«Le passioni sono cavalli»
Non c’è l’origine, o forse, il cavallo sta proprio all’origine della pittura se pensiamo ai più di trecento cavalli di Lascaux. Da lì in poi, l’arte galopperà. L’altra origine, nel magico anno 1911, è il «Blaue Reiter», il Cavaliere Blu, che andrebbe identificato più correttamente con il cavallo blu o i cavalli blu (Franz Marc, Die grossen blauen Pferde). L’oscillazione tra cavallo e cavaliere, il transfert, è ciò che ci interessa, e il fatto che l’uomo moderno cammini accanto al cavallo. Lo fa dal momento in cui – evento collegato al mondo della cavalleria che simbolicamente morde la polvere – Don Quijote cade da cavallo, que mal de su grado le hizo venir al suelo por las ancas del caballo, dando tal caída, que sin mover pie ni mano dio señales de que estaba muerto. Morte simbolica che fu già quella di Montaigne, nel 1582, si que voilà le cheval abbatu et couché tout estourdy, moy dix ou douze pas au delà, estendu à la renverse, le visage tout meurtry et tout escorché, mon espée que j’avoy à la main, à plus de dix pas au delà, ma ceinture en pieces, n’ayant ny mouvement, ny sentiment non plus qu’une souche. Ma i cavalli ci fanno divagare: cioè non possiamo controllarli.
Fatto sta che questo animale non proprio aggraziato (lo scrittore svizzero Ludwig Hohl ha scritto pagine divertenti sulla esagerata massa muscolare del cavallo) continua ad attirare gli artisti. Vorrei soffermarmi sulla reiterazione del cavallo nelle opere degli artisti della cosiddetta Transavanguardia (parlerei piuttosto di neo-espressionismo italiano, ma le etichette non importano).
Partiamo da Il respiro del cavallo di Enzo Cucchi, del 1982. Il cavallo è qui protagonista assoluto, sagoma nera che occupa l’orizzonte. Il suo respiro genera un paesaggio apocalittico post-umano segnato da croci(fissi). La notevole energia del cavallo crea una forma orizzontale che fa concorrenza al mare e al cielo. L’animale è esagerato, come i cavalli “antichi” di de Chirico, ma senza la loro bellezza plastica. Non si sa se il cavallo crei un locus terribilis o se soltanto lo riveli. Si tratta comunque di un animale sublime, iperbolico come lo sono il mare e il cielo. In una variante ulteriore il respiro-paesaggio diventa ancora più potente e l’immensa sagoma del cavallo pare mostruosa, minotaurica, ed anche un po’ triste. Da simbolo di velocità e di energia, il cavallo si è trasformato in mostro immobile.
Passeggiata con cavallo di Sandro Chia è un dipinto del 1998. L’uomo (il cavaliere potenziale) e l’animale occupano lo stesso piano. Sembrano quasi posare per uno shooting fotografico, con il cavallo quale “attore” più vanitoso. L’insieme, di chiara impronta dechirichesca, presenta un cavallo puro, senza sella, libero. È “l’amico dell’uomo” che osserva il giovane che passeggia, sorridendogli quasi ironicamente. Poiché il cavallo si impone, primeggia, l’uomo – un po’ ridicolo con il suo incidere da catwalk – viene presentato qui da una prospettiva equestre. Migliaia di anni di addomesticamento esercitato dall’uomo sul cavallo, intere civiltà all’insegna del cavallo, infinite storie legate alla cavalleria – tutto ciò scompare in quest’accostamento liberatorio. Liberatorio per il cavallo, ma per l’uomo? Chi siamo, una volta scesi da cavallo? Cosa rimane, una volta che le gloriose immagini dell’uomo a cavallo vanno ad appartenere al passato?
Una simile inversione dei ruoli è presente pure in Singing Lesson di Francesco Clemente.
