L’horror di Jordan Peele / Se il nemico siamo noi

6 Aprile 2019

Dopo Scappa - Get Out, forte dell’Oscar alla Miglior sceneggiatura originale (su quattro nomination), Jordan Peele è tornato a sbancare il botteghino statunitense con Noi, opera seconda in cui il regista-sceneggiatore-produttore afroamericano torna a esplorare alcune delle tematiche già presenti nel suo debutto: individuo vs. società, corpo & identità. 

 

 

Santa Cruz, 1986: Adelaide è una ragazzina che si allontana dai genitori durante una vacanza e si ritrova nella casa degli specchi (Vision Quest) di un Luna Park dall’atmosfera tutt’altro che rassicurante. Da sola nel labirinto, scopre che quello che sembra il suo riflesso è in realtà una ragazzina identica a lei in tutto e per tutto. E quando Adelaide, ormai adulta (Lupita Nyong’o), fa ritorno a Santa Cruz per una vacanza con la propria famiglia (marito e due figli: la classica famiglia hollywoodiana), quell’incontro traumatico tornerà a tormentarla con esiti alquanto funesti. Dopo una giornata passata in spiaggia (con una tensione ricca di oscuri presagi simile in tutto e per tutto a quella dello Squalo di Spielberg – non a caso il figlio di Adelaide indossa una t-shirt del film), quattro figure assolutamente identiche a loro appaiono sul vialetto di casa, animate da intenzioni non certo amichevoli.

 

 

Già prima dell’apparizione dei terribili doppelgänger quella a cui assistiamo è la classica estate da incubo, con amici petulanti, mariti troppo entusiasti e figli che vorrebbero essere altrove. La figlia più grande è sempre al cellulare, annoiata a morte all’idea di una vacanza con i genitori; il figlio più piccolo, che di nome fa Jason e indossa sempre una maschera (capita la citazione?), fin da subito è presentato come bambino un po’ “particolare”. 

È in questa parte che Peele dà il meglio di sé. L’ouverture del disagio è giocata sulle sensazioni della piccola Adelaide, che, costretta alla villeggiatura in compagnia dei genitori, percepisce attorno a sé una realtà rumorosa e nauseante. Lo stesso disagio che vibra nelle sequenze successive, in cui Adelaide, adulta, torna con marito e figli appresso nel luogo dove tutto ha avuto inizio.

 

Di grande aiuto alla resa ansiogena, in queste parti introduttive, è il comparto tecnico. Alla colonna sonora torna Michael Abels – già al lavoro su Get Out – con toni ancora più hitchockiani: archi a profusione che nel crescere della narrazione drammatica si innestano su tappeti sonori elettronici sempre più scuri e disturbanti. Alla fotografia invece troviamo Mike Gioulakis, che ha già al suo attivo It Follows e Under the Silver Lake di David Robert Mitchell, e gli ultimi due lavori di M. Night Shyamalan. 

 

Una costante, nella vasta bibliografia sulla figura del doppio, è che questi si configura sempre come una minaccia, il nostro riflesso oscuro e maligno. In Noi c’è – volente o nolente – molta letteratura. Dal Sosia di Dostoevskij al William Wilson di Poe, fino a L'uomo duplicato di Saramago (da cui il bellissimo Enemy di Denis Villeneuve), quello del doppelgänger è un tema fertilissimo: «Adoro la mitologia legata all’alter ego e i film che hanno lavorato sul tema – ha spiegato il regista – e volevo realizzarne una mia versione cinematografica. A spingermi è stata la convinzione che siamo noi i nostri peggiori nemici, un aspetto che tutti noi conosciamo intrinsecamente e nonostante ciò tendiamo a sotterrarlo. Spesso ce la prendiamo con lo straniero, con il diverso, ma in questo film il mostro ha la nostra faccia».

