Di chi mi devo fidare? / Lino Aldani, 37 gradi di temperatura corporea
Con il rispetto per i morti e per le forze impegnate contro il virus che in questi mesi ha cambiato la nostra vita, questa epoca avrà tra i suoi simboli il termometro.
In passato il nemico era riconoscibile come avversario, questo invece è impalpabile, inafferrabile, etereo, misterioso, non ideologico, immerso nella natura. Di qui il ricorso a chi ne sa di più, all’esperto, alle sue conoscenze e ai suoi ferri del mestiere, e a strategie di ogni genere, inclusi semplici mezzi della tradizione per rilevare il primo segno di pericolo attraverso la febbre, come appunto i termometri.
Cambiano le fogge ma è sempre lui, il termometro a misurare la temperatura e controllare la salute del corpo. È una situazione curiosa in cui l’antico viene in aiuto del moderno, soprattutto in un periodo in cui il dato sanitario programma la vita collettiva. Una situazione che la fantascienza aveva contemplato già in passato, in particolae ad opera di uno scrittore italiano tra i maggiori, Lino Aldani.
Nato nei pressi di Pavia, Aldani si trasferisce presto a Roma dove si impegna in diversi mestieri (operaio, barista, bancario, professore di filosofia) prima di insegnare matematica nella scuola media. Torna poi nel suo paese e inizia a pubblicare racconti apparsi per lo più sulla rivista di astronautica Oltre il cielo con lo pseudonimo di N. L. Janda, e fonda la rivista Futuro nel 1963. Dopo qualche anno di relativo silenzio, torna a metà degli anni Settanta a pubblicare, a dirigere la rivista Futuro Europa e diventa presidente della World SF Italia.
La sua epoca si colloca nei decenni immediatamente successivi agli anni ’60 ed è quella in cui si accetta il futuro, il ‘tempo nuovo’ plasmato dalla tecnica e dalla scienza, si punta alla ricostruzione e al cambiamento politico. Si attende il secolo a venire con le variazioni antropologiche che comporterà, cercando di anticiparle. L’aspirazione è prevedere e dominare il futuro.
Accanto a riviste come “La civiltà delle macchine” promossa dall’Eni, al “Politecnico” dell’Einaudi, si afferma il una nuova generazione di autori che non disegna di ricorrere alla fantascienza con alcuni dei suoi più autorevoli esponenti, da Calvino con Le cosmicomiche del 1965 e Ti con zero del 1967, a Primo Levi con Storie naturali del 1966, da Landolfi scientifico (Un pioniere di chiocciole del 1954, La pietra lunare del 1968, Racconti impossibili, 1966) a Flaiano con Un marziano a Roma del 1957, Una e una notte del 1959, Melampus, 1970, a Buzzati con I sessanta racconti del 1958, a Berto con La fantarca del 1965, a Fruttero Lucentini con i racconti di fantascienza e la direzione di Urania assunta nel 1961.
In quel clima s’inserisce la fantascienza di Lino Aldani a sfondo umanistico, scarsamente scientista. Essa pone al centro l’uomo come tale e nel rapporto con il mondo circostante, in lotta anche con le strutture della società che lo soffocano, lo squilibrano, lo scentrano. In questa situazione si trova alienato, fratturato psichicamente, incapace di reagire, si sente solo, abbandonato, tenta di ribellarsi, cerca la fuga. Essa sarà illusoria, risulterà uno sconfitto, un ribelle solitario ‘che sbatte la porta’ per dirla alla Camus.
Questa è la cornice in cui si inserisce il racconto Trentasette centigradi del 1963 (in Eclissi 2000, Urania, 2006).
A Roma nel 2025 (tra 5 anni!!) si instaura una ‘esculapiocrazia’, cioè una società governata dai medici e dalla medicina che detta le regole del buon vivere quotidiano attraverso la corporazione C.M.G., Convenzione Medica Generale, impone prudenza, precauzione e prevenzione. Il cittadino subisce regole, controlli, multe salatissime, si trova in una situazione bloccata, dominata dall’istituzione che peraltro ha deciso che il medico sia pagato solo quando il paziente è in buona salute.
