoritarismo cresciute all’ombra di una democrazia in Italia mai del tutto assimilata. Già in Bambini da questa parte si nota come l’impostazione vocale e posturale di Frassineti sia quella dello studioso che documenti alla mano si addentra nel perimetro mentale del tartufismo italico e che, rivendicando a gran voce la necessità di sterminare i più piccoli, segnala in realtà l’arretratezza di una società impaludata fino al ginocchio, che chiude se necessario entrambi gli occhi pur di credere alla favola palingenetica del boom. In questo senso, sarebbe un errore separare il libro da quel Sessantotto appena concluso che Frassineti legge in tralice attraverso le sue antifrasi.
La satira di Frassineti registra però i suoi picchi quando soffia sullo spolvero delle buone intenzioni. Magistrali sono le pagine dedicate all’Ente Nazionale Assistenza Orfani dei Lavoratori Italiani (ENAOLI) e nella fattispecie alle colonie estive dedicate ai più piccini come la Torre FIAT a Marina di Massa, la «punta di diamante dell’ideologia assistenziale delle grandi industrie (FIAT, Pirelli, Montedison)» (p. 145), così la definisce Graziella Pulce, che coglie anche l’analogia tra la descrizione che Frassineti fa dei trasferimenti dei bambini verso queste strutture estive e le deportazioni degli ebrei nei lager nazisti. In tutto il trittico Frassineti sfoggia le sue notevoli doti da bricoleur, montando nel suo discorso capoversi di manuali, stralci di articoli, frammenti di romanzi, brani di opuscoli, fotografie, insomma qualsiasi pezza giustificativa possa essere esibita per inacidire la messa alla berlina della «pedagogia dell’annientamento» (p. 31) che impastoiava la società italiana di quegli anni. Faccio un solo esempio di questi gustosi prelievi, tratto da un’Agendina Estiva del 1961 pensata per il piccolo “Enaolino”, ancora candidamente impostata sullo slogan Dio-Patria-Famiglia: «All’inizio dell’estate, attraverso questa agendina, mi preme dirti una cosa: ricordati che anche durante le vacanze sei un Enaolino e devi fare onore a te stesso, alla tua famiglia, all’ENAOLI, che ti aiuta a diventare un bravo lavoratore, un onesto cittadino e un buon cristiano» (p. 35).
Questa vocazione al montaggio, oltre a consonare con i metodi di lavoro della neoavanguardia, come notava Walter Pedullà, è da annoverare fra i segni della devozione di Frassineti al tabernacolo di Swift, sulla scorta della lettura che Gianni Celati fa dell’opera dell’autore dublinese: «Facendo un vaglio di tutto quello che Swift ha scritto, ci si accorge che quasi tutto è ricalcato su modelli di smercio dalla carta stampata ai suoi tempi» (Narrative in fuga, p. 281).
La seconda e più breve satira raccolta nel trittico, Il Faro delle Genti, propone la messa in atto di una transizione, che oggi forse chiameremmo ecologica, che conduca l’Italia dall’essere penisola una a disintegrarsi in una galassia di atolli che soddisfi la cupidigia di coloro che fin dall’Unità si spartiscono il controllo della nazione. Ma è con l’ultima satira, Il cittadino di Bellagio, che Frassineti chiude il cerchio di questo libro, questa volta indossando gli occhialetti da chiosatore per verificare i manuali di educazione civica utilizzati nelle scuole dopo l’introduzione di questa disciplina nel ’58. E qui l’autore, vagliando e campionando con occhio implacabile questa letteratura, ne mette alla berlina – e qui mi concedo un catalogo à la Frassineti – tutto il conservatorismo, la faziosità, la vaghezza, l’ottusità, l’inadeguatezza, il filisteismo, la tendenziosità, la malafede e l’involontaria comicità, per giungere alla conclusione che: «Insomma, nel nostro paese, l’oggetto da guardare con circospezione non è la libertà (ce n’è così poca, dio mio, negli usi e nelle coscienze) e nemmeno il cosiddetto disordine, bensì proprio e particolarmente l’autorità in tutte le sue possibili e purtroppo frequenti prevaricazioni» (p. 116).