Sullo sfondo di un paesaggio assoluto, alla Paul Klee, ecco un enorme cavallo bianco. Accanto a lui un simil-Clemente nudo, con una vanga. Mentre il cavallo si espone, la figura umana viene quasi assorbita da un buco nero. La potenza appartiene chiaramente al cavallo, in piena erezione. Laddove l’organo eretto dell’animale punta in su, quello dell’uomo si abbassa con malinconia. L’uccello rosso (!) che posa sul cavallo è un altro segnale erotico. Vi è, ancora una volta, un senso di castrazione dell’uomo superato dal potente concorrente. La composizione funziona comunque sulla base dell’andirivieni continuo fra figura umana e figura animale. Lo spettatore un po’ voyeuristico salta da una prospettiva all’altra, e alla fine sembra proprio che quella animale sia vincente.
Il passo successivo – logico – è nella metamorfosi uomo-cavallo in un’altra opera di Clemente, che ricorda per quanto riguarda il disegno le opere di Pierre Klossowski. Il cavallo cosmico dà nascita a una coppia primigenia (Adamo e Eva?) o a una variante più pura. Le due realtà anatomiche si confondono in modo perfetto, come se i cavalli esistessero in verità per generare un’umanità diversa, migliore. La proiezione di sentimenti umani sull’animale tocca qui il suo apice.
Con Mimmo Paladino si passa alla tappa successiva, quella di un vero e proprio Übercavallo. Sia il suo Cavallo di sabbia a Paestum (1999), sia il suo cavallo senza titolo del 2006 sono concepiti come metafore totali. Composto principalmente da sabbia locale, il cavallo di Paestum appartiene al suolo che ha permesso la sua genesi. Il cavallo successivo integra elementi architettonici in una struttura di tufo, memore della materia locale che per secoli ha permesso i lavori di costruzione. Il cavallo sovradimensionato è simbolo di vita e di energia, ma anche di morte, violenza e guerra. Nello stesso tempo l’insieme appare come un immenso collage o bricolage, cioè un gesto postmoderno, che assembla i frammenti del passato per creare, in ultima analisi, un simbolo adatto ai nostri tempi.
Nel 2020 Paladino è andato oltre i suoi cavalli monumentali campani. A Piacenza l’artista ha fatto dialogare – nella piazza che porta bene il suo nome: Piazza Cavalli – le due celebri statue equestri di Francesco Mochi con un gruppo di cavalli che emergono disordinatamente, ma pieni di forza e energia dal suolo. Questi cavalli “primitivi” e ludici, che ricordano ancora una volta Lascaux, si oppongono alla tipologia della statua equestre.
Tutti i cavalli presentati in questa rapida carrellata si oppongono comunque al modello vincente del cavallo con il suo cavaliere che ha marcato la storia urbana soprattutto delle città europee. Ciò che fu iniziato da Puškin nel suo famoso poema Cavaliere di bronzo (1833), cioè la decostruzione della maestà simbolica della rappresentazione artistica dell’uomo a cavallo, ha trovato forma nell’immaginazione equestre della Transavanguardia. Nel testo puškiniano, la mobilità folle della statua equestre di Pietro il Grande esprime la hybris della costruzione di San Pietroburgo e la violenza del potere (assolutistico). Con la scomparsa del punto di visto vincente, alto, il soggetto moderno si ritrova a terra. I cavalli di Paladino presentano animali umanizzati, che ricordano un tipo umano che ha dovuto riconquistare il contatto con il suolo. Nella maggior parte delle opere presentate qui in rapida successione sembra proprio che il cavallo debba consolare l’uomo che invece, nel passato, lo dominava.
Sia la forma tradizionale scultorea (la fusione uomo-cavallo in chiave eroica), sia quella liberata del cavallo senza cavaliere funzionano in ogni caso come potenti Pathosformeln. Aveva ragione il poeta romantico Clemens Brentano quando diceva: “Le passioni sono cavalli” («Pferde sind die Leidenschaften»).