Un festival in Calabria / Venti anni di Primavera

14 Giugno 2019

È appena calato il sipario su Primavera dei Teatri, festival sui nuovi linguaggi della scena contemporanea giunto quest’anno alla sua ventesima edizione. Ideato nel 1999 dalla compagnia Scena Verticale, sotto la direzione artistica di Dario De Luca e Saverio La Ruina e la supervisione organizzativa di Settimio Pisano, Primavera dei Teatri è nato e continua a crescere caparbiamente a Castrovillari, nel cuore del versante calabro del parco nazionale del Pollino, un entroterra escluso dal tradizionale circuito dei festival teatrali, scomodo da raggiungere perché la ferrovia non vi passa, lontano dal turismo costiero. Eppure questo festival è diventato uno dei luoghi di elezione della scena contemporanea, facendo della cittadina calabrese un polo di riferimento nevralgico per la sperimentazione teatrale, un luogo di accoglienza e di confronto per nuovi gruppi e artisti, regionali e nazionali, molti dei quali hanno ricevuto proprio lì il loro fortunato battesimo. Primavera dei Teatri rappresenta un atto d’amore della compagnia per la propria terra e l’espressione più autentica di un ostinato radicamento nel territorio, di una precisa volontà di costruzione di una fisionomia forte e profonda; ma si conferma anche semente sana e ormai pianta robusta che De Luca, La Ruina e Pisano hanno saputo coltivare e fare crescere rigogliosamente in questi venti anni, una piccola cellula di civiltà che li ha portati a disegnare una propria identità non chiudendosi in appelli a una località territoriale da occupare e difendere strenuamente, ma ponendosi invece in condizione di ascolto e relazione dialettica con le altre compagnie regionali e con le nuove voci teatrali sparse sul territorio nazionale, di cui hanno saputo intercettare le energie, lo spessore, la qualità artistica. 

Grazie alla perseveranza e alla tenacia dei suoi fondatori, nel tempo le radici rizomatiche del festival si sono rinforzate ed estese per incontrare altre radici, nel segno della interazione, della relazione e dell’arricchimento reciproco fra le diverse realtà, facendo di Castrovillari e della Calabria non solo un florido cantiere di confronto culturale, di formazione e produzione teatrale, un robusto ponte fra il locale, il nazionale e ormai l’internazionale (come testimoniano i fecondi progetti EUROPE CONNECTION, BEYONDthesud e GRECIA-ITALIA 2019/2021), ma anche una casa accogliente.

 

Difficile scegliere nell’ampia e densa offerta di spettacoli visti negli ultimi giorni di festival, ma anche limitandosi a questi, sembra che due cifre distintive e prevalenti, talvolta strettamente intrecciate, possano essere individuate all’interno di esperienze eterogenee e di percorsi artistici molto differenziati. L’una è formale e riguarda la scelta di un genere quale il teatro di figura a cui la direzione artistica ha con ragione riservato uno spazio significativo nella programmazione degli spettacoli; l’altra è l’affondo tematico intorno alla morte, alla fine, non solo dell’umano, di cui si ricostruisce una complessa fenomenologia: dalla paura della fine, alla fine che non vuole finire, alla fine procurata agli altri oppure a sé stessi. 

 

“La classe” di Fabiana Iacozzilli, ph. Angelo Maggio.


