Le storie che curano / James Hillman, il peso dell’anima

30 Agosto 2021

In Le storie che curano, ripubblicato ora da Raffaello Cortina con una nuova Prefazione di Luigi Zoja, Hillman, in modo coerente con tutto il suo impianto filosofico e clinico, ripone la psicoterapia con le sue pratiche e ritualità dentro uno stile narrativo correlato a un’attività più estetica e poetica che scientifica. 

 

L’efficacia terapeutica passa attraverso i fili sottili della narrazione con le storie immaginative che ci raccontiamo e riraccontiamo all’infinito. Zoja nella Prefazione scrive che “l’analisi aiuta il paziente non perché restituisca alla sua vita un ordine interpretativo, ma perché le dà un ordine narrativo”. Per Hillman leggere Jung, Freud, Adler per la loro immaginazione, dove appunto si situa il potere terapeutico delle loro cure, può portare lo scrittore a riporre fiducia nell’efficacia terapeutica delle sue narrazioni. Per guarire l’anima dalla sua condizione prosaica dobbiamo avvicinarla al fare poetico (poiesis), una condizione di fondamentale importanza non tanto per fuggire la realtà ma per poterla immaginare diversamente soprattutto attraverso vite non vissute. La terapia diventa quindi la forma massima di riscatto di quel mondo immaginale che sa risvegliare il cuore dei ricordi e delle sensibilità per volgere l’anima verso gli dei, offrendo loro scritture infinite. La mente è fondata nella sua attività narrativa, nel suo fare fantasia: questo “fare” è poiesis. L’universo narrativo diventa una biblioteca infinita e interminabile (come l’analisi) dove “la musica e la magia delle parole risuonano incessantemente, in modo sorprendente, intelligente, ironico, oscuro, sinistro...” (Ogden, Vite non vissute, Raffaello Cortina, 2016).

 

Psicologia del profondo e letteratura convergono per affinità e intrecci sin dall’inizio, in cui la sintassi terapeutica ha fatto ricorso a un’immaginazione mitica letteraria: la storia di Edipo penso possa bastare come esempio. La psicologia ha bisogno di strutture di tipo narrativo per potersi raccontare e sviluppare, di un’attenzione estetica che sappia leggere le immagini e ascoltare le storie come base poetica della mente. Hillman sottolinea che le storie cliniche sono spesso troppo cariche di crudi fatti per potersi liberare verso un’altra storia, quella dell’anima, interiore e simbolica. 

 

Lo sviluppo del pensiero di Freud, di Jung e di Adler si articola in trame da romanzo, che si animano attraverso personaggi come Dora, Anna O., l’Uomo dei lupi, Miss Miller, Filemone, Sabina. Il romanzo psicoanalitico con i suoi personaggi, le sue lettere, le rivelazioni, gli incesti... anticipa le teorie, e le teorie si fondano su narrazioni mitiche. In Jung gli archetipi del Briccone, di Mercurio, del Puer, della Madre ecc. sono anche invenzioni creative di personaggi romanzeschi, biografie primordiali. Accanto ai generi eroici, picareschi, erotici, saturnini, Jung propone con i suoi casi un genere che sa interpretare “lo spontaneo immaginare della psiche, la cui materia è narrativa anche se viene definita materiale inconscio” (Le storie che curano). Il suo stile assume varie forme: dall’apocalittico allo sperimentatore comportamentista, dall’antico gnosticismo del vicino Oriente alla fisica moderna, con un’ermeneutica fuori dallo spazio e dal tempo, dove tutto per le sue ricerche psicologiche è prima materia sotto la tutela indiscussa del dio Ermes. 

 

James Hillman potremmo definirlo senza riserve uno dei più importanti medici della cultura, un medico che ha saputo relativizzare l’importanza dell’analista in favore di una psicologia archetipica: esiste qualcosa di più grande e di molto più potente a dominare la scena, qualcosa che nell’uomo, da sempre, si ripete istintivamente, ricercando le forme adatte alle diverse culture e nei diversi luoghi per incarnarsi e autorappresentarsi. Gli archetipi compaiono ovunque, scrive Hillman (Il lamento dei morti, Bollati Boringhieri, 2014): nel cinema, nella pittura, in manicomio, nei bambini, nello studio dell’analista... Sono forme mitiche universali che lui andrà a ricercare soprattutto nella Grecia antica.  

