Conversazione su “Tavola tavola, chiodo chiodo” / Lino Musella e Eduardo: una lezione

10 Dicembre 2021

“Io ho dovuto pagare un prezzo molto alto durante la mia vita, ho dovuto pagare sempre, sempre. E a furia di pagare, certe cose, oggi, non mi riescono più. Per esempio non mi riesce più di avere molta fiducia nella gente, non mi riesce di farmi degli amici veri, talvolta non mi riesce neppure di credere negli affetti. Non sono una vittima, beninteso: mi sono sempre difeso bene”. 

(Da un’intervista di Eduardo De Filippo a Grazia Livi su “Epoca” del 4 febbraio 1962).

 

Sul palco del San Ferdinando, legata a delle funi, è sospesa una sottile piattaforma di legno a mezz’aria. Sopra c’è un modellino in miniatura di una struttura in costruzione. Lino Musella, pantaloni neri e camicia bianca, ha un barattolo di colla e un pennello tra le mani. Si rivolge a “Vittò”, immaginario aspirante attore – e al pubblico – mentre incolla pezzi. Sembra il primo atto di Natale in casa Cupiello, ma le parole sono altre: Lino Musella/Eduardo racconta del San Ferdinando: di quando acquistò quel mucchio di pietre bombardate, dei milioni cacciati di tasca sua per tirarlo su, di quanto sarebbe diventato bello e moderno, questo teatro, pensato prima di tutto per il popolo e per gli artisti, con l’aiuto di Peppino Mercurio, suo epico capo macchinista, tanto da far invidia a tutti i teatri europei. Le sue parole risuonano in sala con un’ammirazione solenne, mista a un orgoglioso senso di rivalsa, come a volere riparare un torto subìto: a distanza di quasi ottanta anni.

 

Perché, mentre Paolo Grassi riceveva sovvenzioni per erigere il Piccolo Teatro di Milano, considerato bene di interesse pubblico, negli stessi mesi Eduardo fu lasciato solo: dalla città, dalla comunità, dalle istituzioni tutte. Ed è proprio questa solitudine disarmante, profondamente umana, che ci attanaglia fin dai primi minuti di Tavola tavola, chiodo chiodo. E non ci lascia più. La storia del San Ferdinando – rientrato sotto l’egida dello Stabile dopo anni di abbandono e chiusura – è una ferita che brucia ancora in una città come Napoli dove oggi, come nel dopoguerra, chi fa cultura lo fa spesso a proprio rischio e a proprie spese. C’è molto di Lino Musella in questa operazione necessaria, urgente, intorno a Eduardo. Un vivissimo ritratto/manifesto politico e poetico dell’uomo: padre, fratello, compagno, cittadino, teatrante. C’è tanto della storia personale e di formazione di Musella, “ragazzo di bottega” di Emilio Peluso, vecchio direttore di palco del Politeama: “Peppe”, oggi anziano custode del teatro ancora lo ricorda quando, sedicenne, restava a dormire in teatro per recarsi a scuola la mattina dopo. “Io sono cresciuto su e con ‘Tavola tavola chiodo chiodo’. Il mio direttore di palco al Politeama me la citava sempre”, racconta Musella durante una nostra conversazione: soprattutto tra i tecnici e i macchinisti è famosa questa targa, visibile dal palco e non dalla platea del San Ferdinando. Eduardo la dedicò a Peppino Mercurio. 

 

La targa che Eduardo ha dedicato a Peppino Mercurio.


Enfant prodige della fucina partenopea, cresciuto tra il teatro delle cantine di Roma, la scuola di regia della Paolo Grassi di Milano, co-fondatore con Paolo Mazzarelli dell’interessantissimo esperimento di compagnia indipendente Musella-Mazzarelli con cui ha scritto e messo in scena lavori inediti o adattati; confrontatosi, tra gli altri, con Antonio Latella e più di recente con l’auto attore mattatore Tonino Taiuti, Musella di Eduardo aveva fatto “solo” l’indimenticabile versione del Natale in casa Cupiello, appunto con la regia di Latella. Durante una conversazione mi spiega che la genesi di questo lavoro – da cui scaturirà presto un libro – risale al lockdown: “Tommaso De Filippo ha amato molto L’ammore nun è ammore, i sonetti di Shakespeare tradotti da Dario Iacobelli distribuiti da Elledieffe: da tempo c’era desiderio di incontrarsi sul materiale eduardiano.