È il teatro di figura a strutturare potentemente il tessuto tematico del docupuppets per marionette e uomini” La Classe (vincitore anche del premio In-box), in cui l’autrice e regista Fabiana Iacozzilli ci accompagna nella ricostruzione artistica e documentaria di un suo frammento biografico di piccola scolara in un istituto elementare gestito da Suore di Carità. La storia è quella di soprusi e violenze di ogni tipo inflitte dalla terribile Suor Lidia a lei e ai suoi compagni di classe, dei quali si odono in scena le voci che ritessono i ricordi di quegli anni infernali, a volte vividi e a volte appannati dagli anni trascorsi o dal desiderio di dimenticare. Quella originaria aula scolastica, ora trasfigurata in scena, è una stanza della memoria in cui Iacozzilli ha praticato, secondo i precetti antichi, la propria personalissima mnemotecnica. L’arte della memoria – insegna la trattatistica classica – era un metodo per fissare i ricordi attraverso la memorizzazione visiva di luoghi e di immagini ben precise: si trattava di distribuire e contenere il ricordo collocando in dei loci immagini di cose oppure di persone (imagines agentes) “di bellezze e bruttezze incomparabili”, si legge in uno degli innumerevoli trattati cinquecenteschi di mnemotecnica. La potente imago agens che l’autrice ha fissato nella sua stanza della memoria è quella di bruttezza incomparabile e feroce di Lidia, “la suora coi baffi”, capace di ridurre i piccoli allievi in inermi fantocci. Ecco allora che è il tema stesso ad esigere una precisissima forma, ossia quella dei puppets, quattro spaurite ed esilissime costruzioni di legno e stoffa, dai grandi occhi teneri e sgomenti, ideati magistralmente da Fiammetta Mandich e animati da cinque bravi performer, anch’essi ben visibili in scena come luce e respiro delle marionette. 

 

“Menelao” di Davide Carnevali inscenato da Teatrino Giullare, ph. Angelo Maggio.


Altro felice esempio di teatro di figura è il Menelao di Davide Carnevali, costruito, interpretato e diretto da Teatrino Giullare in coproduzione con Emilia Romagna Teatro Fondazione. Un testo di cui non si può non elogiare la sapiente costruzione scenica, oltre che l’interpretazione e il lavoro artigianale fatto dai due attori, Giulia Dall’Ongaro ed Enrico Deotti, nel mettere in vita e dialogare con marionette, fantocci, ombre che sbucano dai libri e incubi frutto del sonno inquieto del protagonista Menelao. Siamo di fronte a una riflessione contemporanea non tragica, ma quasi parodica, intorno alla figura di per sé poco tragica di questo eroe decisamente minore del ciclo degli Atridi, anche solo rispetto a suo fratello Agamennone. L’uomo senza qualità Menelao, più annoiato che infelice, chiede inutilmente che la sua storia, poco eroica, abbia un finale diverso in modo da trovare riscatto almeno in una morte degna di essere ricordata. Ma nulla di nuovo può essere riscritto, e quel che di fatto lo attende è solo un raddoppiamento dell’infelicità pretestuosa che lo attanaglia, amplificata proprio dal suo doppio marionetta.  

 

“Sêmi. Senza infamia e senza lode” di Stivalaccio Teatro, ph. Angelo Maggio.


La paura della fine fa da sfondo e da motore all’ottima impalcatura drammaturgica di Sêmi. Senza infamia e senza lode della compagnia veneta Stivalaccio Teatro, testo (finalista al Premio Hystrio Scritture di Scena 2018) e regia di Marco Zoppello, in prima nazionale a Castrovillari dopo una un’anteprima al Teatro Studio di Scandicci. Non siamo propriamente nel teatro di figura, ma nel teatro delle maschere, quelle create da Roberta Bianchini per i personaggi in scena: il sergente maggiore Zoppei, succube del suo implacabile colonnello che con i suoi ordini sembra tuonare dall’aldilà, il soldato scelto Rossi, con tendenze estremiste che tradirà platealmente nella chiusura distopica di questa farsa tragicomica, il finto tonto Morello, soldato semplice di origine napoletana, e due eco-terroriste. Siamo alla vigilia di Natale di un anno imprecisato del futuro e i tre militari presidiano nel loro ultimo giorno di guardia la blindatissima “Banca mondiale dei semi”, che custodisce, congelata, ogni specie di semente presente in natura al fine di preservarne la varietà biologica. 

