Scrivere con la luce, costruire con la polvere

5 Gennaio 2016

Un nuovo manuale d’uso per l’informe[1]. Forse si potrebbe riassumere così la mostra attualmente in corso a Parigi negli spazi espositivi di Le Bal, dal titolo A Handful of Dust. Histoires de poussière. D’après Man Ray et Marcel Duchamp ». Un nuovo mode d’emploi curato da David Campany e rivolto quasi esclusivamente alla fotografia (minima eppur grande e importante eccezione, la sequenza di apertura di Hiroshima Mon Amour di Alain Resnais). Incipit: Élevage de poussière, l’opera impossibile, il documento artefatto, l’enigma da cui si snoda il percorso che Campany ci propone.

 

 

Élevage de poussière, Man Ray et Marcel Duchamp,1920, Courtesy Galerie Françoise Paviot, ADAGP, Paris 2015

 

Il curatore inglese, sulla scia di Krauss e di altri, coglie infatti nella fotografia del Grand Verre di Duchamp realizzata da Man Ray (ma questa descrizione didascalica è davvero la più giusta?) il punto di partenza per una tanto enigmatica quanto alternativa «storia» della fotografia. Élevage de lumière, potremmo allora dire seguendo Elio Grazioli[2] che parla, a proposito del rapporto complesso tra l’opera di Duchamp e la fotografia di Man Ray, di un allevamento di luce: una cura dispiegata nel tempo che ha permesso all’opera di nascere e svilupparsi. L’opera si sdoppia quindi nella sua fotografia: la polvere si è accumulata per mesi sul vetro duchampiano e la luce ha attraversato per ore l’obiettivo di Man Ray. Essa però non coinciderà mai con questo suo alter-ego, così come l’artista farà perdere le sue tracce e si sdoppierà nel fotografo, si triplicherà nel suo eteronimo: quando Man Ray presenterà per la prima volta la sua fotografia, lo farà nei termini di une vue plongeante, una ripresa aerea di un paesaggio immaginario, un «dominio fitto di mistero»[3] appartenente a Rrose Sélavy, eteronimo appunto di Duchamp, a cui Man Ray rivolgerà così un bellissimo omaggio.

 

La fotografia dunque si fa beffe dell’informe, questo ci insegna allora questo nuovo manuale. Di forme forse non può proprio farne a meno, non può trattenersi dall’inventarne. D’après Man Ray, anche le incredibili immagini delle dust storm americane degli anni Trenta, dalla collezione privata del curatore, ci mostrano proprio questo: le immense masse di terra e polvere sono fissate in una forma che solo lì, in quelle fotografie, può esistere, una forma che diviene «indice di indice»[4], prestata loro da quei fotografi anonimi che nell’economia della mostra reinterpretano in fondo, loro malgrado, il gesto di Ray/Duchamp. L’esercizio cui ci invita Campany con questa proposta curatoriale allora è questo: ritrovare quel gesto, seguire la traccia lasciata da un cumulo di polvere, contemplare «battaglie di corpuscoli impalpabili, invasioni, assalti, giostre, vortici[5]» come il Lucrezio descritto da Calvino, leggere in controluce questa nuova versione della storia della fotografia attraverso la polvere, assumerla a chiave di lettura, tema, allegoria, simbolo, soggetto della fotografia.

 

Fotografo sconosciuto, «Tempête de poussière au Kansas, terrain stérile», 1935. Foto per la stampa

 

Scrivere con la luce, «costruire con la polvere»[6], vedere in una fotografia il tempo, i suoi strati e suoi effetti, qualificare come temporale l’atto fotografico, attestare che la sola possibilità per la fotografia è quella di registrare una traccia pulviscolare, «sfuggente, libera, e sfaccettata» (Eugenio Montale, «Diamantina», in Diario del ’72).

 

 

Fotografo sconosciuto, «Après une tempête de poussière, une femme écrivant dans la poussière», Kansas City, 1935. Foto per la stampa

 

Le immagini esposte si pongono tutte sulla soglia sottile che separa una fotografia fatta di polvere che si deposita, che diviene calco che soffoca e imprigiona, che ricopre e sotterra, e un’altra fatta di polvere che si eleva, libertà assoluta delle forme, apertura totale al caso.

 

 

 

Walker Evans, Child's Grave with Plate on Plot, Hale County, Alabama, 1936. Walker Evans Archive, The Metropolitan Museum of Art

 

 

 

Dall'alto: Laure Albin Guillot, Tavola II, Brazilin, album Micrographie Décorative, 1931; Saligenin, Tavola n. XIV, album Micrographie Décorative, 1931

 

La prima parte dell’esposizione lascia intuire tutto questo (e molto altro potrebbe essere scoperto passando da Walker Evans a Man Ray, dalle pratiche giudiziarie alle tempeste di sabbia, agli arnesi per liberarsi dalla polvere o per liberare la fotografia stessa da uno dei peggior nemici del suo funzionamento analogico: la polvere!); essa invita a riflettere sulla materialità stessa del medium, almeno nella sua versione chimica fatta di grani d’argento – cos’altro se non una polvere fotosensibile? – e introduce e prepara alla seconda parte della mostra, dove il curatore lascia invece spazio a una riflessione autoriale sul tema della traccia, della polvere come traccia del tempo e nel tempo. Una traccia di polvere, nella polvere e che emerge dalla polvere: Sophie Ristelhueber, nei primi anni Novanta, ritrova quella traccia in un paesaggio, mentre sorvola e fotografa il deserto del Kuwait con in mente l’immagine del dominio fittizio e misterioso che aveva visto in Élevage de poussière; Mona Kuhn, più di recente, sorvola idealmente California City, ne fotografa dallo schermo di un computer le rovine che emergono dalla polvere di una civiltà mai nata.