  

La sua fantasia ritorna in quei luoghi, in quegli spazi, per diventare metafora privilegiata di un regno immaginale che sa ospitare i principi originari sotto forma di dei. “E per scoprirlo occorre quello che Creuzer (curatore dei testi neoplatonici di Proclo e Olimpiodoro) considerava il dono ermeneutico, la capacità di immaginare in modo mitologico, un’arte simile a quella del poeta” (L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Adelphi, 1981). Di fronte alle tante difficili prove della vita, la psiche può re-immaginarle da un diverso punto di vista. La Grecia diventa così uno specchio che riflette configurazioni “naturali” molto ampie, che sanno raggiungere la piccola vita quotidiana delle nostre personalità e della nostra civilizzata coscienza. 

  

Hillman si situa “nel punto in cui psicologia e religione, la religione intesa come rapporto con la divinità e come rapporto con la collettività, sfumano l’una nell’altra, nel punto, dunque, dove la psicologia è indotta a prendere in considerazione la teologia e la politica” (La vana fuga degli dei, Adelphi, 1991). Il mondo infero e pagano, inferiore e istintuale, che sfugge al controllo del soggetto volitivo e all’ingenuità delle psicologie egoiche, ha da sempre i suoi rappresentanti divini, e la loro presenza o assenza può essere fattore di cura o di malattia, di crescita o di entropia nel tentativo, con le parole di William James, di adattarsi armonicamente all’ordine invisibile. Recuperare la salute significa spesso “recuperare il divino da dentro la malattia, vedere come il contenuto di essa sia autenticamente religioso”.

 

Il ritorno alla Grecia tramite il dio Pan, Dioniso, Hermes, Apollo, Hestia, Afrodite, Demetra, Eros e Psiche, e tutte le altre divinità, non è estetismo romantico, ma una discesa nella caverna che ci aiuta nella ricerca individuativa attraverso le vie dell’immaginazione. Spesso le divinità che ci abitano chiedono ascolto e riconoscimento perché l’inconscio cerca di compensare le unilateralità del mondo cosciente: anche se solo in piccole dosi l’uomo può avvicinarsi alle loro cure, perché esse esprimono qualità assolute e potrebbero dominarci e inflazionarci. Il cavallo nero nel Fedro di Platone è poco dominabile e non può essere lasciato solo, ha bisogno del cavallo bianco e di una misura ragionevole al centro che sappia riconoscerli entrambi. 

 

Anche gli stili narrativi e i generi letterari scelti per raccontare l’anima secondo Hillman si possono connettere a divinità diverse, ricordandoci che la psicologia è anzitutto politeistica e non dovrebbe mai esprimersi in modo schematico: va immaginata come prospettiva e traiettoria tra le moltitudini cromatiche e poetiche dell’anima stessa. Le storie che raccontiamo o scriviamo, veicolate dagli dei, si fanno ermetiche quando le connessioni aprono possibilità e amplificazioni, afrodisiache quando le sensazioni si posano “sul valore del sensibile”, dionisiache quando prevale il fluire inarrestabile della vita, cangianti con Mercurio e veementi con Marte. Lo stile narrativo del Senex o del Vecchio Saggio Hillman lo ritrova sia in Jung sia in Freud: per entrambi la forza persuasiva poggia sullo stesso fondamento archetipico, che proietta su noi lettori la riconfigurazione ontogenetica delle varie dinamiche primordiali presenti nei diversi personaggi della Trama. La psicoanalisi accoglie costitutivamente diversi volti e appartenenze, a partire da quello tecnico-clinico sino a raggiungere quello speculativo-teorico; per Hillman, il volto è quello di una psicoanalisi narrativa che con un procedere metaforico e poetico si avvicina di più alle arti che alla medicina occidentale. 

