Un libro di Clément e un film di Annaud / Nostra Signora delle Piante

15 Aprile 2022

Vegetalizzare il sacro

 

Quando Notre-Dame bruciò, quel 15 aprile 2019, piovvero dall’estero tanti soldi in una gara pubblica di solidarietà internazionale, una pioggia paragonabile solo all’acqua cosparsa dai pompieri sulla cattedrale per nove ore. Il film di Jean-Jacques Annaud Notre-Dame brucia (2022), distribuito ora nelle sale francesi, racconta bene quei momenti di tensione e coraggio, in una Parigi incredula e paralizzata dal traffico. Quella gara di beneficienza mirava a ripristinare il simbolo della cristianità francese e dell’arte gotica, restituendolo al suo stato precedente l’incendio, in modo che l’unica luce interna tornasse a essere quella filtrata dalle vetrate o quella elettrica. Che altre strade fossero percorribili?

 

Giugno 2019, Potager du Roi di Versailles. In occasione della prima Biennale d’architettura e del paesaggio d’Ile-de-France si tiene un incontro col giardiniere-paesaggista Gilles Clément. Incalzandolo sull’attualità, qualcuno dal pubblico gli chiede cosa pensa del cantiere di ricostruzione della cattedrale. La risposta è inattesa, ancor più nel cuore dell’ancien régime: “Dal momento che la luce è finalmente entrata in questo luogo, non resta che trasformarlo in un giardino”. Una serra gigante o meglio, per utilizzare una nozione cara all’autore, un giardino in movimento. Folgorato dall’intuizione, un editore gli chiede di lavorarci sopra; il risultato è un prezioso libricino, Notre-Dame-des-Plantes (Bayard 2021), dove la boutade si fa progetto creativo, tenendosi sul filo sottile tra dimensione poetica e fattibilità concreta. Un po’ come tutto Clément in fondo.

 

Se dal punto di vista culturale il crollo del tetto, della flèche e del transetto di Notre-Dame è un disastro ai danni di un monumento storico, dal punto di vista vegetale, adottato da Clément, uno spazio chiuso come una foresta immersa nell’oscurità si è trasformato, per una fatalità che ha lasciato penetrare la luce dall’alto, in una clairière (radura o prateria). Trasformazione, non distruzione. “Per me, la rovina non è altro che la distruzione di qualcosa che è precisamente considerata fissa, e che spesso riguarda degli elementi inerti, decisamente delle tracce. Abbandonare un prato o un luogo di coltivazione, al contrario, non porta alla rovina: questa diventa una foresta” (Gilles Clément, Sébastien Thiéry, “Partout, favoriser la vie”, in “Critique”, 860-861, 2019, pp. 56-69, cit. pp. 66-67).

Per Notre-Dame-des-Plantes Clément immagina d’intervenire in tre zone distinte: il sagrato, la navata centrale e il giardino esterno. Procediamo per ordine a partire dal “jardin d’approche” sul sagrato che, nonostante il nome (parvis) indichi il paradiso, è stato in passato trasformato in luogo di supplizio se pensiamo al rogo degli ugonotti.

 

 

Trasgredendo la natura esclusivamente minerale della città, primo compito del giardiniere sarà di creare un “labirinto decostruito” cui si accede senza cellulari, un giardino popolato da varie specie vegetali. Sarà composto da sette superfici coltivate e da sette libere dove i visitatori possono oziare; un numero scelto in quanto la sua radice, septem, è comune a tutte le lingue indo-europee. 

Questo frutteto con cespugli e alberi mostra il brassage planetario caro a Clément: “Un giardino è sempre un terreno d’incontro tra tutte le specie capaci di vivere al sole e nel clima locale, indipendentemente dalla loro origine geografica” (p. 31). Sette sono anche i tipi di meli i cui frutti, da cogliere e degustare a volontà, sono ribattezzati Bonus domestica e non malus, secondo una proiezione della teologia cristiana sulla botanica e, nello specifico, su uno dei frutti più benefici per la salute umana che nulla ha di peccaminoso. Decisive infine le crocifere, l’arabis, l’esperidio, la senape e la moneta del Papa o lunaria per la loro capacità di assorbire ed eliminare quelle 250 tonnellate di piombo fuso che è colato sul terreno durante l’incendio, e che sarebbe troppo costoso bonificare altrimenti.

 

Entriamo in Chiesa, la parte più originale del progetto. Qui Clément immagina una serra fatta di piante tropicali e sub-tropicali: fiori, frutti, verdure, arbusti, liane, piante erbacee rampicanti, palme, cespugli di varia conformazione e pergole. Sotto la serra si creerà un clima da Medio Oriente con guaiava, papaie, litchi, manghi, in omaggio al modello di Notre-Dame, che si trova a Qalb Lozeh (che vuol dire a forma di mandorla) in Siria, una chiesa paleocristiana ben nota a Maurice de Sully, vescovo di Parigi, nel XII secolo.