 

 

Dall'alto: Vista della sezione delle mostra dedicata a Sophie Ristelhueber DUST©LEBAL_Martin Argyroglo; Mona Kuhn, Ruins in Reverse, 2012, Courtesy Digital Globe

 

 

La traccia però è anche quella del gesto dell’artista – chi è costui?: il modello è sempre quello di Duchamp/Ray, declinato in un dialogo tra i 128 dettagli di un’immagine (Halifax 1978) di Gerhard Richter e gli atti vandalici di John Divola, o meglio – come li definisce le stesso Campany in « Who, What, Where, With What, Why, How and When? The Forensic Rituals of John Divola. » – con i suoi «rituali forensi».

 

 

Gerhard Richter, Sequenza tratta dal libro 128 Details from a Picture (1978), 1995. Courtesy l'artista e Marian Goodman Gallery

 

 

 

John Divola, Vandalism, 1973 - 1974. Courtesy Gallery Luisotti, Santa Monica, California

 

La chiave di volta di questo percorso è forse da ritrovare nell’eccezione cinematografica? «Non hai visto nulla a Hiroshima, nulla. Io ho visto tutto, tutto… Le fotografie, le fotografie, le ricostruzioni, in mancanza di meglio». Gli amanti di Hiroshima Mon Amour si scambiano queste parole, mentre i loro corpi ricoperti di una polvere sempre più luminosa si stringono disperatamente.

 

Chi, cosa, dove, quando e come? Non ho visto niente, ho visto tutto. Didascalia perfetta per ogni fotografia. Tutto si disperde allora in una nuvola di polvere, che negli occhi, si sa, brucia e acceca. L’enigma della visione resta irrisolto e la fotografia deve fare i conti, ancora una volta, con la sua impossibilità di mostrare.

 

Alla fine mi lascio anche io andare all’esercizio cui ci invita Campany, aggiungo il mio personale tassello e penso alla fotografia di una nuvola di polvere e alle parole del suo autore: la fotografia non deve farci vedere solo quel che cerchiamo e che ci aspettiamo di trovare.

 

Immagine - Michele Cera, Dust, 2013 (n_12)

 

«Dietro quella nuvola di polvere potrebbe esserci una persona, oppure qualcuno potrebbe essere stato trasformato in una nuvola di polvere o magari nessuna di queste due ipotesi[7]».

Noi non possiamo far altro che continuare a guardare.

 

 

La mostra, visitabile fino al 17 gennaio presso Le Bal, è accompagnata dal catalogo  Dust/Histoires de poussière. D’après Man Ray et Marcel Duchamp, un bellissimo libro fotografico edito da Mack, con un lungo saggio del curatore David Campany.

 

 

 

[1]  Dopo quello a firma di Rosalind Krauss et Yve-Alain Bois, presentato in occasione della mostra L’Informe. Mode d’Emploi, nel 1996 al Centre Pompidou. Vedi Yve-Alain Bois e Rosalind Krauss, L’informe. Istruzioni per l’uso, Bruno Mondadori, Milano 2003.

[2] Elio Grazioli, La polvere nell’arte. Da Leonardo a Bacon, Bruno Mondadori, Milano 2004.

[3] La legenda che accompagna la prima pubblicazione della fotografia di Man Ray sulla rivista Littérature nel 1922 è la seguente: «Voici le domaine de Rrose Sélavy/Comme il est aride - comme il est fertile/Comme il est joyeux - comme il est triste! Vue prise en aéroplane. Par Man Ray 1921». David Campany nota nel saggio in catalogo che il titolo Élevage de poussière/Dust Breeding compare successivamente tra i frammenti della Boîte Verte, ovvero la raccolta di documenti che ripercorrono la nascita del Grand Verre, l’opera fotografata da Duchamp, raccolti dall’autore nel 1934: sul retro di un ingrandimento della fotografia di Man Ray si legge infatti in basso a sinistra «élevage de poussière».

[4] Yve-Alain Bois e Rosalind Krauss, L’informe. Istruzioni per l’uso, trad. it. Bruno Mondadori, Milano, 2003, pp.225. Citato da Elio Grazioli, La polvere nell’arte, p. 69.

[5] I. Calvino - Il castello dei destini incrociati. «Nel pulviscolo dorato sospeso nell'aria, quando il buio d'una stanza è penetrato da raggi di luce, Lucrezio contemplava battaglie di corpuscoli impalpabili, invasioni, assalti, giostre, vortici.»

[6] Claudio Parmiggiani, “Costruire con la polvere”, in Stella Sangue Spirito, Arles, Actes Sud, 2003.

[7] Michele Cera, Dust, Kehrer Verlag, 2013.

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