 

Il sogno per Jung parla almeno due lingue, espresse bene nella duplicità ermetica, e le include entrambe contemporaneamente nella loro ambiguità. La voce della natura per Jung si esprime in questo modo, e nei sogni è lei a parlarci. Per capire la struttura del sogno non possiamo che ricollegarci al dramma, all’invenzione poetica nel teatro della psiche. E come i sogni, anche le fantasie interiori hanno la logica avvincente del teatro, riportandoci alla Grecia antica e al teatro di Dioniso (signore delle anime), che con le sue maschere sa vedere oltre, in trasparenza, lungo i processi di guarigione. Del resto, se pensiamo che la psicoanalisi nasce come “cura attraverso la parola” – espressione coniata dalla paziente di Freud Anna O. –, il suo primato diventa senza alcun dubbio letterario e narrativo. L’analista si fa scrittore della storia narrata dai suoi pazienti, trasformando la psicologia in un romanzo. Una scoperta di Freud è che la storia attraverso la memoria spesso si separa dai fatti effettivamente accaduti: “Il trauma non è ciò che è accaduto, ma il modo in cui vediamo ciò che è accaduto”. La storia “dei fatti” viene dimenticata, negata, rimossa, la memoria può essere “non storica”: i ricordi di copertura e le invenzioni di precoci traumi sessuali non si legherebbero dunque necessariamente ad avvenimenti accaduti letteralmente. Se sappiamo liberarci dal bisogno che il ricordo richiami un fatto accaduto realmente, i ricordi possono evocare immagini archetipiche e gli eventi richiamati dal cassetto della memoria diventare primordiali e mitici, nel senso platonico di non esser mai accaduti e tuttavia di essere sempre. Potremmo quindi dire con Hillman che “il padre della terapia può essere Freud, ma la madre è Mnemosine, memoria, madre delle muse”. Mnemosine significa vedere gli eventi della storia come immagini. E a cosa serve tutto questo? Penso serva anzitutto a trovare una giusta distanza rispetto agli eventi della vita, sul confine tra i due mondi, e nello stesso tempo a riconfigurare e revisionare chi siamo e la narrativa dei nostri vissuti.

 

L’anima non abita solo dentro di noi, ma anche fuori, nel mondo. Quando siamo in un giardino, un qualsiasi giardino con i suoi alberi, i suoi fiori, le sue metafore, scrive Hillman (“Nei giardini: un ricordo psicologico”, in Politica della bellezza, Moretti&Vitali, 2005), si rende presente qualcosa che richiama l’anima mundi, l’anima del mondo. L’anima mundi per Hillman non è semplicemente un sentimento romantico e panteista dove il tutto si fa anima, perché in questa accezione tradiremmo la specificità di ogni singolo elemento sia soggettivo (io che guardo) sia oggettivo (gli abitanti del mondo) e la storia del loro incontro. Quindi non tutto ha un’anima, ma solo ciò che sappiamo incontrare. Per Hillman il giardino giapponese rende presente più di altri questa possibilità di incontro riflessivo tra l’anima soggettiva e l’anima del mondo. Ponti, piccoli sentieri, fioriture, caducità, lo schiudersi dei germogli, la fine dell’inverno, i piccoli corsi d’acqua... metafore tra le più pertinenti della nostra vita psichica. La complessità della psiche plana sugli elementi primi della natura come sulla topografia e la geografia di un giardino. La psiche può riflettersi nella semplice natura, e in questo riconoscere ciò che Jung definiva “psiche oggettiva”, presente ovunque attorno a noi. La psiche ha i suoi corrispettivi nel costante fluire delle cose. Questo mi ricorda il movimento delle fantasticherie di Rousseau, per il quale il bisogno di determinate posture psico-fisiche (come quelle del camminare) diventava imprescindibile affinché l’immaginazione si attivasse: nel silenzio, in un certo luogo, con una certa pianta...

  