 

Nel primo lockdown sono saltati tutti i lavori, molti di noi sono rimasti per strada; Tommaso mi ha chiamato, preoccupato per me. Sulla scia dei sonetti mi aveva proposto di fare un assolo sulle poesie di Eduardo. Ci pensai: in quel periodo si facevano molti discorsi sulla nostra categoria. Mi venne in mente Eduardo dietro le quinte di Maria Procino, un libro di vent’anni fa che racconta di Eduardo impresario. Un compendio che richiama benissimo, attraverso piccoli estratti di lettere, la questione del San Ferdinando, il rapporto di Eduardo con il Ministero della Cultura e con lo Stabile a partire dagli anni trenta. Ho pensato: sarebbe interessante riprendere e riscoprire le parole che lui ha scritto, sul teatro, e non per il teatro. Tommaso mi invitò a casa sua per attingere al prezioso archivio di famiglia con la curatrice Maria Procino. Da lì ad allestire lo spettacolo sono passati mesi di studio per l’individuazione drammaturgica. Per ogni pezzo che c’è, ne devi avere letto almeno duecento. Ci sono pochi brani presi per intero. La maggior parte sono assemblaggi di molti discorsi che seguono un loro filo. Così, invece di fare un lavoro sulle poesie di Eduardo, ho fatto un lavoro sulla sua poetica”. 

 

“Tavola, tavola, chiodo, chiodo”, foto di Mario Spada.


Lo spettacolo, in un allestimento minimale e artigianale, fatto di candele, oggetti feticcio, simboli, con i sapienti interventi sonori live di Marco Vidino, cuce insieme appunti, riflessioni, lettere, articoli di giornale, interviste: materiale nella maggior parte dei casi inedito che, affidato al ‘faber’ Musella – per tutto lo spettacolo costruisce, monta e smonta oggetti, e questa è una caratteristica di tutti i suoi lavori in solo – ha il sapore di una veglia, di una confessione intima e sincera con una precisa funzione civile che attraversa capitoli cardine della vita di Eduardo in un modo del tutto insolito: con le sue precise parole. Musella ha selezionato il materiale in base agli argomenti scelti. Delle chicche. Uno scambio fortissimo tra lui e Peppino, una breve, intensa lettera a Titina, la gustosissima intervista di Roberto Gervaso sul “Corriere della Sera”; ancora un meraviglioso, commovente articolo che Eduardo scrisse in occasione della morte di Viviani su “Il Risorgimento”, le lettere tra Eduardo e i ragazzi del carcere Filangieri che stavano tanto a cuore al maestro: donò loro un piccolo teatro che, oggi che l’ex carcere nel cuore del centro storico di Napoli è uno spazio occupato, porta il suo nome.

 

C’è un raccordo molto importante, un passaggio di consegna transgenerazionale, trasmesso dal corpo e nella voce di Musella che, come in uno dei suoi play, gioca con l’eredità dei maestri e della tradizione, tradendo il loro lascito, nel senso latino di tradere e anche di tradire, da un’epoca e da una generazione all’altra. Così, dopo la lettera di Eduardo a Viviani, è Viviani stesso – fatto da Musella che a sua volta cita Taiuti che fa Piedigrotta di Viviani – a rivolgersi scherzosamente a Eduardo. “La questione del Filangieri per me è la sintesi di un’intera vita. Viene fuori una cosa molto chiara: Eduardo e Viviani si fanno ponte. Viviani metteva in scena i dolori della gente, ha dato vita per denunciare l’esistenza di questi poveri bimbi sventurati. Eduardo neanche quarant’anni dopo si occupa di questi ragazzi e nei suoi discorsi in Senato cita Viviani parlando degli scugnizzi di Napoli. Questo legame tra i due nel convergere su questa questione e sul futuro mi ha molto toccato, anche come sintesi poetica. Non ci si occupa di cultura: chi fa questo lavoro si occupa di umanità. Quando è diventato senatore a vita è riuscito a sottrarre la sua funzione di teatrante e centrare un problema – che ancora è il problema di Napoli oggi – da vecchio saggio, filantropo, antropologo e lo ha fatto con una perizia e un integralismo assurdi. Eduardo non voleva che entrasse la tv nel carcere Filangieri, non voleva che diventasse una cosa pubblicitaria, il suo era un interesse reale”. 