Lo scenario sinistro della pièce, fatto salvo il cortocircuito comico garantito dall’indolente soldato Morello, sembra richiamare quello della futuristica sezione speciale Zero K della clinica “Convergence”, fondata nel deserto del Kazakistan da Ross Lockhart, personaggio del romanzo omonimo di Don DeLillo: è lì che i pazienti, prima di morire naturalmente, si fanno congelare per procrastinare la morte, nell’attesa che i progressi biomedici e tecnologici arrivino a guarire da ogni malattia. Sono vite modificate, bloccate, incagliate nella rete del tempo quelle conservate a bassissime temperature nella sezione Zero K di DeLillo, non troppo dissimili dalle vite congelate, inceppate e contro natura dei semi che nella pièce i militari difendono. Ed è proprio questo il movente dell’attacco terroristico portato al bunker da due attiviste del “Movimento rivoluzionario per la conservazione dei semi ambientali”, che irrompono in scena prendendo in ostaggio i militari al grido di “I semi devono essere liberi!”: liberi di tornare al mondo, “di essere ripiantati e restituire nuovi semi da ripiantare, come fa madre natura da millenni”, liberi e liberati dalla paura, tutta umana, dell’estinzione. 

Arguto è peraltro il rimando implicito fra i semi vegetali congelati in vista di una eventuale vita futura e quelli tutti umani del soldato scelto Rossi, la cui smania di immortalità e onnipotenza lo ha spinto a congelare il suo stesso seme, seppure nel frattempo si sia fatto praticare la vasectomia per non correre il rischio di generare altra nuova, odiata vita. E proprio Rossi è fra le migliori esemplificazioni del polisemico titolo della pièce, Sêmi, che per i veneti di Stivalaccio Teatro è anche un modo popolare per compendiare la stupidità e l’ignavia, la fragilità e la tracotanza della nostra misera umanità. 

Fra sagaci allusioni al sequestro Moro e raffinate citazioni del Cicerone delle Lettere ad Attico (“Nihil inimicius quam sibi ipse”, nessuno è più nemico di sé stesso), la farsa precipita nella tragedia e verso un finale per nulla lieto in cui è un ordigno, prima congegnato dalle terroriste e poi fatto esplodere proprio dal militare integralista Rossi, a decretare la fine di uomini e semi, “perché anche gli uomini, come le piante, sono troppi e qualcuno va sacrificato”, perché il “fine giustifica i mezzi” e “tutti devono fare la propria parte”. Proprio qualche minuto prima della fine, le parole apocalittiche pronunciate in scena – “siamo come le piante, siamo troppi, non ci stiamo dentro un vaso, dobbiamo prendere quelle malate e strapparle” – sembrano sorprendentemente far eco di nuovo con quelle lapidarie di uno dei personaggi di DeLillo: “Non stiamo forse preparando la strada per raggiungere livelli incontrollabili di popolazione, e di stress ambientale? – Troppi corpi che vivono in uno spazio insufficiente” (D. De Lillo, Zero K, trad. F. Aceto, Torino, Einaudi, 2016, p. 60). 

 

“In exitu” di Giovanni Testori, di e con Roberto Latini, ph. Angelo Maggio.


È fine procurata a sé stessi, ma anche grido di dolore e fine che non vuole finire il magnifico In exitu che Roberto Latini ha adattato, interpretato e diretto partendo dall’omonimo, crudele romanzo di Testori del 1988. La contesa tra la vita e la morte di Riboldi Gino, uno dei tanti tossici che ha bruciato l’esistenza negli angoli nascosti della stazione di Milano, magistralmente incarnato da Latini, prosegue fino all’ultimo strazio, fino alla fine. Sullo spettacolo, presentato in prima nazionale a Primavera dei Teatri, sulla potente scenografia, sulle musiche di Gianluca Misiti che, cariche di compassione, accompagnano il derelitto Riboldi nel suo solitario calvario, sarà necessario tornare con uno specifico approfondimento, ma per ora si deve almeno rimarcare il lavoro fatto da Latini, immaginiamo faticosissimo ma riuscito, di teatralizzazione della grammatica e della sintassi testoriana e di “messa in forma” di un testo narrativo – esso stesso drogato, in overdose – per ricavarvi la forma malata, straziata, disperata del suo personaggio.  

“Lo psicopompo” di Dario De Luca, prod. Scena Verticale, ph. Angelo Maggio.