Nelle prime pagine Nico, il protagonista, sta raggiungendo l’ufficio servendosi di un elibus pubblico. La carrozza è molto affollata, fa caldo, egli cerca di aprire una finestra ma è bloccato da una persona che estrae una tessera. «Sono un controllore di prima classe alla C.M.G., e il finestrino rimane chiuso: articolo 5 comma secondo dell'accordo stipulato tra la Compagnia Trasporti Pubblici e la Convenzione Medica Generale». Nico è in regola, ha con sé l'equipaggiamento obbligatorio composto da termometro, aspirina, pastiglie per la tosse, vitamine, panciera, calze di lana. Il funzionario lo segnala comunque per un periodo di sorveglianza speciale, e la Commissione Superiore di Vigilanza lo convoca quella sera stessa per gli esami clinici straordinari.
Nico è un cittadino medio che lavora in ufficio, utilizza i mezzi pubblici sempre troppo affollati. Non è né simpatico né antipatico, cerca di farsi valere scavalcando la coda al bus facendosi largo a gomitate, desidera possedere un suo mezzo di trasporto privato, il levacar, che gli permetterebbe di evitare gli affollati mezzi pubblici e rappresenterebbe una zona franca in cui esser padrone di se stesso. Lo seducono i messaggi pubblicitari che elogiano quel mezzo e nel contempo lo ammoniscono perché si abbinano a quelli della Convenzione Medica Generale: «Cittadino / credi veramente / di avere / la coscienza a posto? / Sei certo di avere con te / il tuo tubo d'aspirina?». Il pagamento però di un'alta tassa mensile alla C.M.G. gli impedisce di realizzare il sogno tanto auspicato ma costoso. Nella sua giornata tipo esistono cadenze obbligate di cui è insofferente, in particolare l’astensione al fumo in vista del controllo medico. Si apparta di sera con la fidanzata Doris a Villa Borghese, ma viene interrotto da un controllore della C.M.G. che li invita a non restare nel parco a quell'ora per via dell'umidità.
Quando Nico apprende di non aver passato gli esami straordinari e di dover pagare una multa, decide di adottare una soluzione drastica: uscire dalla convenzione con la C.M.G. È un gesto che ha un prezzo molto alto: nessun medico o ambulatorio lo curerà più in caso di malattia o infortunio, e qualora volesse ripristinare la convenzione la penale sarebbe altissima. Ma Nico è giovane, non è mai stato malato, e prevale in lui la stanchezza delle continue vessazioni. Si aggiunge il desiderio di possedere un levacar, che compra immediatamente festeggiando l’avvenimento con una gita in campagna. Si ferma con Dolores in un’osteria e Nico scaccia un controllore della C.M.G. con soddisfazione avendo disdettato la convenzione. I due si fermano ad amoreggiare in un bosco e Nico a stento si accorge di un filo spinato sporgente dal terreno che lo ferisce. Quando il giorno dopo viene a sapere che Nico è malato, Doris crede che si tratti di uno scherzo, ma non lo è. La ferita ha procurato un attacco di tetano, ma nessun medico può diagnosticarlo, né curarlo. Un suo amico, professore in pensione, chiama un medico radiato («Ora non esercita più, da quando l'hanno radiato per aver curato un malato non iscritto. Ma bisogna vedere se viene, se rischia la galera...»).
Quando il medico arriva, gli pratica un'iniezione e fa presente che, in caso di tetano, tutto sarebbe inutile perché troppo tardi. Sulla porta l’amico professore gli chiede se c’è speranza, ricevendo un impercettibile diniego. Doris non si è accorta di nulla, ha ancora fiducia, attende seduta vicino al letto. L'epilogo è amaro: Nico è destinato ad una morte prematura subito dopo aver tentato il proprio riscatto. Il tentativo di emanciparsi fallisce perché le possibilità del singolo sono neutralizzate dalle regole del potere. L’amico professore rappresenta un’alternativa meno pessimistica: costui non è mai stato iscritto alla C.M.G. perché quando entrò in vigore aveva scelto di restarne fuori per principio. Libero da obblighi e tasse, ha vissuto una vita per certi versi migliore, ma come racconta a Nico, con un sottofondo di paura. Era la paura di potersi un giorno svegliare malato ed essere condannato a non ricevere né aiuti né cure, una sottile angoscia in grado di avvelenare anche i momenti migliori della vita.
