Venezia-Asseggiano, 30 gennaio 2012

21 Febbraio 2012

 

Scommettiamo che Beppe Grillo all’Istituto Tecnico di Asseggiano non sarebbe capace di ripetere quel che ha maldestramente sostenuto sullo ius soli?

 

Ma andiamo con ordine, e ripartiamo da dove ci eravamo fermati. Ovvero dal fatto che dopo gli incontri preparatori di ottobre, si sono formati due gruppi con i quali abbiamo lavorato tutte le settimane, ogni lunedì all’Istituto Tecnico Edison-Volta di Asseggiano, il martedì al Liceo Classico Marco Polo di Venezia. Entrambi i gruppi contano un numero di partecipanti attorno ai 20-25.

 

 

Stiamo lavorando su Mistero buffo di Vladimir Majakovskij, scritto nell’estate del 1918. La trama è semplice, misto di realtà e fantasia: c’è un diluvio, una sorta di diluvio universale, pochi esseri umani si salvano convergendo al polo boreale, unico luogo rimasto asciutto. Majakovskij li divide in “puri” e “impuri”, dove i primi sono i rappresentanti del potere (aristocrazia e alta borghesia), i secondi sono i lavoratori. Poiché l’alluvione minaccia anche il polo costruiscono un’arca e insieme procedono a una navigazione fantastica dove approdano prima all’inferno, poi in paradiso, e poi, non trovando soddisfacenti né l’uno né l’altro, arriveranno alla società del futuro. I “puri” si perdono per strada, mentre gli “impuri” approdano all’utopia comunista, e chiudono la commedia con un inno di trionfo per la rivoluzione proletaria.

 

 

Noi stiamo mantenendo le varie tappe della vicenda, e la stiamo reinventando con le improvvisazioni e le fantasie degli adolescenti, seguendo in questo le indicazioni dello stesso autore: “E voi tutti che in futuro reciterete, allestirete, leggerete, stamperete Mistero buffo, cambiate il contenuto: rendetelo attuale, aggiornatelo, al minuto.”

Se l’intelaiatura della storia è ancora avvincente, l’osanna del finale invece è inutilizzabile, condannato senza appello dal tribunale della Storia. E allora, non c’è futuro? Il finale sarà un coro in cui tutti i partecipanti al laboratorio canteranno e grideranno i versi del giovanissimo Majakovskij, del Majakovskij lirico, adolescente ribelle. Il futuro è nell’adolescenza, in quell’insoddisfazione per il mondo “come è”, scaturigine (a dispetto di tutti i fallimenti delle idee rivoluzionarie) delle prossime sacrosante ribellioni. Dei prossimi incendi.

 

 

Ascoltate!

Se accendono le stelle

significa che qualcuno ne ha bisogno

significa che qualcuno vuole che ci siano

significa che qualcuno chiama perle

questi piccoli sputi.

 

Mamma!

Mamma!

Vostro figlio è magnificamente malato!

Vostro figlio ha un incendio nel cuore!

Mamma!

Mamma!

Dite ai pompieri

che su un cuore in fiamme

ci si arrampica con le carezze.

 

 

Oggi mi concentrerò a raccontare di Asseggiano, la prossima volta del Marco Polo.

Ad Asseggiano ci sono tante etnie, mondi, lingue. La percentuale di stranieri presenti nella scuola arriva al 30 per cento. E nel nostro gruppo sono maggioranza: contiamo moldavi, macedoni, brasiliani, bengalesi, turchi, nigeriani, marocchini. Chi come Alina, moldava, che è qui solo da qualche anno, chi come George, che è nato qui. Ed a proposito di George, appunto, che mi è tornata in mente la polemica di Grillo sullo ius soli e sullo ius sanguinis, i due diversi diritti di cittadinanza, quello che nasce dall’esser nato sullo stesso “suolo” e quello che si origina dal condividere lo stesso “sangue”: puoi dirlo a George, caro Grillo, guardandolo negli occhi, che non è italiano perché il suo “sangue” non è italiano? George Aghimien, nato all’ospedale di Mestre nel 1993 da genitori nigeriani. Non è mai stato in Africa, il suo ovviamente perfetto italiano ha una leggera cadenza veneta. Puoi dirgli, guardandolo negli occhi, che il suo stato di cittadinanza italiana “non è una priorità”? Che “distrae gli italiani dai problemi veri”? Che quindi “la cittadinanza italiana, per te che sei nato e vissuto qui da quasi vent’anni ormai, non è un problema degno di essere preso in considerazione”? Che cittadinanza significa in concreto “pienezza dei diritti civili e politici”, e che quindi tu, caro George, non hai diritto come i tuoi coetanei a questa “pienezza”, perché sì, sei nato e cresciuto come loro in questo Paese, hai imparato e parlato la stessa lingua, hai frequentato le stesse scuole, ma il tuo sangue è diverso? Che fai parte della popolazione italiana, caro George, ma non del popolo italiano? E che quindi, caro George, non sei un vero cittadino, non sei uguale agli altri, tu caro George sei un… non dico uno schiavo, no, ma… come posso dire… un suddito, ecco, o qualcosa del genere… ripeto, non sei una priorità, caro George… e adesso facci pensare ai problemi importanti, lo spread e la crisi economica, e quando verrà il tempo ci occuperemo di te.

