Il demone dello sguardo, del corpo, della fiaba e dell’orrore / The Neon Demon

17 Giugno 2016

The Neon Demon non è un film sulla moda più di quanto Suspiria sia un film sulla danza, o La bella addormentata nel bosco e Cenerentola, nella versione dei Grimm, libri sulle usanze della nobiltà europea dei primi del ’800. È un film sullo sguardo e sul corpo, sulla dimensione horror intrinseca alla fiaba e su quella fiabesca naturale all’horror. O forse, più semplicemente, un film che, si serve di tutti questi elementi per far evolvere l’idea (coerente) di cinema di Nicolas Winding Refn. 

 

1. Dello sguardo e del corpo

 

Lo statuto dello sguardo cambia radicalmente tra le due macro-partizioni del film.

Nella prima parte, Jesse è sempre guardata frontalmente: dai personaggi in scena, dalla macchina da presa e quindi dallo spettatore. È Dean, l’innamorato che la ritrae in foto nella sequenza, statica, che apre il film, a generare l’immagine frontale di Jesse: in questa immagine la congela, uccidendola, in una posa di morte che anticipa quella finale, ma che le si contrappone proprio per l’equilibrio dell’inquadratura, della disposizione delle membra, del trucco, laddove l’ultima è scomposta come risultato del caos, diegetico, della caduta nella piscina. Eppure mirabilmente ricomposta, nel suo instabile equilibrio, dall’occhio del regista, che la guarda dall’alto, senza perfetta perpendicolarità.

Dean la osserva di fronte, seduto sul cofano dell’auto, mentre balla e si esibisce sul bordo della collina, ancora anticipando, nella frontalità assoluta del “palco”, la camminata sul trampolino della piscina a cui Jesse consegnerà il proprio testamento esistenziale.

 

La scruta, la esamina, la spoglia, sempre frontalmente, il fotografo Jack, che ne disegna (sul corpo) la fortuna, e quindi lo stilista che la seleziona al casting e la consacra alla notorietà.

Tutti la guardano bidimensionalmente, senza scarto e senza possibilità di intuirne la profondità: tutti sottolineano che Jesse emana una luce, e nessuno si interessa al (o mette in dubbio il) fatto che possieda anche una profondità, e quindi un buio interiore.

Lei stessa si guarda sempre frontalmente, allo specchio: da subito, quando si toglie il trucco mortale della fotografia, ma possiamo immaginare quante volte l’abbia fatto prima, per scrutarsi, per sentirsi almeno carina, dopo aver capito che non c’è nient’altro dentro di lei, né capacità, né profondità (non sa cantare, non sa ballare, non sa fare nulla), al di fuori di un buco nero, di un’assenza (forse la morte?) dei genitori. Sulla quale (fortunatamente: a Refn non interessano per nulla le spiegazioni, le motivazioni, i nessi di causa/effetto, i perché) non viene mai fatta luce.

 

La prima a rompere questo incantesimo, a incrinare lo specchio, costringendo la nostra Alice ad attraversarlo, è la diabolica truccatrice Ruby, che la osserva in una doppia rifrazione, e quindi di sguincio.

Le uniche che, fin dall’inizio, non la guardano frontalmente, sono proprio le tre sorellastre, le tre streghe: Ruby, e le due amiche, amanti, modelle, Gigi e Sarah. Quest’ultima interpretata da Abbey Lee, che in Mad Max: Fury Road prestava il corpo a una delle mogli vergini di Immortan Joe, curiosamente chiamata The Dag, un insulto affettuoso dello slang australiano per indicare un individuo simpaticamente fuori moda, inconsapevole del suo aspetto estetico, senza abilità sociali, ma comunque divertente e affabile…

Nel primo confronto a quattro nel bagno del locale, lo sguardo si muove su Jesse da tre punti di vista differenti (cui si aggiunge quello della rifrazione nello specchio): le sorellastre la guardano, la scrutano, la “mangiano” letteralmente, con gli occhi, sempre agendo uno scarto. Una scena preparatoria alla straordinaria invenzione linguistica che NWR predispone subito dopo: durante la performance artistico/musicale/bondage che fa piombare la sala nell’oscurità, i lampi improvvisi e ritmici di luce accendono il volto delle ragazze che bramano con gli occhi, lateralmente, il volto di Jesse, per penetrarne la natura e svelarne la finta ingenuità.