 

 

La vigna produrrà vino da messa (o da tavola se il raccolto è abbondante) a chilometro zero, con la sagrestia trasformata in distilleria. Nessuna importazione del sangue di Cristo! Non manca la passiflora o fiore della passione che non solo gareggia con l’architettura ma, con i suoi fiori a forma di croce, richiama la crocifissione. Originaria del Sud America, era utilizzata dai gesuiti per convertire gli Amerindi alla loro religione in quanto contenente al centro settantadue filamenti come le spine della Santa corona; trenta macchie rotonde che ornano l’interno del fiore come i denari ricevuti da Giuda; cinque stami rossi alla base come le piaghe di Cristo; tre punte del pistillo come i chiodi della Croce; foglie a punta acuta come la lancia che ha trafitto il costato di Gesù.

 

Il bacino rotondo dell’abside diventerà un giardino d’acqua ma anche un’enorme acquasantiera, in nome del potere purificatore di piante come la Victoria regia, una ninfeacea gigante a forma di ostia originaria dell’Amazzonia. Questo recinto (altra parola per paradiso) tra la serra, le piante tropicali e la fontana, sarà un piccolo Eden nel cuore della città, senza che la serra tropicale diventi, come accade di frequente, un luogo turistico: “Non bisogna torreiffellizzare l’edificio per attirare i turisti” (p. 13). Non mancheranno infine degli alveari sul tetto che produrranno miele, come già accade nella cattedrale di Saint-Denis (il cosiddetto “miel béton”).

 

Terzo e ultimo spazio, al di là dell’abside e lungo la Senna, accessibile da due scalinate da realizzare, è il Giardino libero o degli antipapi, cioè di quei vescovi auto-dichiaratisi papi prima di essere eletti. Una friche o un terreno lasciato all’abbandono in cui la caccia è abolita, pieno di erbe folli, con una diversità e un optimum di vegetazione generati nel e dal tempo. Qui si mescoleranno tutti gli strati vegetali lasciando spazio alle grandi graminacee e persino alla canapa. Un sacrilegio? Clément ci ricorda che la copertina della prima bibbia di Gutenberg era in fibra di cannabis.

Il Terzo paesaggio accoglierà quella diversità spesso scacciata dai giardini, come le spine del Poncirus trifoliata, tra gli arbusti più aggressivi che richiama la passione di Cristo e produce frutti non commestibili ma con cui si possono fare canditi, o su cui, a seconda della fede, pregare.

 

 

Far giardinaggio

 

“Equilibrio significa instabilità. Tutto può cambiare in qualsiasi momento [...] Questo equilibrio si presenta come un modello opposto al giardino curato con le sue siepi murali, ai suoli levigati dal vento dei soffiatori, ai prati falciati o plastificati, modelli superati e congelati in un’estetica basata sui rigidi principi dell’architettura dove lo spirito d’invenzione è poco gradito” (p. 80). Tutto è in movimento, tutto è movimento, al contrario di un’architettura di forme cristallizzate. Clément non è contrario alla conservazione in generale ma alla sua forma attuale che sarebbe, a suo dire, una forma di nevrosi pronta a mummificare i prodotti della nostra civiltà. “Casser les monuments classés”, “spezzare i monumenti protetti” afferma con un gioco di parole quando è intervistato su France Inter l’11 maggio 2021.

Dovremmo costruire allo stesso modo in cui si fa giardinaggio: “Devo dire che qui combatto contro i sostenitori della forma (e della funzione), che tendono a santificare le costruzioni, i monumenti storici, i monumenti protetti, in una visione estremamente fissista”. Siamo agli antipodi del giardino: “qui siamo con il vivente, e non possiamo impedire che cambi continuamente, persino nei giardini classici, anche se facciamo di tutto per attenerci al disegno. [...] se volessimo costruire come si fa giardinaggio, accetteremmo la trasformazione” (G. Clément e S. Thiéry, cit. pp. 64-65. Realizzata il 15 ottobre 2018, l’intervista precede l’incendio di Notre-Dame cui sembra far riferimento.

 

 

Ora, Notre-Dame non sarà sconsacrata, la sua funzione religiosa mantenuta. A cambiare è il contesto: i motivi vegetali non saranno più rappresentati nei fregi, nei capitelli delle colonne, nelle decorazioni architettoniche ma saranno presenti nella loro vera natura; i fiori non avranno più diritto di cittadinanza solo durante matrimoni e funerali sotto forma di corone e vasi infiocchettati ma spunteranno dal suolo lastricato, là dove ora ci sono solo materie inorganiche e lastre tombali.

