Speciale

Camminare a New York

19 Luglio 2011

Camminare a New York è un atto politico, un negoziato, una scelta che comporta conseguenze. I semafori per pedoni che dicono perentoriamente “walk” o “don’t walk” ci sono anche altrove, ma a Manhattan l’imperativo è categorico, solo che vale unicamente per il primo dei due comandi. Come si fa a non camminare? È l’intero marciapiede, l’intera strada, isolato, quartiere, isola che cammina con te. Non puoi fermarti solo perché te lo ordina un semaforo, ma neanche puoi attraversare come ti pare. Perché un corteo senza fine di taxi e furgoni ti blocca la strada, o perché c’è un vigile nei pressi che ti farebbe sentire un jaywalker.

 

Gli americani hanno un termine per tutto, compreso quello che definisce il pedone irrequieto, distratto, trascinato dall’onda delle sue cure e dei suoi misteriosi scopi, oppure anche burino. Perché il concetto di jaywalking risale ai primi anni del secolo scorso, quando la gente di campagna, ancora poco abituata, non capiva perché dovesse dare precedenza a quegli affari neri e rumorosi che arrancavano per le strade. Jay sta per pivello, in un senso che non depone a favore dell’intelligenza del soggetto. In origine un jaywalker era dunque un pedone arretrato, uno che non aveva ancora capito che i tempi erano cambiati. Se penso a un vecchio Carosello di quando ero bambino, in cui una famiglia non proprio aggiornata sulle ultime meraviglie della società dei consumi veniva sempre apostrofata con un “Uei cavernicoli, non siamo mica all’età della pietra!”, mi viene da tradurre jay  con “cavernicolo”, e non faccio fatica a immaginare un autista americano che lo grida a un pedone spensierato.

 

Certe volte, è vero, l’atto del jaywalking ha ragioni più profonde, e cercare di comprenderle vuol dire mettersi a lezione di multiculturalismo. Ho un amico americano che ha partecipato alla rivoluzione sandinista in Nicaragua, e che spesso faceva da autista ai rivoluzionari che si spostavano da una parte all’altra di Managua. Per non farsi notare andava piano e si fermava al rosso, finché i guerriglieri gli hanno detto che così attirava l’attenzione, un vero nicaragueño è quello che se ne frega dei semafori e passa col rosso, pedone o autista che sia. Se poi siete a New York un sabato mattina presto, quando c’è in giro ancora poca gente e vedete un ebreo ortodosso, cappello e caffetano neri, che attraversa la strada deciso anche se il semaforo gli dice di non farlo, sappiate che sta osservando il Shabbat, giorno nel quale non si possono mettere in funzione aggeggi meccanici, e che se premesse il bottone che sta sul palo del semaforo per farlo passare da “don’t walk” a “walk” commetterebbe peccato.

 

Ma come si comporta allora chi si sente sotto tortura a stare bloccato davanti a un semaforo, e d’altra parte non vuole esporsi a rischi del jaywalking? Devia di novanta gradi e attraversa la strada di fianco a lui, calcolando che quando sarà arrivato dall’altra parte sarà passato abbastanza tempo perché il semaforo che sta nella direzione giusta sia passato al “walk”, e trasformando così la linea retta delle strade di New York in un zig-zag di mosse perpendicolari. Non risparmia tempo, ma almeno non si è fermato, non ha ceduto a un comportamento così innaturale, così anticittadino.

 

Un giorno chiamo un taxi e all’autista, un sikh con il turbante come tantissimi tassisti di New York, dico che devo andare all’aeroporto JFK. Si volta e mi guarda smarrito. “Non so dov’è” mi dice in un inglese stentato. Come non sa dov’è? “Sono arrivato ieri dal Pakistan” aggiunge disperato. Con una licenza certamente comprata sottobanco da un parente, un correligionario, va’ a sapere, penso io, ma non è mia intenzione interrogarlo. Per un momento mi sento nella trasposizione newyorchese delle Scarp del tennis di Jannacci (“Sa mica la strada per l’aeroporto Forlanini?”). Così siamo scesi e, perché era destino, cercando un altro tassista sikh che potesse spiegarci in pashtun la strada per arrivare al JFK, ci siamo messi a camminare.

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