 

Mentre lo stilista la osserva estasiato durante il casting, Sarah la scruta di lato: al suo sguardo obliquo seguirà il primo scempio compiuto sul corpo di Jesse, che si ferisce sulla scheggia dello specchio frantumato dalla modella, rabbiosa per non riuscire a riconoscersi così, congelata e preservata dall’immagine frontale.

Questa consequenzialità tra la stortura dello sguardo e la violenza sul corpo esploderà nelle sequenze dell’accerchiamento e dell’inseguimento all’interno della casa stregata, e porterà a compimento perfetto ciò che era già stato anticipato nel bagno, ma il turning point trasformativo è rappresentato dalla performance di Jesse alla prima sfilata: non a caso la scena che introduce il simbolo del triangolo rovesciato e modulare che rappresenta il logo del film. La rifrazione del volto negli specchi esplicita il suo raddoppiamento, la sua doppiezza, in un complesso montaggio di immagini oniriche ed extra-ordinarie che mostrano in successione il nuovo volto in cui la vecchia Jesse si trasfigura (nella rifrazione e nella metamorfosi) e le reazioni dolorose dei lineamenti di quella che sembra essere soltanto la traccia, il riflesso, della fanciulla venuta dalla Georgia.

 

 

 

Jesse diventa, letteralmente, un’altra, e da quel momento in poi le riprese frontali scompaiono, e Jesse viene sempre guardata di scarto: nella scena al club dopo la sfilata, anche Dean (il suo generatore visivo) la indaga di lato e, riconoscendone la deviazione, la differenza, la abbandona.

Jesse diventa un’altra, diventa cattiva: da Cenerentola, Biancaneve, Alice, a strega,

sicura di sé, e di poter conquistare il suo lieto fine, ma in realtà destinata alla dissoluzione, e allo smembramento.

La contrapposizione tra ripresa frontale “benefica” e ripresa obliqua “malefica” potrebbe essere la più interessante chiave interpretativa del film: se la seconda, mortale, fa emergere la sua vera, e perversa, natura, la ripresa frontale è quella che la protegge e che, congelandola, la preserva da se stessa (prima di tutto) e dalle altre.

L’immagine frontale e bidimensionale, l’immagine fotografica, l’immagine statica, che è anche l’immagine della contemplazione, l’immagine d’amore, l’immagine idealizzata dell’amore platonico e non consumato (nessuno, né Dean, né Jack, né lo stilista, e neppure Ruby, la possiedono mai, lasciandola vergine fino alla fine) è l’immagine della protezione e della conservazione del corpo

 

È davvero curioso contestare a NWR di fare un cinema bidimensionale e contemplativo, visto che The Neon Demon è lì a dimostrare l’esatto contrario, cioè che mentre l’immagine idealizzata e bidimensionale è pura illusione che consente la salvezza, il compito del cinema è proprio quello di uscire da quell’immagine, prendere uno scarto, trasformarsi, guardare lateralmente da un altro punto di vista e scatenare l’orrore.

E così tutto si risolve perfettamente nell'ultimo set fotografico, quando lo sguardo torna ad essere bidimensionale, salvifico e risolutore nei confronti di Sarah che, avendo “assunto” il corpo e l’identità di Jesse, può presentarsi nuovamente come vergine, congelata e immobile sotto il sole, di fronte all’occhio statico di Jack. Ma è sufficiente che irrompa su Gigi l’occhio del regista, il cambiamento di punto di vista, il dettaglio, lo scarto rispetto all’asse perpendicolare (la macchina da presa che riprende il suo ruolo sottraendolo a quella fotografica), perché il senso di colpa esploda all’interno del corpo, e ne esca nella forma dell’occhio.

 

Il bisogno essenziale di NWR è quello di dimostrare come dalla bellezza possa nascere l’orrore. Che in fondo significa soltanto dimostrare come la bidimensionalità di una fotografia nasconda la profondità di un corpo.