 

 

È lo stesso Peele a fornire le coordinate precise e dirette di quali siano le sue fonti d’ispirazione. Noi inizia con il primo piano di un TV color che sta trasmettendo lo spot pubblicitario di “Hands Across America”, un’iniziativa benefica in cui bisognava formare una catena umana tenendosi per mano da una parte all’altra degli Stati Uniti (immagine emblematica, che torna ambiguamente anche in chiusura). Accanto al televisore (come nel recente Climax di Gaspar Noe), stanno alcune VHS. C’è C.H.U.D., “scult” dell’’84 di Douglas Cheek (che Peele ha confessato essere il padre della sua prima fidanzata) in cui alcuni senzatetto newyorkesi si trasformano in umanoidi cannibali a causa delle scorie radioattive del sottosuolo; c’è I Goonies (1985), ormai pietra miliare della “nostalgiorrea” di questi anni (da Stranger Things in poi); c’è Ho perso la testa per un cervello (1983), con Steve Martin e Kathleen Turner, che parla (toh!) di cervelli e anime condivise; e non manca ovviamente uno dei capisaldi dell’horror anni Ottanta come Nightmare (1984) di Wes Craven. 

Ma le citazioni permeano, sebbene in maniera più blanda, anche la regia, con riferimenti a Spielberg e soprattutto a De Palma – uno che sui “doppi” non ha mai lesinato (Le due sorelle, Vestito per uccidere, Omicidio a luci rosse): l’omaggio è esplicito nel confronto finale fra Adelaide e il suo doppio, dove Peele ricrea digitalmente (e in maniera abbastanza goffa) l’effetto “Split Diopter” di cui il maestro del New Jersey è (stato) un virtuoso.

Noi è insomma un enorme labirinto di specchi dove le strizzate d’occhio si alternano a citazioni palesi, quasi sempre con l’intenzionalità della gag: come nel caso della battuta su Mamma ho perso l’aereo – «Cosa sono le micromachines?!» – che è una piccola ma efficace cartina di tornasole sul gap tra i Millenials e la Generazione Z

 

 

 

A parte tutto questo, se in Get Out ha affrontato in maniera esplicita il tema del razzismo, in Noi Peele tenta un percorso più ampio e ambizioso, passando da quella fetta di Sogno Americano per la quale il problema è sempre costituito dagli “altri”: gli anni Ottanta degli USA, d’altra parte, sono stati gli anni della Reaganomics e dell’URSS come “Impero del Male”. Peele continua così a esplorare i terrori esistenziali dell’identità e il tema del possesso mescolando toni differenti – horror e commedia, citazionismo e autorialità – accumulando maschere e metafore, unendo passato e futuro in uno scoperto parallelismo tra Reagan e Trump, suggerendo come gli USA siano stati, e siano tutt’ora, una nazione profondamente divisa e divisiva. Un “Io” collettivo ma spaccato, che esplora i sotterranei dell’America contemporanea, colpevole di una doppia coscienza e di una doppia morale, se non addirittura di una doppia storia (e quindi di doppie radici). Il paradosso del sogno americano “under rug swept”.  

 

Ma davvero basta tutto questo mosaico infinito di citazioni, unito all’ambizione di una critica sociale sulla natura dell’homo americanus, a far funzionare il film? Purtroppo no. Al netto dell’indiscutibile perizia tecnica e di una tensione qui e là resa in maniera efficace, la sceneggiatura risulta strumentale a questo ingombrante apparato di omaggi che rende Noi una piccola enciclopedia in sospeso tra l’Avantpop e lo Slipstream, ma senza il nerbo e il rigore che hanno caratterizzato (e talvolta continuano a farlo) il lavoro di Tarantino, dei Coen o di Edgar Wright. Mai abbastanza cupo, mai abbastanza ironico, Noi ci illude d’esser una creatura misteriosa e affascinante, oscura e magnetica, rivelandosi ben presto soltanto un giocattolone farraginoso e retorico.

 

Se nella prima parte, come accennato, Noi funziona molto bene, si perde poi nella spiegazione finale, superflua e lacunosa, con plot twist che strizza l’occhio tanto all’Invasione degli ultracorpi (ennesimo omaggio-citazione) quanto agli esiti della Clone Saga di Spider-man: chi sei tu? Chi sono io?  

Come e più di Get Out, anche Noi dà il suo meglio nell’antefatto, nelle suggestioni e nella sospensione dell’attesa, ma si schianta quando dovrebbe decollare, inabissandosi in una narrazione che, paradossalmente, riesce a risultare troppo illustrativa quanto manchevole. Viene il dubbio che per ora Jordan Peele sia stato solo un grosso equivoco

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