A Notre-Dame-des-Plantes – santuario del vivente gestito da sacerdoti-giardinieri – la missione del sacro non sarà mantenere l’ordine stabilito e perpetrarlo attraverso i rituali, ma far proliferare la biodiversità vegetale senza ridurla al ramo d’ulivo pasquale. Un luogo dove pensare altrimenti il tempo e vivere il presente, perché piantare un seme apre al futuro biologico, “molto diverso dall’agenda satura dei tecnocrati e da quella, immutabile, dei religiosi” (p. 20).

 

Ad vitam aeternam

 

Che luce sia! Che luce sia? In verità no. 

La luce del giorno è stata soffocata, le porte verso l’esterno sprangate dietro l’imperativo di restituire la cattedrale di Notre-Dame al suo stato originale, in ottemperanza alla filosofia, tanto in voga da noi, del “dov’era com’era”. Che questa procedura ci appaia l’unica possibile mostra l’immobilismo delle nostre società, della nostra cultura, delle nostre menti. Non solo la distruzione di un monumento suona come un atto sacrilego e per certi versi impensabile, ma anche quando viene distrutto – che la causa sia un mozzicone di sigaretta o un corto-circuito, come nel caso di Notre-Dame – ci affrettiamo a restituirlo a un presupposto stato originale. Proteggere il patrimonio artistico, conservarlo sotto tutte le sue forme, anche quando implica una feticizzazione dei beni culturali.

 

In realtà ricostruire all’identico è segno della nostra mancanza a immaginare un mondo diverso da quello ereditato: “Facciamo con i monumenti quello che facciamo con le ‘crisi’: ricostituire il modello rassicurante il più rapidamente possibile. Soprattutto per evitare di immaginarne un altro. Non si tratta di evolvere ma di ripetere” (p. 12). Mantenere il nostro modello di crescita, a costo di distruggere altre forme di vita sul pianeta.

Poco importa che la cattedrale non abbia cessato di trasformarsi nel corso della storia, come ci ricorda Clément: qui ci sono ancora i resti del tempio di Giove e di Cernunnos, il dio cornuto generalmente associato a un cervo e a un serpente, che incarna la potenza mascolina e la fecondità ma anche il ciclo biologico della natura; e nel 1794 diventa un Tempio della Ragione. Per non evocare gli incendi precedenti, come quello del 857 per mano dei Normanni raccontato dall’annalista di Saint-Bertin.

Spesso ci lamentiamo di vivere una realtà che, pertanto, non sappiamo immaginare altrimenti. Perché in fondo vogliamo che non cambi nulla, che tutto resti così com’è, soprattutto quella porzione estesa della Terra di cui siamo gli artefici. E questo vale anche quando l’azione degli elementi ci facilita il compito: domato il fuoco, la priorità è far sì che quel 15 aprile 2019 non sia mai esistito.

 

 

 

Incapaci di immaginare altrimenti il nostro mondo o un altro mondo, ci teniamo quello che abbiamo costruito anche se non ci piace – così stanno le cose. E questo “così” indica uno stato di fatto immutabile, una realtà impalata, l’attestazione del nostro culo di pietra mentale. Che si tratti di un monumento, una tradizione, un modello sociale, un modello educativo, un modello economico o quello culturale della copia conforme, manchiamo di slanci prospettivi.

Se l’appello di Gilles Clément a reinventare le condizioni di vita è rimasto inascoltato, se nel dialogo che immagina tra una pianta e un Addetto agli affari sacri solo l’appello del secondo è stato preso in conto, non c’è dubbio che, in questo affare, il giardiniere-paesaggista può guardarci dritto negli occhi e dirci, come Philip Dick: “io sono vivo, voi siete morti”.

 

Il presidente francese ha promesso una riapertura della cattedrale nel 2024. Se il cantiere del restauro procederà a pieno ritmo, tra due anni potremo visitarla di nuovo, ammirando l’opera di restauro e il miracoloso ritorno all’identico. Sussurreremo all’orecchio del nostro vicino che sembra che non sia accaduto nulla, che nessun incendio sembra averla sfiorata, che la nostra Civiltà si è dimostrata capace, ancora una volta, di vincere l’azione del tempo. C’è da credere che la geo-ingegneria saprà fare lo stesso anche col cambiamento climatico, senza dover rivedere i nostri modelli di crescita. Ripareremo il mondo e non sarà mai troppo tardi per farlo.

Altro che Nostra Signora delle Piante! Presto ritroveremo la cattedrale che abbiamo sempre conosciuto, tale e quale, identica a se stessa, ora e per sempre nei secoli dei secoli.

 

Per tutte le immagini © Gilles Clément.

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