 

Tommaso De Filippo e Lino Musella.


Tavola tavola, chiodo chiodo è lavoro altamente politico e poetico: in questa doppia funzione rispecchia profondamente l’indole eduardiana. Sull’Eduardo politico Musella approfondisce un’altra questione nodale ripresa nella lunga intervista di Gervaso: “Siamo cresciuti pensando che Eduardo fosse un autore borghese perché, a differenza di Viviani che mette in scena il popolo, lui mette in scena l’interno familiare, la casa. Eduardo spiega che mette in scena la piccola borghesia perché è lì che lui vuole colpire. È lì il problema. Ci sono parti che ho tagliato dell’intervista in cui ribadisce: ‘Voglio dirlo una volta e per tutte in modo chiaro: io non sono un uomo di sinistra o di destra, altrimenti sarei diventato un capo. Io faccio critica del costume. Io parlo di individuo e di critica del costume’”. Tra i diversi carteggi messi in scena, molti scambi tra il maestro e il Banco di Napoli che chiedeva il saldo di numerosi prestiti o con la Società Italiana degli Autori e degli Editori a cui Eduardo a sua volta esortava di pagare la banca.

 

Questo lavoro ci consegna un De Filippo inedito che riesce a smarcarsi – una volta e per tutte – dalla retorica eduardiana, o meglio intorno a Eduardo. E non è un caso che a togliere questa polvere del tempo sia un artista sopraffino e stratificato come Lino Musella che, come tutti quelli della sua età, ha conosciuto Eduardo attraverso il documento lasciato dalle riprese televisive delle sue opere e, nella sua esperienza e (auto) formazione, ha assorbito e masticato i segni avanguardisti della così detta drammaturgia post-eduardiana – Moscato, Ruccello, Taiuti – e anche il confronto della ‘nuova’ generazione con la Tradizione (pensiamo, di nuovo, a Dalisi/Latella).

 

“Noi tutti – mi racconta – siamo cresciuti pensando: più di Eduardo chi c’è? Ha scritto, messo in scena, diretto in tutto il mondo. Stiamo parlando però di uno che tecnicamente ha fallito. Ha chiuso il teatro due volte e, caparbio come Luca Cupiello, si è messo a rifare il presepe daccapo, un’altra volta. Eduardo c’è rimasto sotto perché è rimasto solo, non ha fatto i conti con la città. Noi ci siamo sentiti dei falliti durante la pandemia e non solo: ci siamo sentiti gli ultimi. Dire anche Eduardo è stato un fallito è un qualcosa che gli dà il diritto di parlare anche per noi (teatranti). Oggi si usa considerare la nostra come una professione normale, ma come dice Eduardo, ‘non si devono perdere rischio e orgoglio, bisogna rimettere in circolazione parole come sacrificio, umiltà, lavoro’. Capiamo quali sono i termini per rivendicare i nostri diritti, ma riconosciamo che non si tratta di una professione normale. Ne parlo nel pezzo dei consigli al giovane aspirante attore. Questo sì: è rivolto a noi”. 

 

Ciononostante, si tratta di uno spettacolo che parla a tanti tipi di pubblico: “È stata la più bella sorpresa di quest’anno. Questo lavoro è nato da una necessità vera. Ho sperato che potesse parlare a tanti ma sapevo che era una riflessione profonda sul teatro, con la preoccupazione che parlasse più a noi – teatranti – che a loro. Invece il pubblico ha risposto benissimo, sia in città che in provincia, c’è una compenetrazione, anche in risposta all’esplicita richiesta di riflessione da parte di Eduardo nei confronti dello spettatore/contribuente”. Musella ha ripreso Tavola tavola, chiodo chiodo dopo solo quattro giorni di debutto dell’anno scorso, prima della richiusura dei teatri. Gli chiedo cosa ha significato fare questo lavoro al San Ferdinando: “Il San Ferdinando è il teatro in cui ho fatto gli allestimenti più importanti, sono testimone del fatto che questo teatro vive. Ci sono molto legato. Ricordo, in occasione della ripresa di Natale in casa Cupiello, sul palco dell’Argentina Antonio (Latella) viene da me e mi dice: ‘Lino, come andrà a Napoli?’ Io lo guardo e gli dico: ‘A Napoli andrà benissimo’.

