Vito Campanelli. InfoWar
Se c’è un risultato che i grandi antagonisti della rete hanno ottenuto in questi anni – da Aaron Swartz a Edward Snowden – è ricordare una verità che non era al centro del dibattito dall’alba della cybercultura: che il Web, di per sé, non è garanzia di trasparenza e democrazia, e che quella per la libertà è una battaglia che bisogna ancora combattere.
Di questo tema, un libro recente di Vito Campanelli (InfoWar. La battaglia per il controllo e la libertà della rete, EGEA, 2013, prefazione di Geert Lovink) offre una ricostruzione aggiornata, aperta alle sue mille contraddizioni e, più importante, capace di usare queste incongruenze per tagliare in diagonale la stanca contrapposizione tra tesi critiche e pensiero utopistico.
L’aspetto che più mi interessa discutere, tra quelli che Campanelli estrae dalla cronaca e dalla bibliografia recente, è la duplicità del problema: l’uso del Web per promuovere movimenti antagonisti, da un lato, e dall’altro la battaglia combattuta dentro – se non contro – la rete, contro i suoi meccanismi di accumulazione e contro i giganti che l’hanno colonizzata.
Gli ultimi anni hanno infatti prodotto evidenze contrarie, con la conquista del Web da parte dei grandi monopoli del sapere – che ha fatto collassare la quasi totalità del traffico e della ricchezza intorno a pochi nodi egemoni - e insieme una nuova stagione di partecipazione, che anche attraverso la fluidità dei social media ha riacceso la miccia della protesta nei diversi territori del mondo.
Nel libro di Campanelli, i due livelli del problema si intrecciano di continuo: più il Web svela la natura non democratica della sua legge di organizzazione - il cosiddetto “principio 80/20” - e più tra le maglie del sistema affiorano voci di dissidenza, pronte ad usare la forza della rete per incendiare il mondo così come lo conosciamo (come quella, qui comprensibilmente molto citata, di Aaron Swartz).
Difficile, non a caso, dire in sintesi quale sia il problema della libertà in rete: la difesa dei dati personali, ovviamente, ma anche lo sfruttamento economico del crowdsourcing; la censura statale così come, all’opposto, l’intervento attivo dei regimi autoritari per costruire consenso nella blogosfera; e ancora le arcaiche leggi sul diritto d’autore, sul fronte dei poteri pubblici, così come la frantumazione dell’esperienza in un arcipelago di walled gardens separati, sul fronte degli oligopoli privati.
In altri termini, il libro di Campanelli è utile a ricordare una cosa: che non esiste una sola sfida (anche se ognuno è più sensibile a determinati temi, e può scegliere quale arma imbracciare) ma un fronte di combattimento aperto e scomposto, che si modifica di continuo e pone incessantemente nuove domande di conoscenza. Ed è qui che torna ad agire la lezione di Geert Lovink, e la sua idea che non esista più, da tempo, una dominante culturale della rete – positiva o negativa che sia – ma che il Web sia un campo di spinte e controspinte, un fascio di contraddizioni vibranti che richiede l’osservazione di ogni specifico segmento della sua evoluzione, e non l’assunzione di un punto di vista assiomatico (di qui, anche, la comprensibile allergia di Lovink – e Campanelli – verso alcune disinvolte tesi critiche, quali quelle di Keen o dell’ultimo Morozov).
Evgenij Morozov
Questo continuo contrarsi ed espandersi, come a spirali, del fronte di conflitto è evidente nella ricostruzione di Campanelli, e perfino nello stile che la sostiene: ogni aspetto della questione ne riflette un altro, come in un infinito gioco di specchi; ogni avanzamento sul fronte democratico innesca la reazione dei grandi poteri; e comunque la si giri, il rimedio ad un problema strappa una ferita ulteriore nel corpo vivo della rete.