Un corpo ridotto a pura carne nella risoluzione finale, mangiato ed espulso, ma fin da subito deviato e devastato, pervertito. Se Gigi è una “donna bionica”, il risultato di infinite operazioni, tagli, mutazioni, ricomposizioni, fino a perdere qualsiasi traccia originale di naturalità, anche Sarah, nella sua languida sproporzione da modella, è sottoposta a una ripresa ossessivamente ravvicinata, che ne corrompe la bellezza, mostrandone il disequilibrio, l’eccedenza dei bulbi oculari, degli zigomi, del mento. Ruby poi esemplifica la dimensione non naturale del corpo: prima ostentatamente coperto, poi mostrato come tela di scrittura (i tatuaggi, che ne disegnano la geografia anatomica, “segnando” i capezzoli e gli arti), oltre che come tramite di contatto con la morte nella scena di necrofilia all’obitorio.

 

La devastazione del corpo è la cifra di massima continuità all’interno del cinema di NWR: da quelli picchiati di Pusher e Bronson (in questo caso anche, esplicitamente, doppi) a quelli maciullati in combattimento di Valhalla Rising, votati al sacrificio rituale, così come in Drive e, secondo una progressione costante, in Only God Forgive.

Tra il desiderio di rientrare nella madre affondandone le mani nel ventre di Ryan Gosling dentro Kristin Scott Thomas e quello di ritrovare dentro di sé la sedicenne che si è stata, ingoiandola, si descrive una linea continua: quella della prossimità dei corpi come condivisione e appropriazione letterale. Ovvero l’unica esperienza fisica che non può essere praticata nella realtà: a NWR interessa riprendere e mostrare soltanto ciò che non può essere vissuto e sperimentato nella realtà (e questa, più di qualsiasi speculazione sul suo compiacimento estetico, è un’idea forte di cinema). Non la semplice violenza, ma quella che mette in crisi il concetto di mortalità e immortalità, non soltanto il sesso, ma quello che (ancora più del tabù dell’incesto, in Only God Forgive, e della pedofilia, in The Neon Demon) non può essere praticato: la necrofilia e l’orgia cannibalica.

Pratiche, entrambe, che costituiscono da sempre l’armamentario più classico di ogni fiaba che si rispetti. 

 

2. Della fiaba e dell’orrore

 

Perché di una fiaba stiamo parlando.

Il mondo della moda, i meccanismi, i personaggi, le dinamiche che ne caratterizzano la riconoscibilità mediale funzionano solo come arredi narrativi, come scatola contenente, senza nessun reale interesse di approfondimento, e quindi di speculazione para-sociologica. Lo dimostra l’assenza totale di qualsiasi messa in scena dei necessari addentellati realistici: non si vede mai il volto di Jesse (o delle altre modelle) su una copertina, né una sfilata con giornalisti e addetti ai lavori intorno alla passerella. Non si vede nulla della moda, semplicemente perché la moda non c’è. E in questo, complice la comune ambientazione californiana, The Neon Demon assomiglia molto al Maps to the Stars di David Cronenberg, che usava il mondo hollywoodiano come fondale per ambientare storie di fantasmi, streghe e mostri.

Qui la “professione” dei personaggi ha una semplice funzionalità di ambientamento contemporaneo dei tipi della fiaba.

 

Jesse è la giovane eroina ingenua che deve portare a compimento il proprio mandato, e anche il suo stato di (vero?) orphanhood è una condizione necessaria per l’innesco fiabesco, e in nessun modo una motivazione antropologica a sostegno della propria vuota aspirazione per il mondo del glamour (tanto quanto la “fuga da casa” della quattordicenne-Lolita della stanza accanto al motel dovrebbe giustificare o motivare una vita destinata allo stupro e alla perdizione). Non è un contratto capestro di sfruttamento delle illusioni minorili quello che firma con l’agente Jan, ma un semplice contratto con il diavolo, siglato con una demonessa rossa, procace, voluttuosa, sontuosa e (come sempre, trattandosi di Christina Hendricks) ai confini con l’extra-naturale.

Il catalogo è questo.

