Intervista a Marco Tarchi

17 Giugno 2015

Si parla tanto di populismo ma poche volte ci si sofferma sull’esigenza di un approfondimento rigoroso del concetto e del fenomeno. Eppure l’Italia, specie se vista dall’estero, è un caso di studio molto interessante per chi voglia saperne di più su questo problema. Ho pensato perciò che fosse utile fare una sorta di inchiesta intervistando chi invece da anni studia questa realtà. L’occasione per iniziare è arrivata con la ripubblicazione de L’Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo di Marco Tarchi (Il Mulino 2015). Tarchi è uno studioso che ha dedicato buona parte della sua vita a questo tema. Docente di Scienza della Politica all’Università di Firenze, teorico autonomo ed eterodosso della destra italiana, ha svolto importanti studi sulle trasformazioni dei regimi politici e sui partiti politici.

 

 

 

Professor Tarchi questo suo libro L’Italia Populista, appena uscito per Il Mulino, è l’edizione aggiornata di un suo lavoro del 2003 [L’Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi]. Già le ragioni dell’aggiornamento fanno capire subito al lettore che in Italia esiste una questione populista e che si è pure evoluta. Possiamo dire che esiste una variante italiana del populismo e se sì come si caratterizza? Del resto l’Italia non viene studiata all’estero come uno dei casi studio più emblematici del fenomeno?

 

Oggi è scontato sostenere che la politica italiana sia satura di populismo. Quando uscì, con titolo quasi identico, il mio precedente libro sull’argomento il dato non era altrettanto scontato, sebbene già si fossero coniate espressioni come “laboratorio del populismo” (Loris Zanatta) o addirittura “paradiso populista” per definire il nostro paese. Nel 2003 mi chiedevo se, come si sosteneva da più parti, si trattasse di un fenomeno patologico destinato a esaurirsi una volta passata la fase acuta, o di un aspetto fisiologico del funzionamento delle democrazie liberali. Al termine dell’analisi, propendevo per la seconda ipotesi. A quasi dodici anni di distanza, quel mio giudizio si è confermato e rafforzato, sulla base di un ripensamento ulteriore del concetto di populismo – che a mio avviso va collegato a una mentalità, non a un’ideologia o a un mero stile – e dei riscontri empirici offerti dalle dinamiche politiche in Europa e altrove. Per illustrare i risultati di questa ricerca ho dovuto riscrivere il libro dalla prima all’ultima riga, mantenendone l’impianto ma quasi raddoppiandone il volume.

 

In termini più espliciti: esiste un filo rosso che lega fenomeni come il berlusconismo, la Lega Nord, il grillismo e addirittura fenomeni precedenti quali il qualunquismo di Giannini e Achille Lauro? In fondo lei evidenzia delle profonde similitudini nei modi e addirittura nel linguaggio di molti leader populisti nuovi con quelli del passato.

 

È proprio l’illustrazione di questo nesso a fare da filo conduttore alla seconda parte del libro. Per giustificare questa relativa continuità, ho proposto una definizione del populismo che fosse in grado di coglierla e spiegarla, considerandolo come “la mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato, come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione”. In diverse declinazioni e con dissimile intensità, questa mentalità è riscontrabile in tutti i fenomeni che Lei ha citato.

 

 

Soffermiamoci sui fenomeni cosiddetti di neopopulismo, quelli che all’incirca hanno interessato l’Italia negli ultimi venti anni. L’inizio di questa onda lunga è corrisposto con il declino di un sistema fortemente partitocratico, quello della Prima Repubblica. Può considerarsi questo un aspetto strutturale dei neopopulismi contemporanei italiani: un’antipartitocrazia permanente e un’antipolitica costante, se per politica intendiamo quella dei partiti e dei politici di professione? E d’altra parte il populismo può essere ormai considerato una condizione strutturale della politica italiana?

 

È una componente strutturale della politica, non solo italiana, perché, come ha ben colto Margaret Canovan, nasce e cresce nella fessura che si crea, in democrazia, tra le premesse della teoria (prima delle quali la promessa di autogoverno popolare) e i più limitati risultati della prassi. L’antipolitica è certamente una componente significativa della mentalità populista, che diffida della complessità del linguaggio politico, della rissosità dei partiti, della lentezza delle mediazioni, della rigidità dei processi istituzionali e burocratici; non ne esaurisce però il profilo, che presenta molti altri aspetti.