“Non nasciamo per nostra scelta. Ma dobbiamo morire allo stesso modo?”. Questa domanda, estrema e smisurata, tratta ancora dalle pagine di Zero K di DeLillo (p. 219), ci fa precipitare di nuovo nel tema della fine, quella scandalosamente cercata da chi, pur non affetto da alcuna patologia clinica, soffre di un desolato male di vivere, ha l’anima malata. È questo il tema della nuova produzione teatrale di Dario De Luca, anima di Scena Verticale e di Primavera dei Teatri, dal titolo Lo psicopompo, che ha debuttato in anteprima nazionale a Castrovillari e di cui De Luca è autore e regista, oltre che interprete con la meravigliosa Milvia Marigliano. 

Lo spettacolo, per soli 60 spettatori dotati di cuffie, è stato allestito non nelle sale storiche del festival ma a Cosenza, all’interno del complesso BoCs Art, il più grande spazio creativo di residenze in Europa in cui dimorano artisti ospiti della città. Il complesso architettonico è costituito da vere e proprie casette a due piani dotate di ampie vetrate sull’esterno. E proprio una di queste è stata individuata da De Luca come spazio ideale per la sua drammaturgia, che in questo primo allestimento è ambientata in un interno essenziale – un sofà, un ripiano in vetro su cui poggia un giradischi, una scala sullo sfondo che conduce al piano superiore – lasciando gli spettatori all’esterno, oltre la vetrata, ma sempre a contatto diretto con le voci, i respiri, i rumori che riempiono la scena, grazie alle cuffie e alla perfetta cura del suono di Hubert Westkemper. 

Già dalla prima scena veniamo catapultati nella vicenda. Una donna, ex insegnante di mezz’età ma ancora avvenente, ha deciso di mettere fine alla sua esistenza. Nessuna malattia in corso o particolare sofferenza fisica l’hanno convinta a cercare la morte, ma un’irreversibile apatia, un’ormai insopportabile afflizione psicologica e l’avversione verso qualsivoglia umana attività e relazione, complice la morte del suo primo figlio Gabriele, quello prediletto, per una grave malattia. Chiede aiuto per telefono a un giovane infermiere, che clandestinamente pratica l’eutanasia attiva, lo psicopompo del titolo appunto, un traghettatore di anime dei nostri giorni che aiuta a morire chi non ha la forza o il coraggio di togliersi la vita. Al primo incontro tutti scopriamo, personaggi compresi, che quell’infermiere è il figlio più giovane della donna ormai lontano da casa da molti anni, quello che lei ha sempre trascurato per prendersi cura di Gabriele, figlio modello e musicista talentuoso. 

Il resto è teatro di parola, con nascosta fra le righe anche qualche garbata citazione, come quella sugli stormi tratta dall’Altrui mestiere di Levi; riflessioni sulla morte, discorsi e ricordi carichi di tensioni mai risolte tra una madre, che rivendica il suo diritto di scegliere come e quando morire – il diritto di morire felice e lasciare la vita senza paura, direbbe Hans Küng (https://rizzoli.rizzolilibri.it/libri/morire-felici/) – e un figlio, professionista della morte, ma prima di tutto figlio.

Non anticipiamo il finale di questa intensa prova teatrale di De Luca, che ha richiesto un lavoro lungo e costante in questi ultimi anni, fatto di confronti e di letture approfondite, anche condivise. Una prova che conferma il raggiungimento di una maturità tanto drammaturgica quanto registica di De Luca, di cui non si può non apprezzare il coraggio di inoltrarsi in spazi tematici impervi e scomodi, qui la morte e in precedenza i suoi contorni, con l’affondo sulla terribilità dell’Alzheimer presentato nel Vangelo secondo Antonio. Questioni e temi coraggiosi, appunto, coraggiosi e rischiosi come può esserlo il teatro, e che solo un giudizio affrettato tenderebbe a liquidare frettolosamente. Teatro come tempo dell’attenzione e spazio di dilatazione dell’esperienza, quella degli artisti e quella di noi spettatori.

 

Tutto comincia dove si nasce, diceva Dario Fo, ma in questi venti anni un’onesta e intelligente pratica della condivisione e dell’apertura all’altro hanno garantito a Scena Verticale e al festival Primavera dei Teatri una feconda espansione dialettica della propria identità artistica, e a noi spettatori di essere testimoni partecipi di questo percorso di dialogo e di crescita.

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