 

 

Io non credo che Grillo ce la farebbe a ripetere a George questi anatemi, guardandolo in faccia. Anche perché, lavorando con George da ottobre, ho verificato di quanta allegria e intelligenza siano piene le sue improvvisazioni sceniche e i suoi giochi. E nel confronto tra i due, probabilmente, l’attore comico di un tempo (Grillo, appunto, un tempo capace di una satira affilata, oggi inesistente su questo piano, direi parecchio spuntato) avrebbe sicuramente la peggio, e soccomberebbe alle battute di traverso che gli farebbe il nostro George, cadenza veneta e furbizia di arlecchino africano.

 

 

Tornando al gruppo: sono in 21. Nei primi appuntamenti la turbolenza era senza limiti, era difficile farsi ascoltare, ma incontro dopo incontro, senza spegnersi, quella turbolenza anarchica ha cominciato a creare linguaggio e disciplina. I professori dell’Edison-Volta ci hanno detto di aver notato, da parte degli iscritti al laboratorio, un miglioramento anche nel percorso scolastico, cosa che non è certo tra gli obiettivi della non-scuola, ma se questo avviene non può che farci piacere. Allo stato attuale abbiamo costruito l’impianto di quattro scene: il prologo, il diluvio, la scena dell’arrivo degli “impuri” e quella dei “puri”, e in questi giorni stiamo lavorando all’incontro-scontro tra “puri” e “impuri” all’inferno. Quando i due gruppi si incontrano nel regno dei diavoli, scattano gli insulti più sonori e le battutacce più bieche: i “puri” trattano gli “impuri” come schiavi, Jennifer la “regina” fa un urlo che sembra il grido di un uccello tropicale (qualcosa di inaudito, un arrotarsi delle corde vocali che non ho mai sentito prima…) e li stende tutti, ma poi gli “impuri” si ribellano e li mandano a quel paese. Ora, essendo tutti questi giochi improvvisati, i ragazzi sono a briglie sciolte e non se le mandano a dire. Se le cantano e se le suonano, inventano oscenità degne di Aristofane, scherzano pesantemente sul piano sessuale e sul piano etnico, per cui ogni luogo comune è buono per costruirci sopra una battuta. Paola Amadio e Filippo Bernardi, gli operatori comunali che ci seguono ogni lunedì all’Edison-Volta, mi raccontavano che battute come quelle generano in questa scuola, e in altre simili della periferia veneziana, risse e liti molto violente, qualcosa che poi viene etichettato in modo generico come “bullismo”: ed entrambi erano sconcertati nel vedere i ragazzi usare qui, nel Mistero di Majakovskij, la stessa irruenza verbale che altrove genera violenza fisica e allo stesso tempo essere capaci, qui, di trasformarla in gioco scenico. Per cui a uno scambio di insulti segue un abbraccio, a una sconcezza fa seguito un canto fatto insieme. Potenza del teatro! Potenza di un teatro in cui chi recita fa uso di una libertà di creazione che non ha freni e nello stesso tempo sperimenta come quella libertà si rafforza e si potenzia esercitandosi nel rispetto dell’altro. È lì, come nei fescennini, come nelle atellane, ovvero come negli scherzi comici violenti che stanno alle radici plebee del teatro nell’area mediterranea, che nasce il dialogo come cellula originaria del teatro: non come esercitazione moderata, ben educata, politically correct, censurata quindi, ma come turbolenza di attrazione-repulsione dell’altro, scambio furioso e improvvisato che non nasce da un testo ma scaturisce dalla vita stessa di un popolo, e che si stratifica in un’architettura di ascolto: non c’è gioco se non c’è ascolto. Non ci divertiamo davvero se non ci ascoltiamo. Non si dà teatro senza attenzione all’altro, lo strano “straniero” (di qualunque sangue esso sia) che mi sta davanti.

 

 

Le foto di questo diario veneziano sono tutte di Roberto Magnani: ci sono i volti di George, di Alina, e di qualche altro “barbaro” di Asseggiano. E poi ce n’è una, che ritrae una scritta su un muro davanti alla fermata dell’autobus, di quel 10 che ogni lunedì prendiamo alla stazione di Mestre: “NELL’ODIO LE MIE RADICI”.

È una scritta che dovrebbe far riflettere a lungo, su quelle che sono le “priorità”, i “problemi importanti e urgenti”, per dirla con la retorica dei grilli parlanti e di tanti politici.

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