 

I neopopulismi italiani sono, nella loro varietà, una forma di populismo mediatico, per usare un altro neologismo nato in quest’alveo concettuale. Secondo lei dal famoso discorso di discesa in campo di Berlusconi a oggi, passando per Grillo e internet, quali sono state le trasformazioni del populismo mediatico italiano? Non le sembra che siamo passati da un populismo mediatico televisivo a un webpopulism?

 

Le due forme possono convivere e sono destinate a farlo, credo, ancora per lungo tempo. Non è però solo il populismo ad aver assunto una prevalente (ma non esclusiva) forma mediatica; è la politica tutta ad aver seguito questo percorso. Il connubio fra politica, immagine e linguaggio è antico quanto l’arte – o le tecniche – della convivenza civile, e al di là del peso della retorica nella polis greca o nella res publica romana, se ne riscontrano tracce significative in qualunque civiltà: basti pensare al ruolo dei capi tribù, dei re e degli sciamani o stregoni negli aggregati tradizionali e al peso che nell’esercizio delle loro funzioni assumevano le cerimonie, i simboli, i paramenti e le parole. Oggi le cerimonie mediatiche, promuovendo visibilità e popolarità, ripropongono i vecchi paradigmi in un contesto nuovo, e ogni ambiente comunicativo ha un proprio linguaggio e le proprie convenzioni, si tratti di un talk show televisivo, di una pagina Facebook, di un account Twitter o di un sito internet. I populisti se ne avvalgono così come i loro concorrenti, e da quando il marketing è diventato un ingrediente indispensabile delle campagne elettorali (che davvero si possono definire permanenti), il vincolo fra politica e immagine si è ulteriormente rafforzato. In Italia, ma prima ancora altrove, Stati Uniti in testa. Reagan e Schwarzenegger hanno anticipato Grillo nella consacrazione del legame fra spettacolo e politica.

 

 

Sempre in relazione alla politica degli ultimi venticinque anni in Italia, la maggior parte dei politici che hanno riscosso un certo qual successo e si sono caratterizzati per uno stile populista, seppure in forme e gradi differenti, da Berlusconi per finire con Renzi, proviene dalla società civile. Leggendo il suo libro si ha l’impressione che in Italia la società civile abbia assunto una centralità quasi assoluta nella politica italiana, tale da svolgere un ruolo di intervento suppletivo nei periodi in cui la politica “classica” è in crisi, un po’ come per il pretorianesimo in alcuni paesi dell’America Latina. Come stanno le cose?

 

Non definirei Renzi un prodotto della società civile, anche se vuole rappresentarsi come “uno come tutti” (ma molto più bravo…); il suo percorso è quello di un professionista della politica che tale è diventato da ragazzo, formandosi nelle sezioni di partito. Ciò detto, la società civile ha assunto, a partire dai giorni di Tangentopoli, il ruolo di un feticcio in Italia, venendo rappresentata come il corpo sano, il “paese reale” in opposizione alla corrotta società politica, il “paese legale”. Questo ha in effetti consentito a chi di questa mitizzata cittadinanza moralmente integra si è fatto paladino, in primo luogo la magistratura, di operare quell’intervento suppletivo di cui Lei parla. Concordo sul paragone con il pretorianesimo latino-americano: ovviamente, da noi almeno da trent’anni a questa parte non è immaginabile che questo ruolo “purificatore” venga assunto dai militari, mentre ai giudici l’opinione pubblica può assegnarlo o concederlo.

 

La leadership di Renzi agli occhi di alcuni analisti rappresenta oggi un caso di populismo, per altri invece no. La sua strategia del dentro e fuori dal partito ha rappresentato una variante più complessa rispetto ai populismi precedenti: è uomo di partito, ma allo stesso tempo contro il partito; è politico di professione ma allo stesso tempo si presenta come uomo della società civile lontano dai politici di professione; promuove una nuova politica ma non vuole la distruzione del sistema bensì una sua riforma profonda. Non le sembra che dopo forme di populismo conclamate ed evidenti come Berlusconi, Grillo, ma anche Di Pietro e Bossi, Renzi rappresenti una forma di populismo istituzionalizzato, democratico e integrato con il sistema ma pur sempre un populismo?

