Il rovescio e il diritto / Albert Camus, "Perché sono un artista e non un filosofo?"

8 Gennaio 2019

Dove termina Dostoevskij comincia Camus, ma fino a noi sono giunti insieme con la stessa aria di attualità. Ci parlano ancora dell’uomo e del mondo, nell’evidenza che non sono cambiati né l’uno né l’altro. Coscienza esistenzialistica entrambi, ma fideistica una e perplessa l’altra, continuano ad additarci il germe della nostra impotenza a misurarci con gli altri e dell’incapacità di vincerla, in una parola “il senso dell’assurdo”, nella vocazione incoercibile a renderci estranei a noi stessi. Mutuando Heidegger, Camus fa di più nel rappresentarci il dramma dell’uomo posto non davanti al mondo per affrontarlo ma gettato in esso per subirlo: lo grava del peso della solitudine e del silenzio, dell’indifferenza sociale, della prometeica angoscia di non potercela fare, al punto da vedere nel suicidio, come Emil Cioran, la sola possibilità data all’uomo di uscire dalla vita e dunque di sopportarla. 

 

Schiavo di una malattia progressiva e di un tempo funestato di orrori (la prima metà del secolo scorso), l’autore comunista che si fa anarchico non può non maturare un sentimento tragico della vita che ad un certo punto si manifesta in un risentimento antigermanico e contro Hitler tale da concepire del mondo un pensiero notturno, al quale arriva poi ad opporre il pensiero mediterraneo che gli viene dalla bellezza solare della natura, antidoto alla bruttezza della storia che ha in odio, ma tuttavia non riuscendo a evitare la sindrome che determina in lui un’impasse

Nell’introduzione aggiunta dopo vent’anni a uno dei suoi primissimi libri, Il rovescio e il diritto (divenuto ora Il diritto e il rovescio nell’edizione Bompiani) ricorre infatti una dichiarazione di intenti, o meglio di resa, che tuttavia sottende una speranza – la speranza per Camus essendo, insieme con la solidarietà, una via d’uscita dall’assurdità della vita – ma anche un enigma, che si potrebbe definire di tipo esistenziale: “Il giorno in cui riuscirà a stabilirsi un equilibrio tra quello che sono e quello che dico forse quel giorno, e oso a malapena scriverlo, potrò costruire l’opera che sogno”.


L’insoddisfazione, altro germe della condizione umana, è imputata da Camus non alla capacità di riuscire personalmente a stabilire l’equilibrio vagheggiato ma a un impersonale e impalpabile evento (riuscirà a stabilirsi) affidato probabilmente al destino e che comunque dovrà determinarsi da sé. Camus è tutto in questa minorità nel cui fondo con lo strazio originario dell’assurdo fermenta anche lo spirito finale della rivolta. Una minorità che implica pure una contraddizione, fondamento all’antitesi espressa nel disequilibrio tra un modo di essere e un altro di dire, giacché su un altro piano quando Camus mostra all’uomo il baratro nel quale è destinato a precipitare gli tira poi la corda perché si salvi: da Il diritto e il rovescio, dove l’assurdo fa le prime prove di prammatica, al L’uomo in rivolta, che schiude alla ribellione la strada per uscire dall’assurdità, nell’arco dunque di quindici anni – ma in mezzo intanto ci sono stati Lo straniero e Il mito di Sisifo a sancire lo stigma dell’ineluttabilità dell’assurdo – il rivolgimento di prospettiva assume il senso di un ribaltamento di pensiero. 

 

Opera di Edward Hopper.


Non è però un deficit il ripensamento di Camus, perché è propria dell’esistenzialismo tale natura poliedrica e palindromica che, involgendo il mistero dell’uomo, intride anche la sua teoretica. Si prenda Sartre, col quale Camus ingaggiò, sotto gli occhi del mondo, un’accanita polemica almeno su due fronti: la giustificazione da dare ai crimini di Stalin così da separare l’ideologia comunista dalla prassi, come voleva Sartre, e il rapporto tra l’uomo e il mondo, se il primo sia causa del secondo o viceversa, come sosteneva Camus. Anche Sartre, ben più vicino a Camus di quanto le loro divergenze facciano intendere, trova di doversi contraddire e non sapere come dare equilibro tra ciò che dice e ciò che è. Il suo Roquentin di La nausea non è forse il doppio del Meursault di Lo Straniero (libri pressoché coevi), entrambi inermi di fronte all’assurdità del reale e alla fine perdenti e indifferenti compagni di strada? Sennonché quasi trent’anni dopo, con la Critica della ragione dialettica, Sartre fa come ha fatto Camus nove anni prima con L’uomo in rivolta: dota l’umanità di un mezzo di salvataggio, una vera dottrina della salvezza, che per lui è l’azione, anodino, dopotutto non diverso dalla rivolta pur metafisica che Camus ha propugnato: rivolta metafisica perché fondata sulla “misura” che, come osserva Corrado Rosso nella prefazione all’Uomo in rivolta Bompiani è “l’espressione di una legge, propria di quel pensiero mediterraneo, antigermanico, antistorico, che viene qui detto poeticamente la pensée de midi” ed è la legge che fonda la rivolta. 