 

Fin troppo semplice vederla come una Cenerentola moderna, ma capace di abbandonare il Principe Azzurro dopo averlo sfruttato, ed essere approdata alla corte del Re-Stilista. D’altronde, nel primo dei vari sequel che la Disney ha approntato per il mercato dell’home video, Cenerentola rimane, effettivamente, da sola a corte, a causa di una partenza del Principe per ragioni diplomatiche: la nostra Jesse avrebbe sicuramente provato a impalmarsi il suocero regnante…

Come la Dorothy de Il mago di Oz viene dalla grande provincia rurale (la Georgia al posto dell’Arkansas), letteralmente finisce su una strega (Sarah), rubandole le scarpe (da sfilata), e si circonda di corpi che mancano di organi fondamentali (il cuore, il cervello, il fegato…), ma finisce per essere sopraffatta dalle altre streghe, che ha provato a sconfiggere. Come Alice attraversa varchi dimensionali e specchi: la spessa cortina che la fa entrare nello spazio della performance (letteralmente trascinata da Ruby), la porta della sua stanza al motel, quella del grande set per lo shooting fotografico, del bagno in cui Sarah ha frantumato lo specchio e della casa stregata finale, che varca sospesa in un ralenti onirico.

 

 

 

Una casa in cui entra come Gretel, affascinata da vestiti, arredi, ricchezza, che agiscono su di lei come il marzapane per una pre-adolescente. E in cui finisce mangiata. Come Biancaneve incontra un rude cacciatore (il proprietario del Motel interpretato da Keanu Reeves), che si palesa inizialmente per catturare la belva felina nascosta nella camera, ma che immediatamente si palesa nella sua vera natura di lupo cattivo, affamato e stupratore. Molto più pericoloso dell’arcigno fotografo Jack, che al contrario si rivela come Mago, trasfiguratore, alchimista, plasmatore (in oro), capace di nascondere la semplicità di Jesse agli occhi degli umani e di avvolgerla in un’aura soprannaturale. Con la macchina fotografica come bacchetta, un amuleto al collo, e l’innata capacità di far comparire la luce dal buio.

 

Anche il coguaro nella stanza (di gran lunga il più affascinante degli animali cinematografici degli ultimi anni, subito dopo il coyote di Collateral di Michael Mann e la volpe di Antichrist di Lars Von Trier) lascia pensare ad una metamorfosi. Chi si è introdotto nella sua stanza per sbranarla? Forse Ruby, che si palesa come Fata Smemorina in grado di condurre su un cocchio fatato (attraverso il “trucco”) la sua prediletta, ma poi si dimostra strega, e traccia sortilegi sullo specchio prima di invitare le altre baccanti al sabba finale. Altre streghe, sorellastre ferali.

Con rigore essenziale Refn si libera di qualsiasi critica di semplificazione della realtà, mostrando con una (esorbitante) stratificazione di giochi e ammiccamenti quanto gli interessi soltanto riprodurre la struttura narratologica e drammaturgica della fiaba. 

Cui espunge la possibilità di una sanzione finale positiva per la sua eroina, che per-verte al lato negativo e poi lascia in balia degli antagonisti, senza possibilità di scampo, né etico, né di sopravvivenza.

Perché vuole recuperare la dimensione intrinsecamente orrorifica (e pessimista) del modello originale di Perrault, Andersen, Carroll, dei Grimm, fino a Baum, privato dell’anestetico infantile che la vulgata ci ha consegnato a partire dal ‘900.

 

Il debito rispetto al cinema horror, e in particolare a quello italiano degli anni ’70, è esplicito: la mater di The Neon Demon è senza dubbio quella Suspiriorum di Dario Argento. Le prossimità con Suspiria sono talmente evidenti da far provare una fitta di dolore al pensiero che del remake ufficiale se ne occuperà Guadagnino…(a NWR rimarrà però la produzione del remake Cosa avete fatto a Solange? che di Suspira è in qualche modo un precursore). L’accademia di danza come il consesso di modelle, le amicizie venate di morbosità, la magia, e il grande mistero di Helena Markos che, come Ruby, custodisce il segreto di una casa (“sono una specie di guardiana” ammette la finta truccatrice) e nasconde i cadaveri delle giovani e belle riottose a subire la sua dominazione soprannaturale.