 

Poiché considera il populismo come una mentalità e non solo come uno stile, fatico ad assegnare a Renzi la patente del “vero” populista, anche per la già citata natura di insider, di membro a pieno titolo di quell’establishment che i populisti detestano. Renzi è però molto attento a cogliere, con gli strumenti del marketing, gli umori che attraversano l’elettorato e, avendo capito che molte delle parole d’ordine populiste “tirano”, oggi ne fa sfoggio proprio per inseguire e sconfiggere sul loro terreno i populisti autentici. Ad ogni battuta irriverente fa tuttavia seguire una serie di omaggi alle istituzioni: vuole apparire l’“uomo del fare” che vuol farla finita con la politica delle chiacchiere e delle perdite di tempo, ma nel contempo ci tiene a non rompere con il sistema, le sue convenzioni e i suoi attori più significativi, a partire dal mondo della finanza, altra bestia nera dei populisti.

 

Non crede che forse una critica sociale e politica del populismo italiano debba passare attraverso una critica della società civile italiana, ormai diventata costitutivamente antipolitica?

 

Il mio obiettivo, in sede scientifica, è studiare il populismo, non criticarlo (o lodarlo). Sono, in questa scelta, pedissequamente fedele agli insegnamenti di Max Weber in materia di astensione dai giudizi di valore. Non volendo comunque sfuggire alla Sua domanda, Le rispondo che, nel caso in cui ci si voglia incamminare sulla via della critica, bisognerebbe prendere in considerazione in parallelo lo stato d’animo antipolitico della cosiddetta società civile e i comportamenti della società politica che tale stato d’animo hanno fomentato e rafforzato. L’effetto presuppone una causa.

 

 

Nella prima parte del suo lavoro emerge chiaramente che, nonostante una rinnovata attenzione scientifica per questo argomento, resta ancora lontana una teoria generale del populismo e soprattutto un approccio teorico dominante. Come giudica questo tratto ambivalente epistemologico: una forza o una debolezza di questo tema? Del resto sappiamo che alcuni politologi, come Panebianco, sono arrivati a sostenere che il populismo sia in realtà un falso problema della politica, una specie di falso concetto.

 

Non è facile, per uno studioso, maneggiare un concetto che nel linguaggio corrente, ma anche in quello di buona parte della comunità accademica, ha assunto un significato denigratorio, e per questo c’è chi pensa che bisognerebbe sbarazzarsi di una nozione così imbarazzante. Resta il fatto che chi formula questa ipotesi o ha passato decenni di vita a studiare il soggetto a cui vorrebbe ora sottrarre il nome o non sa poi quale etichetta apporre a movimenti, partiti, leader che non rientrano nelle categorie “accettate” presenti in questo campo. Io penso che sia venuto il momento di sfuggire al famoso “complesso di Cenerentola” individuato a suo tempo da Isaiah Berlin e di smettere di pensare che i piedi adattabili alla scarpetta rimasta in mano al Principe non esistano. La mentalità populista esiste, ha tratti individuabili, lascia evidenti tracce. Poi, certo, c’è da considerare l’inveterata tendenza degli intellettuali a criticare sempre e comunque le proposte teoriche altrui solo perché non le hanno elaborate loro: ma a questo difetto non c’è rimedio, e nessuno si sogna di espellere dal vocabolario della scienza politica concetti come liberalismo o socialismo solo perché da secoli c’è una feroce guerra ideologica in atto tra coloro che si negano reciprocamente l’etichetta…

 

Se allarghiamo l’orizzonte di analisi ad altri contesti internazionali, per esempio la Russia o la Turchia, possiamo vedere come il populismo dopo una prima fase di consenso, per molti versi anche inclusivo e stabilizzante, abbia progressivamente costituito un fattore di rischio democratico, rappresentando uno dei fattori principali per la nascita di regimi che vengono oggi definiti forme di autoritarismo soft (hybrid regimes, delegative democracies...). Nel complesso rapporto con gli ordinamenti democratici il populismo può essere considerato quindi un fattore di rischio democratico? L’azione delegittimante delle istituzioni e delle procedure democratiche esercitata dal potere populista è quindi un'azione antidemocratica in un contesto democratico?