La strada disegnata da Aldani è quella dell’alienazione, anche quella economica che impone di vivere per pagare i medici e le sanzioni per le violazioni. Compare anche il disagio etico, il senso di colpa nel ribelle in quanto la società ha costruito il senso del bene a favore del paziente. Si impegna a mantenere la sua salute, a obbligarlo a riguardarsi, a controllare che abbia messo la maglia di lana, che non fumi troppo, che prenda le vitamine, che si misuri con il termometro la febbre con regolarità. E questo grazie ai medici, che non compaiono mai nel racconto, rimangono sempre sullo sfondo, impegnati nel perseguire una sorte di “salute infelice” collettiva. In quel mondo ciascuno può decidere di vivere la sua vita e condannarsi e morire senza medicine. La medicina appare come una guida delle coscienze, interrogata sui problemi ove la sua competenza è quasi mitica. Il futuro immaginato da Aldani prevede per le strade la pubblicità inarrestabile che urla slogan tipo: "Cittadino, credi veramente di avere la coscienza a posto? Sei certo di avere con te il tuo tubetto di aspirina?".
La paura della morte può condurre la società a uno stile di vita che non merita di essere vissuta?
Il racconto riecheggia Erewhon, il romanzo fantastico e satirico di Samuel Butler del 1872. Erewhon, cioè Nowhere (In-nessun-posto), è un mondo immaginario dove i malati vengono messi in prigione e processati, le vittime sono considerate immorali, i delinquenti vanno all’ospedale, ovvero sono curati a domicilio da medici dell’anima chiamati «raddrizzatori», le scuole dell’Irragionevolezza insegnano la lingua ipotetica e suprema istituzione del paese sono le mistiche Banche Musicali. Secondo la legge erewhoniana, i trasgressori sono trattati come se fossero malati, mentre i malati sono visti come criminali.
Aldani si è occupato dell’epidemia e della salute in un altro racconto, di qualche anno precedente, sotto un versante diverso ma anch’esso di sconvolgente attualità in questo momento. Soprattutto dopo la decisione svizzera del mese di ottobre 2020 di stabilire una scala prioritaria di intervento sanitario a favore dei giovani, lasciando indietro gli anziani in balia della sorte. Si tratta di La luna dalle 20 braccia (Quarta dimensione, Baldini e Castoldi, 1964).
Nel 2025 (sempre tra 5 anni!!) sulla Terra scoppia una violenta epidemia a causa del Morbo Rosso che in appena sei mesi provoca la morte di metà della popolazione. Il rimedio viene scoperto in una pianta che cresce sul satellite Titano, la xemedrina, “ed è grazie ad essa se l’altra metà della popolazione poté uscire indenne da quella ecatombe”. Fortunatamente in precedenza era stata varata una nuova astronave basata sulla navigazione elettromagnetica e non più sulla propulsione atomica, con una drastica riduzione dei tempi di viaggio. In 30 giorni l’astronave con 21 uomini a bordo raggiunge Titano, ma un guasto agli impianti anti gravitazione blocca la ripartenza e impone di decollare con un carico di 950 kg in meno. Il comandante Langersson ordina subito di eliminare il superfluo fino a ridurre le razioni alimentari. A questo punto rimangono ancora 64 kg in eccedenza e il racconto sembra lasciare al lettore la facoltà di individuare i modi per intervenire in quel senso. Non è così. Aldani blocca fantasia in quanto mancano 18 ore alla partenza e il ritardo imporrebbe di attendere altri 20 giorni per decollare. Questo elimina l’ipotesi di una cura dimagrante per l’equipaggio in quanto il ritardo di 20 giorni sarebbe fatale per milioni di persone che attendono il vaccino. Del resto i 60 kg del farmaco, questo il suo peso da trasportare, sono intoccabili per evitare l’inutilità della missione.