Dal punto di vista clinico, la confusione e la non armonizzazione tra mondo interno e mondo esterno possono sollecitare pensieri o agiti di grande sofferenza. Il suicidio dell’anima di Hillman (Adelphi, 2010), da questo vertice di prospettiva, rappresenta la storia dell’anima come esperienza che nasce principalmente dai sogni e dalle intuizioni che sanno organizzare e ricostruire la nostra carta d’identità simbolica, fondamentale per non perderci nell’anonimato collettivo. Nessuna analisi riduttiva riuscirà mai a rimuovere il senso di questi simboli identitari con il riferirli semplicemente a traumi esterni. “La storia clinica riporta i successi e i fallimenti della vita rispetto al mondo dei fatti. Ma per l’anima successi e fallimenti non sono gli stessi perché l’anima non funziona allo stesso modo [...] l’anima immagina e gioca, e il gioco non è riportato nelle cronache [...] fare la storia dell’anima significa catturare emozioni, fantasie e immagini partecipando al gioco e sognando il mito insieme al paziente” (Il suicidio dell’anima). Sognare il mito insieme al paziente pone la storia clinica e la storia dell’anima dentro un processo continuo di riflessione e di espansione. Il sogno del paziente, come quando ascoltiamo un brano musicale, non richiede un’interpretazione, ma un “equivalente atto di immaginazione; il tuo sogno evoca in me un sogno, il mio lo evoca in te – non in senso letterale [...] ma il sogno come fantasticheria, fantasia, risonanza immaginativa, come un frammento del fare anima la cui finalità non è ermeneutica, ma è un gesto di comprensione” (Le storie che curano, cit., p. 50). 

 

Hillman ci ricorda che per Jung la psiche non è dentro di noi, ma siamo noi dentro la psiche. L’emergenza ecologica di questi anni richiama con urgenza questa idea di psiche dove l’interiore si riflette nell’esteriore... perché percependo l’estinguersi della natura, dovremmo percepire anche l’estinguersi della nostra vita psichica e quindi umana. La psicologia dell’anima sembrerebbe un buon punto di partenza per salvare il pianeta e recuperare la connessione tra tutti gli “oggetti” del mondo. Il cittadino per Hillman ha priorità rispetto al paziente, riportando l’attenzione del clinico a quel terreno sullo sfondo del quale Jung e Freud descrissero l’individualità: “il collettivo, l’istinto gregario, l’orda primaria, quella folla, quel fluire che è la polis [] non sarà più cogito ergo sum, ma convivo ergo sum” (Politica della bellezza).

 

Briser l’historie! Rompere la storia!” è la presa di posizione più rappresentativa del pensiero di Hillman. Significa uscire dalle maglie strette delle priorità del pensiero come successione di nessi causali dove il tempo lineare si fa esclusiva misura della storia. Hillman non è mai stato interessato a ciò che determina causalmente un evento perché ciò è considerato a-psicologico; è interessato maggiormente al valore associato a quella presunta causa. La priorità sta quindi nel valore, non nel tempo cronologico degli eventi. Che cosa significa pensare il tempo in termini di valore? Significa anzitutto includere l’idea di telos, che sa conferire valore a ciò che accade, “perché considera ciascun evento come dotato di uno scopo. Le cose avvengono per un qualcosa.

 

 

Hanno un’intenzionalità [...] telos conferisce valore agli eventi [...] la ghianda non si comporta tanto come una guida personale, quanto piuttosto come uno stile mobile, una dinamica interna che conferisce alle occasioni il sentimento che abbiano uno scopo” (Il codice dell’anima, Adelphi, 2009). La “ghianda” di cui parla Hillman riguarda quindi più gli aspetti animici degli eventi e ciò che fa bene all’anima. “Si spiega allora perché il daimon di Socrate lo esortasse a non sottrarsi alla prigione e alla condanna di morte”, il che per Jung significa “divenire familiari con i demoni, dischiudersi ad essi e ascoltarli, cioè conoscerli e distinguerli” (Le storie che curano) nella ricerca di se stessi. Le divinità sono diventate malattie, ammoniva Jung.

  