In questa carrellata nella precettistica ufficiale propinata agli studenti, tutta concentrata nel preservare un autoritarismo cieco e indiscutibile, Frassineti ha modo di toccare diversi argomenti sensibili, dal diritto di sciopero alla condizione della donna. Divampa un’appassionata tensione civica da queste pagine, che, come notava Pasolini in una recensione del’61 alla raccolta L’unghia dell’asino, è ciò che fa di Frassineti il primo (e forse l’ultimo) umorista “riformatore” delle nostre lettere.
Si comprendono i motivi che rendono oggi di difficile adozione la proposta letteraria di Frassineti, su tutti direi la tendenza scarsamente narrativa della sua prosa – alla quale si è ormai volenti o nolenti disabituati –, l’uso insistito del montaggio di materiali eterogenei e l’oggettiva difficoltà per il lettore contemporaneo di godere a pieno della qualità del suo ventriloquio umoristico, che presuppone una certa dimestichezza sul piano storico, politico e sociale con i gerghi ideologicamente connotati che di volta in volta l’autore adotta e deforma a seconda delle necessità. Omettere queste zavorre sarebbe una forma di disonestà critica, ma, come accennavo in avvio, la letteratura di Frassineti contiene anche utili anticorpi per i lettori di oggi, che possono suscitare interesse senza per questo dover tirare in ballo le famigerate «sirene dell’attualizzazione» (p. 12) dalle quali ci mette in guardia Vitiello. Anzi, più che appiattire Frassineti sulle volatili esigenze dell’oggi, si può tentare un esercizio forse più sano e leggere Tre bestemmie uguali e distinte per verificare se la sagoma dell’Italia di oggi ha ancora qualcosa a che spartire con quella tracciata dall’autore nel 1969, portando dunque la montagna a Frassineti e non viceversa.
Un aspetto che rende questo autore ancora stimolante è il modo in cui la sua letteratura prende spunto dalla vita, causando un continuo e produttivo attrito con il mondo circostante, che non viene mai negato o lasciato fuori dalla finestra dello scrittoio: rimando alle note della curatrice per le principali notizie sulla carriera burocratica di Frassineti presso il Ministero dell’Assistenza Postbellica e il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale, esperienze dalle quali è germinata e maturata la sua ossessione per la ministerialità. Mai troppo ludica da prendere il volo, anzi sempre contrappesata e tenuta a terra da dati di realtà, la satira di Frassineti rappresenta un tentativo di conciliazione per certi versi unico tra responsabilità etica e gratuità letteraria. Ho già elogiato i brani del Cittadino di Bellagio dedicati alla scuola e all’educazione civica, tralasciando però il vissuto biografico che innerva quelle pagine di una particolare linfa che la sola fantasia letteraria non basterebbe a pompare: mi riferisco al fatto che, fatto prigioniero sotto le armi nel ’43 e detenuto in Africa, Frassineti si spese senza tregua, parlamentando con gli ufficiali Alleati, in difesa della dignità dei prigionieri italiani.
Egli giunse a fondare un giornale da campo per trovare parole adatte a descrivere l’esperienza della prigionia e a evitare che le condizioni disumane patite tramutassero quegli uomini, che un giorno sarebbero tornati in patria, in esseri completamente privi di umanità e spirito civico. Questo stesso slancio lo portò, una volta rientrato in Italia dopo aver preso parte alla Resistenza, a essere fra i principali animatori del Movimento di collaborazione civica, laboratorio sociale che nel dopoguerra promosse iniziative educative, culturali e pedagogiche «per ricostruire non soltanto i ponti e le case e le strade, ma anche i viandanti e gli abitanti di quelle: non soltanto i “partiti” ma anche e prima di tutto gli uomini» (il testo Storia del movimento di collaborazione civica è reperibile gratuitamente a questo link grazie alle Edizioni dell’asino). Frassineti non è solo un finissimo letterato, ma anche un uomo pienamente calato nel suo secolo, due aspetti che in lui non si presentano mai scissi.