L’astronave è costruita secondo le tecniche più moderne in un unico pezzo, per cui non è possibile smontarla anche parzialmente per alleggerirla. E ancora viene escluso il sacrificio di un uomo dell’equipaggio. Il finale drammatico è condensato nelle parole del comandante al medico di bordo “quanto pesa il braccio di un uomo?”. La soluzione davanti a tutti e unica idonea a salvare la missione umanitaria è l’amputazione del braccio sinistro ai 20 componenti dell’equipaggio. Escluso il medico che è l’unico a poter procedere all’intervento. L’umanità è salva, il sacrificio personale ha trionfato, l’uomo in situazioni estreme riesce a superare i limiti del proprio istinto di salvezza. E il medico di bordo, unico ad essere tornato con i quattro arti, morirà qualche mese dopo in un banale incidente, forse suicida. Ci si interroga sul perché, e “forse è stato per via del braccio che nessuno poté amputargli”.
La narrazione ha una cornice particolare. A scuola, durante la lezione di astronomia, un alunno non conosce la ragione del secondo nome di Titano, “la luna delle venti braccia”, non avendo studiato quel brano del libro. Il professore gli impone la lettura di quanto ha scritto “uno scrittore sconosciuto del ventunesimo secolo”. E così inizia la storia.
In questi tempi drammatici e amari la pianificazione sembra aver preso il posto della sfocata utopia, e installarsi nel futuro sembra diventare una possibilità razionale. Nel contempo emerge la preoccupata consapevolezza di cosa significhi il progresso e quali siano i suoi lineamenti. Su tutti il dominio del rischio, come aveva anticipato Ulrich Beck (La società del rischio, Carocci, 2000), la densità di variabili non programmate, la presenza di indicatori che si moltiplicano per cui rumori indistinti vengono scambiati per allerte. Il principio di precauzione, cioè il volersi cautelare, è la conseguenza di questa situazione e domina incontrastato le decisioni soprattutto collettive. Come osserva Raffaele Ventura (Radical Choc, Einaudi, 2020, recensito in questa rivista da Gianfranco Marrone, L’impero fragile degli esperti) la nostra società produce troppi rischi, e il rischio è di volerci difendere da tutti i rischi. Sapere per prevenire, prevenire per potere.
Il racconto di Aldani innesta la sua capacità previsionale anche nel dibattito che sta animando in questi mesi la riflessione generalizzata, cioè il rapporto con gli esperti. Come si pone il sapere di costoro rispetto ai cittadini che a quel sapere sono estranei? Quando compaiono all’orizzonte questioni di indubbio specialismo, come quella medica e tante altre, il diritto di parola consente a tutti di entrare in territori riservati ai competenti?
Se la risposta è negativa come riteniamo, si crea una sorta di tirannia degli esperti che s’impone sulla politica? Oppure la politica continua ad avere l’ultima parola sulle decisioni collettive? Sono temi affrontati da questa rivista nel riflettere sul saggio La conoscenza e i suoi nemici di Nichols (Marrone, Competenti, incompetenti, esperti e dilettanti) e in Radical choc di Ventura (Marrone, citato), quest’ultimo autore attento a citare persino il racconto di Aldani. Che avesse ragione Nanni Moretti in Sogni d’oro quando obietta all’interlocutore che voleva discutere con lui di cinema “Parlo di astrofisica io? Parlo mai di biologia, io? Parlo mai di neuropsichiatria,io? Di botanica, di algebra? Parlo mai di epigrafia greca? Di elettronica, delle dighe, dei ponti, delle strade, di cardiologia? Io non parlo delle cose che non conoscooooooo”.
A questi problemi se ne unisce un altro, acuto in tempi di diffusione dello “sciame reticolare”, ed è l’accreditamento degli esperti. Se è sensato lasciare loro la parola, sorge la domanda: di chi mi devo fidare? Sembra rispondere oggi l’epistemologia sociale, fresca disciplina che studia nello specifico la formazione e la trasmissione delle conoscenze, imponendo requisiti specifici, curricula, scritti, il consenso della comunità scientifica settoriale.
Una cosa è certa e su questa occorre darsi pace: la scienza non è democratica. Come osservava Aristotele essa è dotata solo di logos, cioè di dati e teoria, ma è priva di ethos cioè del parlare nell’interesse di chi ascolta, e di pathos, cioè della capacità di toccare la sensibilità emotiva. Per rimanere nel campo della logica aristotelica, essa è necessaria ma non sufficiente.