Pensando all’idea di tempo di Agostino, siamo sempre avanti (il futuro come ansia) o indietro (il passato come lutto) e il tempo presente spesso ci divide, ci rende assenti, vuoti, schiacciati, “bipolari”. Per Hillman il presente non è semplicemente un momento, un istante impercettibile e ogni volta superato, ma embricazione continua di tanti tempi che si estendono ovunque. La consapevolezza del presente non è epifania del tempo già passato, ma connessione costante con il molteplice presente. Con il linguaggio di Hillman dovremmo chiederci: qual è il tempo vero che vive l’anima? E potremmo rispondere: il tempo infinito dell’accadere psichico. Questo tempo include storie passate (pensiamo ad esempio alla ripetizione dei traumi subiti nell’infanzia) e storie future (i nostri infiniti propositi), tutte insieme contemporaneamente. Chi ha sufficiente esperienza clinica riconosce che, anche nei momenti più bui e traumatici della vita di una persona, l’inconscio sa parlare di altro, sa parlare un’altra lingua, sa parlare con un’altra esperienza della vita psichica. Se non ci avviciniamo a questo modo di procedere dell’inconscio, tutto si chiude sulla storia, sulla ripetizione, sulle presunte abreazioni e confessioni catartiche e così via: Hillman ci invita ad avvicinarci al tempo come Kairos, come opportunità e apertura al possibile. La consapevolezza di Kronos (il tempo che ingoiamo in ogni istante di vita) è tra le origini primarie delle malattie, e tutti in qualche modo ne siamo coinvolti.

 

Il dio principale di tutte le patologie infatti per Hillman è Ade. Uno degli epiteti di Ade era “colui che chiude la porta”. Tutto dipende da come ci posizioniamo davanti a quella porta. Per Eracle, ci ricorda Hillman in Il sogno e il mondo infero (Adelphi, 2005), fu una lotta continua con Ade, nella quale l’io erculeo pone la coscienza separandola dal mondo infero, con un rapporto tra i mondi opposti molto faticoso. Questo è un procedere tipico della medicina allopatica, che cerca la cura contrastando un processo patologico combattendo o iniettando ciò che difetta: “stimola elementi endogeni o ne introduce di estranei che si oppongono alla malattia” (Il sogno e il mondo infero). Se percepiamo invece che l’opposto è già compresente, e che ogni esperienza psichica si costituisce nell’identità di almeno due parti opposte, entriamo nel mondo simbolico e nella concezione di cura più vicina a Hillman: “non c’è niente da introdurre da parte di nessuno, perché l’opposto è già presente [...] ciascun sogno ha il suo fulcro e il suo equilibrio, si compensa da sé, è completo così com’è”. Se impariamo a guardare attraverso le nostre capacità ermetiche, da Briccone o da Arlecchino, il confine diviene luogo di scambio e non di conflitto tra ciò che è familiare e ciò che è estraneo, dove le porte e i cancelli diventano luoghi di attraversamento e l’ingresso significa iniziazione e non conflitto. Nella Grecia antica, i daimones erano figure del mondo intermedio. Erano terrificanti, benevole, guide, messaggeri e sapevano rappresentare lo specifico del paganesimo politeistico. Jung è stato tra i primi a ridare loro vita in relazione all’anima, tracciando per certi versi il solco dell’eretico e del demoniaco nell’immobilità dogmatica del Cristianesimo.

  

Questa capacità di tenere unito il mondo psichico con il mondo fisico penso possa aiutare molto soprattutto in tutti i casi in cui la malattia ci relega in un solo mondo, fatto di lotta e opposizione tra il sapere diurno e quello notturno, incapaci di vedere il mondo con occhi ermeneutici. Gli dei possono salvarci! I crocicchi dove vivono i templi improvvisati di Ermes ci ricordano che c’è qualcosa da portare oltre la soglia, e da barattare e tradurre in un’intuizione... il lavoro sui sogni e sulle nostre storie è anche un’opera di abile ermeneutica. 

 

Varie sofferenze sono spesso evidenti rimozioni di parti o esperienze appartenenti alla vita, nel tempo che scorre, inesorabile. In questo caso il sintomo diventa un portatore di senso teleologicamente orientato. Vi è l’occasione per farne qualcosa. Jung aveva già intuito come la maggior parte delle patologie nascondesse una mancanza di direzione, di visione e di immaginazione: “Non pochi cosiddetti pazienti [...], pur non essendo affetti da una nevrosi clinicamente classificabile, consultano il terapeuta a causa di conflitti psichici e altre difficoltà della vita [...] spesso queste persone sanno benissimo [...] che i loro conflitti riguardano il problema fondamentale del loro atteggiamento” (Jung, Questioni fondamentali di psicoterapia, in Opere, vol. XVI, Bollati Boringhieri). Atteggiamento che condiziona la costruzione dei nostri pensieri etici e filosofici e del nostro percepire e vivere il mondo. Il nostro modo di sentire le varie sintomatologie racconta anche della nostra inquadratura sul mondo, della nostra postura in esso. 