Se c’è un’ultima lezione che possiamo trarre dal libro, forse la più attuale e al contempo la più difficile da assimilare nella civiltà del web, questa riguarda non tanto la supposta corruzione morale della nostra società, quanto piuttosto la degradazione del dibattito e dei discorsi che intessiamo intorno ai valori alla base del vivere civile, anche e soprattutto quando ci troviamo a doverli difendere. Concludendo nel Cittadino di Bellagio la sua disamina dei manuali di educazione civica, così scrive Frassineti:
“Vi sono dei manuali che rendono omaggio alla Resistenza, che condannano il fascismo, che illustrano la Costituzione senza omissioni faziose né disinterpretazioni palesi, e nei quali tuttavia circola uno spirito profondamente reazionario, un autoritarismo moralistico e precettistico disgustoso e funesto: l’essenza vera del fascismo perenne italiano. E sono questi, ovviamente, i testi più insidiosi. Voglio dire che non basta scrivere o dire la verità per essere nel vero dal punto di vista educativo e che, inculcando gli ideali della Resistenza e della Costituzione in modo dogmatico e retorico, si rende un pessimo servigio allo spirito della Resistenza e a quello della Costituzione” (p. 125).
La «pedagogia dell’annientamento» di cui scrive Frassineti si è trasformata in questi cinquant’anni in un “annientamento della pedagogia” facilmente riscontrabile nelle timide e tardive linee guida fornite dal Ministero per la recente reintroduzione dell’obbligatorietà dell’insegnamento di Educazione civica, eterna cenerentola delle materie scolastiche, per tutti i gradi dell’istruzione.
Umorista? Scrittore impegnato? Autore civico o bestemmiatore? In un testo contenuto nella silloge Tutto sommato (All’Insegna del Pesce d’Oro 1985), Frassineti si esprimeva con personalità sull’eterno rompicapo riguardante il rapporto tra l’impegno e il disimpegno degli scrittori, lamentando la grande ingenuità scientifica nelle risposte più in voga ai quesiti riguardanti gli scopi ultimi della letteratura, satirica e non, ingenuità per lui «paragonabile a quella di chi credesse che il sole è stato acceso per asciugare il bucato e la luna per far ballare le lepri, o per dare il chiaro-scuro agli amanti o per disturbare i ladri di galline. Ciò naturalmente non vuol dire che il sole non riscaldi o la luna non adempia anche alla funzione di gentile ruffiana» (pp. 60-61). Che le arguzie di questo battitore libero delle nostre lettere possano tornare a colpirci in un momento storico dove le posizioni nello scacchiere letterario sembrano contare più dei libri stessi? La questione dell’attualità di questo autore è tutto sommato poco interessante, anche se con la pandemia l’Italia si è riscoperta d’un colpo “ministerializzata” al grado massimo senza nemmeno accorgersene. Parafrasando malamente ciò che scrive Fortini di Kafka in Dieci inverni, è la forza delle cose che conficca Frassineti nella storia: finché infatti esisteranno in Italia ipocrisia, conformismo, autoritarismo – in una parola la «ministerialità» – Frassineti, che ha dedicato una vita a perfezionare un vocabolario per nominare e fronteggiare questa forza prostrante, sarà sempre attuale senza aver mai cercato di esserlo. Piuttosto, in anni dove si scrivono sempre più romanzi e sempre meno “bestemmie”, sapremo noi tornare a misurarci con l’intelligenza delle sue provocazioni?
A. Frassineti, Tre bestemmie uguali e distinte, a c. di Graziella Pulce, pref. di Guido Vitiello, Roma-Trieste, Italo Svevo, 2021, 168 pp., € 15.