 

Il populismo non è alternativo alla democrazia; anzi, nasce dalla sua stessa radice. Fa però fatica a convivere con il liberalismo e soprattutto con la tendenza di quest’ultimo ad affermare una tutela privilegiata delle opinioni delle minoranze nei confronti di quella della maggioranza, e quindi a fare del pluralismo un bene in sé. Ciò fa capire perché, in circostanze particolari, i movimenti populisti – o meglio, i loro capi – possano soccombere a tentazioni autoritarie. Ma quel che conta è la tenuta delle “regole del gioco” democratiche. Se queste sono salde, il populismo scorre nell’alveo della legalità: è anti-establishment, non anti-sistema.

 

 

Lei formula la categoria della “mentalità populista” usando la distinzione tra mentalità e ideologia di Geiger, che era anche alla base degli studi di Linz sull’autoritarismo, cosa vuol dire esattamente?

 

Quel che, appunto, Geiger e soprattutto Linz hanno detto: che cioè si tratta di un modo di pensare e di sentire più emotivo che razionale, che al suo interno le modalità di reazione alle situazioni sono comuni ma non codificate, che si tratta di un atteggiamento intellettuale e non, come nel caso dell’ideologia, di un contenuto intellettuale. E ancora, che è una predisposizione psichica priva di una forma precisa, fluttuante, che riguarda lo studio del carattere sociale. E che, a differenza delle ideologie, che contengono un forte elemento utopico, è più vicina al presente o al passato. Linz ha chiarito che “sia le ideologie, sia le mentalità sono parte di un più ampio fenomeno, consistente in idee che conducono ad altre idee orientate all’azione”, ma, rispetto alle ideologie, le mentalità mostrano una certa vaghezza; in esse “si fa riferimento a valori generici” e “si ricorre alla discreta e pragmatica incorporazione di elementi derivati dai centri ideologici dominanti al momento”. Il che spiega perché esistano populismi “di destra” e “di sinistra”.

 

Non pensa che questa sua indicazione categoriale allarghi la prospettiva di analisi aprendo questioni relative alle condizioni sociali del populismo e quindi ad una prospettiva anche sociologica?

 

Più che a una prospettiva sociologica – che peraltro è stata già aperta con successo da autori come Gino Germani –, mi sembra che punti ad un approfondimento sul piano degli studi di psicologia collettiva, e più specificamente di psicologia politica: un ambito di studio oggi visto con sospetto per la fama di “cattivi maestri” – politicamente parlando – di suoi pionieri quali Gustave Le Bon o Sergei Ciacotin, ma che andrebbe rivalutato e modernizzato.

 

I più recenti studi sul populismo, così come anche il suo, mostrano come il rapporto tra populismo e democrazia sia un rapporto stretto e allo stesso tempo complesso, proprio perchéaffonda nell’idea stessa di rappresentazione politica democratica. Mutuando una metafora dalla psicologia analitica il populismo può essere considerato “l’ombra della democrazia”? O comunque un inestirpabile pericolo sempre in agguato che si può soltanto contenere?

 

La metafora dell’ombra della democrazia è stata proposta da Margaret Canovan, che sul populismo ha fornito contributi fondamentali, e io l’ho ripresa suggerendone anche un ampliamento, mirato ad approfondire il connubio/contrasto fra l’immagine e il corpo che la proietta, con la prima che appartiene al secondo e dal suo contorno emana, senza però riuscire a riprodurlo esattamente. Come ho già detto, se il populismo sia, per la democrazia (ma quale? quella specificamente liberale oggi più diffusa o la sua forma teorica pura?) un pericolo o, come altri sostengono, un termometro o un utile correttivo, è interrogativo che tocca le sensibilità e le credenze individuali. In campo scientifico, ciò che conta è descrivere e comprendere, senza pregiudizi di alcun tipo o colore.

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