 

Come recepiamo un sintomo? Per Hillman, rifacendosi alla medicina antica, gli organi non sono solo sani o malati, ma sviluppano ciascuno uno specifico grado di coscienza. Anche Jung ne parla, soprattutto in Psicologia e alchimia. Che tipo di coscienza hanno i nostri organi? E come si sviluppano nel mondo? Il mito di riferimento è Dioniso che viene fatto in tanti pezzi e smembrato; in alcune versioni neoplatoniche si narra che venne disperso in tutta la natura riflettendo così i tanti organi del nostro corpo che chiedono coscienza, soprattutto nei periodi disfunzionali. Solo quando sentiamo dolore spesso diventiamo consapevoli dei nostri organi e del nostro corpo. Apollo cura e pensa le sintomatologie in modo del tutto differente perché usa la razionalità e il pensiero lineare. “Mentre la storia clinica espone una sequenza di fatti che conducono ad una diagnosi, la storia dell’anima mostra piuttosto un brulichio concentrico che rimanda sempre oltre se stesso. I suoi fatti sono i simboli e i paradossi” (Il suicidio dell’anima).

 

Dioniso, scrive Hillman (in AAVV, Lo spirito e l’ombra, Moretti&Vitali, 1996), rispetto ad Apollo è molto più legato al corpo che si muove sul palcoscenico della vita con i vari organi che si fanno attori principali, ognuno con un proprio stile e una propria specifica intelligenza. Tutto ciò che si allontana dalla coscienza diventa sintomo trascinando con sé, perché fuori del campo controllabile, anche il daimon che dovrebbe invece essere ospitato come spinta desiderante verso la nostra vita più autentica e compiuta nell’esperienza individuativa. La morale immaginativa e seduttiva contenuta nel discorso non sta nel giudicare i demoni come buoni o cattivi, bensì nel riconoscere le immagini religiosamente, in qualità di potenze che ci pongono delle richieste. Secondo un’antichissima visione, si sa che gli spiriti sono anche i nostri guardiani e custodi e noi lo siamo di loro. Solo una coscienza che non sa entrare nel mondo immaginale, per Hillman, si pone il problema morale, e non si pone il conosci te stesso, vivibile dall’interno delle immagini stesse. In sostanza, poiché non siamo noi a inventare queste immagini, teoricamente non siamo noi a fornire le risposte, ma sono le immagini a darcele, con una funzione di guida e di psicopompo. Il coinvolgimento con le nostre immagini più autentiche e profonde porta con sé la propria morale, spostando sul nostro demone il luogo della moralità, e non più sulla nostra piccola coscienza. La nostra immaginazione così non sarà più demonizzata con proverbiali lotte eroiche senza confine, ma assunta ad anima guida votata alle potenze della molteplicità. 

 

I demoni hillmaniani non sono più contraddizioni come pensavano ad esempio Jasper o Barth, ma sanno parlarci con la parola politeista dentro questo mondo. Gli dei sono nel mondo e nella natura (vero luogo degli archetipi: il Vecchio Saggio ad esempio, disse Jung, in realtà è uno scimmione), non al di là, e solo attraverso questa percezione e consapevolezza si può comprendere cosa intende Hillman per linguaggio dell’anima ed essere nell’anima. Essere nell’anima ci riporta nel mondo perché essa non ha necessità di ambienti chiusi e segregati, la si può incontrare ovunque. Non ci sono due mondi, sacro e profano, ma uno solo. 

 

Hillman riesce quindi a recuperare la dimensione politica unita all’etica e all’estetica, conducendoci verso una specifica visione del bello da portare e vivere nel mondo. E questo recupero di cittadinanza ci riporta anche a concepire la città come psiche e la polis come “l’altra metà del mythos”, come già era nell’antichità. L’immaginazione, nel senso in cui Hillman ce la presenta, diventa possibilità di abbattere i confini: gli archetipi con i loro demoni parlano a tutti con un ethos collettivo, non solo individuale. Il senso di una nuova partecipazione risuona nella consapevolezza e nell’urgenza di restituire al mondo le nostre più profonde emozioni, attraverso infinite narrazioni immaginabili.

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