 

Ma c’è una differenza sostanziale sulla quale in realtà si misurano la natura di Camus e quella di Sartre: lo sguardo di Sartre sul mondo è speculativo, quello di Camus letterario. Dicono la stessa cosa ma finiscono per litigare e dirla in maniera diversa perché adottano metodi diversi e appartengono a categorie diverse: uno è un filosofo che si concede di esprimersi anche attraverso il romanzo e il teatro, l’altro è un autore – anzi un artista come si definisce egli stesso – che indulge a concepire anche teoremi filosofici, benché una crescente tendenza lavori oggi a conferire a Camus (e i suoi racconti di Il diritto e il rovescio non a caso sono presentati come saggi) una veste primaria di pensatore. 

 

Ma è un fatto che è il mondo teorizzato da Camus ad apparire nelle forme utopistiche del mito e non quello parallelo e materialistico di Sartre, se accettiamo che è stato Vittorini a intestarsi l’eredità lasciata da Camus, insieme con il gravame del “dolore del mondo offeso”, per investirla nella sfera politica dell’urgenza sociale anziché nel sistema astratto delle idee universali. Del resto lo stesso Camus non ha avuto dubbi nel definirsi un autore quando nei Taccuni scrive: “Perché sono un artista e non un filosofo? È che io penso in base alle parole e non alle idee”. E pensare, cioè filosofare, per Camus ha un significato preciso: “Si può pensare solo per immagini, se vuoi fare il filosofo scrivi romanzi”: per dire – e magari fare sapere a Sartre – che creare immagini, cioè scene e dunque fare narrazione, equivale a pensare, per modo che filosofo è chi scrive romanzi mentre evidentemente non è romanziere chi pensa e dunque non sa immaginare. 

 

Tale atteggiamento, che alle idee antepone le immagini, non si può definire certamente esistenzialista, visione alla quale appartiene un certo tipo di engagement che è senz’altro di Sartre e lo è anche di Camus solo nei limiti di un nuovo disequilibrio tra il dire e l’essere, sentendosi lo scrittore algerino un artista che purtuttavia teorizza sistemi filosofici. Questo ulteriore punto di contraddizione che lascia Camus senza una collocazione e privo di una definizione porta a vederlo in un manuale di filosofia come una nota a piè pagina di Sartre e in una storia della letteratura come un autore moralista e controcorrente, degno di apprezzamento per la perfezione e l’eleganza del suo impareggiabile stile. Rimane tra parentesi il grande magistero prestato, al pari di Dostoevskij, allo scavo nei recessi inesplorati dell’animo umano per mezzo di un’invenzione letteraria fonte di una raggelata eppure soterica cosmogonia dell’uomo in vincoli.

Se così stanno le cose occorre allora attribuire a Camus una qualifica che corrisponda in letteratura a quella di esistenzialista che detiene in filosofia. Un suggerimento, poco ascoltato in verità, è venuto da Norberto Bobbio che in La filosofia del decadentismo ha avviato un processo di rimodulazione dell’esistenzialismo rivolgendolo nel quadro di una epigonale sensibilità post-romantica che appunto nel decadentismo, inteso non come cascame estenuato ma come introspezione e ipertrofia dell’io, può trovare una sua dimora dove Camus possa stabilire la sua residenza. E a ben vedere, l’uomo assurdo camusiano non è il confrère dell’uomo inetto di Proust e di Svevo, l’Oblomov indifferente e incapace di darsi aiuto? 

 

I temi della malattia, della morte, della coscienza franta, dell’inutilità sisifica di ogni sforzo, i temi che orbitano attorno al nucleo psicologico e decadono nella realtà esterna solo per radiazione, non sono gli stessi che gelano il cuore ai decadentisti così come lo infiammano agli esistenzialisti che però, al contrario, osservano l’io da fuori e vedono dei rovelli in quelli che sono vissuti come fardelli? Camus fu un narratore che studiò se stesso per capire il mondo e quando certificò il divorzio tra l’uomo e la vita (“tra l’attore e la scena” scrisse) fu del proprio divorzio che diede testimonianza. Basterebbe questo per leggerlo come un testimone del nostro tempo anziché un suo interprete.

 

Nota di lettura

 

La Bompiani sta fortemente contribuendo a tenerlo comunque presente e nell’apposita collana dedicata ai suoi libri sta mandando in libreria anche le edizioni tascabili: dopo L’uomo in rivolta (tradotto da Liliana Magrini, € 13), Il mito di Sisifo (trad. Attilio Borelli, € 10) e La peste (trad. Yasmina Mélaouah, € 13) del 2017, nonché Lo straniero (trad. Sergio Claudio Perroni, € 10) uscito nel 2015, ora anche in ebook come tutti gli altri, è in arrivo quest’anno La caduta (trad. Mélaouah, € 10) che si aggiunge ai ben nove titoli usciti nel solo 2018: Taccuini (trad. Ettore Capriolo, € 16), Caligola (trad. Mélaouah, € 10), Il diritto e il rovescio (trad. Mélaouah, € 9), L’esilio e il regno (trad. Mélaouah, € 10), La morte felice (trad. Giovanni Bagliolo, € 10), Questa lotta vi riguarda (Sergio Arecco, € 16), Riflessioni sulla pena di morte (trad. Giulio Coppi, € 9), Tutto il teatro (trad. Vito Pandolfi, Camilla Diez, François Ousset, Cesare Vico Lodovici, € 16) e per Elèuthera Mi rivolto dunque siamo (trad. Guido Lagomarsino, € 14). Un’opera meritoria che con l’edizione economica rende ancora più fruibile un autore al quale basta lo stile impeccabile per farne un écrivain de chevet.

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