Il caso del diritto d’autore ne è una dimostrazione perfetta, con la continua oscillazione tra stretta giuridica e apertura di nuove vie di fuga; così come lo è la colonizzazione delle piattaforme social da parte dei governi (come in Russia o in Siria), che rispondono a tono all’emergere di un’opinione antagonista attraverso la rete, innescando però la ricerca di spazi alternativi, in una battaglia quasi disperata ma che non di meno – o magari proprio per questo, sembra sostenere Campanelli – vale la pena di essere combattuta. Per non rischiare il disorientamento a fronte di un panorama tanto instabile, allora, InfoWar può essere utile a riannodare i fili del discorso intorno ad alcune costanti – essenzialmente tre, dal mio punto di vista.
Il primo punto è, in breve, la necessità di un pensiero critico capace di superare la contrapposizione frontale tra potere pubblico e poteri privati. Almeno da Negri e Hardt, infatti, sappiamo che la sovranità contemporanea è un intreccio inestricabile di diverse forme di governo, con cui l’impero riveste il mondo scegliendo accuratamente il peggio dei vecchi regimi: l’estensione delle strategie di controllo poliziesco nelle cosiddette democrazie avanzate, e la diffusione dei brand di consumo nei sistemi bloccati (Orwell in Occidente e Huxley in Cina, nella bella sintesi di Campanelli).
La collaborazione sommersa tra NSA e piattaforme social, almeno per come è stata denunciata da Snowden, sembra fornire una conferma definitiva: prima separati dai tumulti della storia, i grandi poteri stringono ora alleanze segrete, valorizzando al massimo le nuove piattaforme per la realizzazione di vecchi obiettivi (come si legge in InfoWar, se non altro la sorveglianza della Stasi richiedeva seri investimenti economici, rispetto a quanto accade oggi….).
Il secondo punto è la natura di questa forma di potere, che è essenzialmente quella neo-liberista del “capitalismo comunicativo”, come lo definisce Jody Dean: un potere plastico e flessibile, capace di inglobare rapidamente l’altro da sé, trarre profitto dalla messa a regime del dissenso e rovesciare le esperienze antagoniste, attraverso il meccanismo a due vie della rete, in una spietata macchina di profitto.
Il caso di scuola è qui, ovviamente, quello del free software, che ha lanciato la sfida più destabilizzante ai giganti del Web, salvo essere poi assorbito (anche) nella loro catena di produzione. Allo stesso modo, la natura decentralizzata della rete ha aperto uno spazio per l’immissione di nuove idee, ma allo stesso tempo ha dato luogo ad una sorta di “crowdsourcing del controllo”, osserva Campanelli, in cui la censura e la sorveglianza sono esercitate direttamente dagli utenti, folle di persone che “segnalano contenuti inappropriati”, in una sorta di radicalizzazione del principio foucaultiano della diluizione del potere – che però tanto diluito non è, dato che le azioni diffuse rimandano infine ad un interesse superiore e non negoziabile.
Il terzo punto, infine, ci riporta alla questione iniziale, e ai due fuochi attorno ai quali ruota il problema: la battaglia per i diritti attraverso la rete (dal Cairo a Madrid, da New York a Istanbul), e la battaglia per la democrazia dentro la rete, e contro i suoi meccanismi di cattura delle energie sociali. La sensazione, a leggere il libro di Campanelli (e non solo) è che i due problemi facciano infine tutt’uno: solo la libera circolazione dei contenuti culturali, il superamento delle idee più naïf di democrazia digitale, l’investimento su piattaforme social decentralizzate e meno invasive, una diffusa presa di coscienza delle possibilità della rete così come dei suoi limiti - solo tutto questo può consentire la stabilizzazione dei movimenti che usano il Web per costruire un progetto alternativo, e attaccare i poteri forti del sistema.
Fino a quel momento, dietro l’angolo resterà sempre il rischio di una soluzione come quella di Grillo, un po’ pasticcio post-moderno e un po’ restaurazione dell’autorità carismatica: a ricordare che il naufragio è un destino sicuro, se si considera la democrazia on line come una condizione di fatto, e non come la posta in gioco di una battaglia infinita.