 

Anche questa volta ero emozionato, lo sono tutte le sere. Ha un portato non solo per il San Ferdinando ma per i napoletani. Quando tocchi quella materia lì, sai che stai toccando un minimo comune denominatore. Tutto quello che fai, risuona nella gente. Sono anche fatti tuoi, se io tocco Eduardo. Se lo faccio a Milano ho il diritto, in quanto napoletano, di cucinarglielo in quel modo lì e loro se lo mangiano. Ma a Napoli è come se andassi a fare delle variazioni sulla pizza. La gente ci è cresciuta con Eduardo. Il pubblico di Napoli dice: ‘io un’idea sull’autore e ce l’ho forte. Tu che vuoi fare?’ Sento una grande attenzione, un giudizio che poi si modifica durante lo spettacolo, sento di doverlo conquistare sera per sera”. 

 

“Tavola, tavola, chiodo, chiodo”, foto di Mario Spada.


Si scivola verso il finale con la lettura quasi integrale della clamorosa Lettera al Ministro Tupini su “Paese sera” del 4 ottobre 1959 che a un tratto dice: “Mi creda, onorevole Ministro, che è con sgomento che io penso al vuoto che di anno in anno si va facendo attorno al Teatro in Italia e alle decine di migliaia di spettatori italiani che ogni anno si allontanano per sempre senza che altri prendano il loro posto; che è con angoscia che penso a tutto quello che si va facendo sistematicamente per raggiungere l’ormai incombente Anno Zero del Teatro italiano”. Questo forse è uno dei momenti di maggiore identificazione nello spettacolo tra persona e personaggio che innesca più di una riflessione sul presente. “Fino a prima della lettera sono in scena a camminare sulle uova. Sei lì a puntellare pensieri, appunti, riflessioni, lettere, rapporti: in una dimensione evocativa.

 

Nella lettera sono Lino. Me le prendo io queste parole: fanno eco nella mia rabbia”. Eduardo scongiura l’avvento dell’anno zero del teatro. “Noi oggi siamo nei numeri relativi. Siamo venuti su nel sotto sotto sotto zero. Rispetto a tutto quello che lui rivendica per la mia categoria, so bene che un attore può e si deve smarcare. Noi attori abbiamo capacità di riadattamento. Abbiamo vissuto la fine del grande attore, la fine del teatro di regia, ma queste due cose hanno un movimento interno che cambia e si modifica. Quello che si è stigmatizzato ed è diventato la nostra condizione attuale è la morte dell’autore. Si è cronicizzata. La crisi del sistema attoriale si può superare, ma come si fa se non c’è un sistema che non dice che c’è la necessità, che c’è bisogno di qualcuno che scriva del contemporaneo?”. E mo miettete a fa’ ’o presepio n’ata vota... 

“Oggi, se dovessi prevedere qualcosa, sarei ottimista. Perché i giovani capiscono, e le generazioni non si susseguono ogni vent’anni, o ogni quindici, ma con maggior rapidità. I più piccoli vengono su con idee molto avanzate, in meglio, credo. Il futuro, secondo me, verrà salvato dai ragazzini, come dice Elsa Morante, e dalle donne che, al contrario dei maschi, esercitano una politica indipendente da qualunque tradizione. Verrà il meglio, ma ci vorrà molto tempo...” 

 

Tavola tavola, chiodo chiodo è un monologo tratto da appunti, articoli, corrispondenze e carteggi di Eduardo De Filippo. Prossime date: 10 dicembre Montepulciano, 11 e 12 dicembre Pontedera, 14 e 15 dicembre Russi (Ra).

 

Nell’ultima immagine un momento dello spettacolo, foto di Mario Spada.

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