Bergen Barokk Suite Life / Gli algoritmi sessuofobici di Facebook

3 Maggio 2019

Quale mai può essere la ragione per cui un CD di musica classica viene bandito dalle pagine di Facebook come è accaduto il 25 aprile scorso all’album Bergen Barokk Suite Life, prodotto dall’etichetta norvegese LAWO?

 

La musica? 

Ne dubito, troppo astratta e soprattutto strumentale. 

 

I titoli? 

Forse quell’offensivo “Les calotins” seguito da “et les calotines” (bacchettoni, baciapile, bigotti) di Couperin? Oppure l’allusivo “Plainte” (lamento, gemito) di Marais o, per analoghe ragioni, il lascivo, insinuante “Rondeau Le Plaintif” (lamentoso) di Hotteterre?

 

No, ci dicono l’intelligenza artificiale e le altrettanto selettive e selezionate intelligenze umane al servizio del giovane Mark Zuckerberg, il punto dolente del prodotto è la sua copertina, dove figura nientedimeno che la riproduzione “deemed to be sexual” (da ritenersi sessuale) di una Still Life – altrimenti detta Natura morta, Bodegón, Stillleben, Nature morte… – del pittore olandese Jan Davidsz De Heem, nato a Utrecht nel 1606 e morto ad Anversa nel 1684.

 

Per la combinazione di IA e IU di cui sopra, qualcosa, in quel dipinto, entra in rotta di collisione con l’impegno del marchio Facebook a garantire ai suoi utenti “sicurezza” e al contempo “libertà d’espressione”. Ma cosa? 

E qui è importante ricordare l’affermazione cruciale di Zuckerberg durante una recente audizione davanti al congresso Usa: “Facebook è una tech company e non una media company, perché, è vero, siamo responsabili dei contenuti, ma non li produciamo noi”.

 

Quindi, seguendo la catena logica da lui proposta, nel xvii secolo l’artista olandese Jan Davidsz De Heem produce una natura morta impudica e, in tempi recenti, l’etichetta musicale LAWO la ri-produce licenziosamente sulla cover di un proprio CD. La catena viene responsabilmente spezzata da Facebook, che sottrae al nostro sguardo:

 

- un melone aperto ma ancora appeso al suo tralcio 

- tre pesche, una delle quali aperta a metà 

- un grappolo di ciliegie rosse

- una melagrana aperta

- un tralcio di prugne nere, una delle quali smangiata fino a rivelare il nocciolo

- un tralcio di more di gelso

- un paio di ostriche aperte

- tre calici di cristallo colmi di vino

- un calice in metallo

- un piatto di porcellana bianca e blu

- una lumaca

- due farfalle

 

 

Il tutto allestito su un parapetto o davanzale marmoreo lievemente crepato, alle cui spalle si erge quasi invisibile un tavolato nero. Frutti e foglie hanno raggiunto gradi diversi di maturazione e decomposizione: la frutta si spacca, i semi sono a vista, le foglie si scuriscono ai bordi, si afflosciano, cedono alla mancanza di linfa. 

 

A guardare bene, questa natura morta non è solo una raffigurazione pittorica di oggetti inanimati, è una vanitas, una composizione che ci ricorda la caducità della vita, ma anche la nostra meravigliosa impermanenza. Non è un caso che questo genere pittorico abbia avuto il suo apogeo nel Seicento, soprattutto in Olanda, dopo la guerra che per trent’anni, dal 1618 al 1648, devastò il continente europeo e a seguito delle epidemie di peste che la accompagnarono.

 

Quel che conta qui non sono gli ‘oggetti’ rappresentati, ma la visione che ne ha l’artista, la sua percezione emozionata dell’opera erosiva del tempo sulla carne delle cose, sulla nostra carne. 

 

Ma Facebook non va per il sottile e storia e storia dell’arte devono essergli del tutto ignote o indifferenti: un buco è un buco è un buco e una rosea incurvatura, nell’antropomorfica e antropocentrica visione dei suoi più o meno umani addetti, non può che essere una mammella o ancor peggio una natica (e due natiche con in mezzo un buco, alla faccia delle pesche secentesche, fanno senza dubbio un culo). E così oscurare, sottrarre alla vista, censurare, gettare fuori scena, proteggere gli utenti di Facebook e la loro libertà d’espressione, proteggendoli da se stessi e dalla libertà di esercitare il proprio spirito critico. 

 

Bello pensare che proprio in questi giorni sia tornato nelle sale italiane un film che Pier Paolo Pasolini girò nel 1975 e di cui non fece in tempo a completare il montaggio, Salò o le 120 giornate di Sodoma, un formidabile antidoto all’infantilizzazione cui siamo quotidianamente esposti. Macchina scopica per eccellenza, il cinema mette di continuo a tema la relazione tra spettatore e spettacolo, tra l’inconscio del primo e l’inconscio del secondo. E in questa pellicola Pasolini lo fa invitandoci a ragionare sull’atto del guardare, del non chiudere gli occhi neppure di fronte all’osceno per definizione, l’esercizio del potere di cui l’abuso sessuale non è che espressione e metafora. 

 

Sì, per Pasolini noi, spettatori e adulti, eravamo il terminale di una catena associativa creata dall’attività di sguardo e dalla capacità critica. Senza reti e senza tutele.

 

Per Zuckerberg, che deve considerare i suoi utenti dei bambini indifesi e ignari, meglio eclissare tutto ciò che è in odore di sessualità (per lui sinonimo di perversione?). Immagino sappia tuttavia assai bene che gli oggetti ‘oscurati’ hanno la tendenza a trasformarsi in oscuri oggetti del desiderio. La censura non è, in tal senso, la malattia infantile della pubblicità, il magico strumento che trasforma in oro tutto ciò che tocca, convertendo la specificità del desiderio in generico e malleabile sogno? 

 

(Milano, 26 aprile 2019)

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