 

Di Argento RWN saccheggia prima di tutto le saturazioni cromatiche, i rossi scarlatti, i blu profondi, i verdi, i gialli (per i quali, non a caso, il nostro Dario ammise di essersi ispirato al Biancaneve e i sette nani della Disney), e in generale l’idea che il colore possa diventare una funzione narrativa anche più forte della recitazione. Solo parzialmente (nella seconda parte) la fotografia, una visione anamorfica dei corpi e dei volti ripresi a distanza ravvicinata (alcune delle deformazioni per incandescente prossimità di Sarah hanno un fascino malato e morboso di cui Argento potrebbe andare fiero). Naturalmente la musica, con l’immancabile Cliff Martinez “nel ruolo che fu” degli immancabili Goblin. E anche quel gioco (subito svelato) sull’immagine che non è (quello che sembra): marchio di fabbrica della prima produzione di Argento (da L’uccello dalle piume di cristallo fino a Profondo Rosso), qui celebrato nella fotografia di morte che rivela la propria finzione.

 

Sull’immaginario argentiano applica però (per derivazione, e non semplice emulazione) un’estetica (d’arte) contemporanea: il totale del casting con le modelle sedute in completo intimo bianco sembra una citazione letterale dei nudi di gruppo di Vanessa Beecroft, e la costruzione degli ambienti attraverso la disposizione dei neon rimanda a quella idea di “arte neonizzata” di cui parla David Rosenberg, da Dan Flavin a Kosuth, da Bruce Nauman a Merz fino a Maurizio Cattelan.

Ma il neon è anche quello del cinema di fantascienza “povero” degli anni ’60 (a partire dal Terrore nello spazio di Mario Bava, di cui Refn è cultore fanatico, e quindi padrino del restauro presentato a Torino e a Cannes), che impiega la luminosità innaturale e pre-digitale del dispositivo per creare ambienti extra-ordinari, generando il fantastico dal più comune (e triviale) degli arredi domestici e industriali.

Il pantheon di genere a cui RFN si ispira è considerevole, e consente anche “ritrovamenti interni” gustosi, come l’omaggio a Miriam si sveglia a mezzanotte, con il locale buio squarciato dai lampi di luce che rimanda al night club in cui Bowie e la Deneuve vanno alla ricerca di vittime, e naturalmente a Il bacio della pantera.

 

Lasciti ed eredità che caratterizzano da sempre il suo cinema, e che consentono, in ultima analisi di collocare The Neon Demon in perfetta coerenza con i film precedenti, quasi una chiusura parentetica, un doppio femminile, rispetto a Valhalla Rising (sulla comune struttura narrativa, alla ricerca di un luogo, di una terra promessa nel quale essere costretti al sacrificio, si è già detto abbastanza). E che dovrebbe fugare qualsiasi malinteso rispetto all’ipotesi di una presunta deriva estetologica, autocompiaciuta e anti-narrativa rispetto a Drive che, è bene dirlo ancora una volta (questo sì, non si ribadisce mai abbastanza) è stato quasi un unicum nel percorso di NWR. Di certo il suo film più semplice e immediato, aperto alla fruizione di massa, per certi versi anche più piacevole (non diciamo risolto), perché in grado di intercettare compiutamente il genere (azione e melodramma). E forse anche di venirne, positivamente, imbrigliato, e di subirne le regole e i limiti benefici.

 

Per questa ragione aspettiamo con curiosità ancora maggiore l’avventura televisiva di NWR, che lo vedrà nel ruolo di showrunner per una serie (di produzione franco-italiana) dal titolo Les Italiens, ispirata al ciclo di romanzi di Enrico Pandiani. Che, sia detto per inciso, è uno degli scrittori italiani di genere (noir) meno conosciuti ma più talentuosi. Aspettiamo di vedere cosa accadrà dall’incontro tra un regista danese che ama il cinema di genere italiano e che è stato adottato dalla Francia, e un superbo scrittore di genere italiano che ama a tal punto Parigi, da averci ambientato le storie del suo manipolo di italiens

 

Un suggerimento a NWR: se dovrà avere a che fare con il commissario Mordenti, meglio trovare il modo di girare delle scene di sesso come demon comanda…

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