Il clamore del vuoto

21 Ottobre 2014

Pieno. Questo è l’aggettivo che dice in me il paese dell’infanzia e della giovinezza. Il paese era pieno, di uomini, donne e animali. Nei bassi ormai vuoti e cadenti si stipavano famiglie di dieci e più persone. C’era il pieno delle strade, delle campagne, delle processioni, delle feste, delle riunioni, dei comizi. Delle casupole adibite a scuole e delle mandre che seguivamo in campagna. Il pieno delle voci. Il pieno della miseria, dei bambini scalzi e con in mano una fetta di pane, delle favole e dei pettegolezzi, degli abbracci e dei litigi.

 

Arrivò il pieno delle macchine che partivano, famiglie che piangevano come le persone che restavano. C’era il pieno di chi salutava e diceva arrivederci sapendo che mentiva. C’era il pieno nel mio paese di Toronto, dove c’era mio padre e i padri dei miei amici. E quel pieno svuotava il paese e creava altri luoghi, palazzi e città. Le case chiudevano ma si pensava al ritorno. La ruga era piena. Adesso la via è piena di ricordi e di rimpianti. Sarebbero tornati un giorno i miei amici e i loro genitori. Noi partivamo per le città e le università, eravamo in giro per le città del mondo. Qualcuno tornava con il sogno di cambiare tutto. Cambiamo il paese, dicevamo. Bisognava restare. Bisognava tornare. E chi non tornava rinviava il ritorno. Tanto il paese aspetta, pensavamo. Il paese non aspettava. Mutava. Si svuotava. Non è più tornato nessuno. I mei compagni delle elementari e delle medie sono ancora in Canada. Ne vedo qualcuno, ma siamo diventati altri. Hanno ormai la faccia del padre come io ho la faccia di mio padre, dopo che per una vita abbiamo tentato di fuggire dal padre. È arrivato qualche rumeno. L’illusione di un nuovo pieno.

 

Più cercavamo di fare vivere il paese e più moriva. E partivamo e tornavamo. Smistavamo emigrati all’aeroporto e alle stazioni. E Toronto, che avevo immaginato come il prolungamento del mio paese, l’ho vista quando mio padre era già tornato da anni ed era ormai ammalato.

Anche centri ancora vitali contengono al loro interno una parte disabitata, case vuote, rughe morte, che li trasformano talora in luoghi inquietanti e sospesi, in attesa del peggio. Nei paesi dell’interno si chiudono scuole, uffici postali, ospedali, presidii delle forze dell’ordine. E centri lungo la costa, di recente popolamento, si presentano con una zona disabitata, spesso in rovina.

I paesi in abbandono sono spesso senza più centro, senza piazza, senza bar, senza più rapporti, con paesaggi stravolti.

 

Il paese è invece luogo delle relazioni, degli affetti e dei tradimenti. Un luogo mobile, che misura le tue mobilità. In un paese che ha meno abitanti che in un condominio di città, diventi oggetto di relazioni, umori e sguardi imprevisti. Dura e ti preserva il paese, luogo delle generosità e delle clientele, dei rapporti arcaici e dei legami postmoderni, dei vicoli spopolati e degli spazi virtuali affollati dai giovani.

Giovani che somigliano ai padri e invecchiano come loro, prima di loro, e giovani che partono e non tornano più. Le case vuote parlano di persone. Di storie e di volti. Di vita e di morte. Ai giovani non dicono nulla. Sempre vuote le hanno viste, quelle case, in un paese che pare il più brutto del mondo. Perché siamo nati qui? dicono i figli. Conto i giorni e i morti. Raccolgo memorie e voci. Vado in piazza e non incontro nessuno. Ed io la ricordo piena e ciarliera. Compatta pure nella sua frantumazione. Viva con tutti i suoi funerali. Chiude anche la piazza. E quando riapre d’estate è la piazza degli altri. Non è la piazza degli avi. Non c’è più la dimensione verticale e del ricordare: le memorie durano solo una generazione.

 

E dei tanti volti, delle interminabili bevute, dei comizi e delle lotte di anni ed anni, restano le memorie quando ne parli a qualcuno. Sono davvero tutti morti solo se nessuno ricorda. Così ho accettato il presente e questo tempo, la necessità di accompagnare defunti, custodire tramandare memorie, ma anche il compito di rinsaldare speranza. Anche con gli avanzi e i frammenti di una realtà consumata.

Paradossalmente proprio questi non più luoghi, «mezzo pieni» e «mezzo vuoti», arcaici e postmoderni, potrebbero costituire la risorsa di una nuova terra, che sa guardare avanti, senza dimenticare il passato, ma senza restarne prigioniera. I non più luoghi talvolta rivelano la volontà di cercare e acquistare un nuovo senso, inedite forme di «appaesamento» che resistono all’omologazione dominante. I nuovi luoghi forse sorgeranno dai più attenti ritorni, da sguardi più lucidi, dall’ostinato restare.

 

Restare richiede pienezza di essere, persuasione, passione. Restare ha bisogno di volontà di guardare dentro e fuori di sé, per scorgere le bellezze, ma anche le ombre, il buio, le devastazioni, le rovine e le macerie. Restare non comporta autocompiacimento, ma neppure afflizione. Chi resta non è un eroe, né può sentirsi una vittima. Chi resta, semplicemente, vive. E vivendo interroga le tracce di coloro sono partiti per sempre e ascolta i passi di quelli che invece ritornano. Restare è legato all’esperienza dell’essere sempre fuori luogo, proprio nel posto in cui si è nati e si vive. Restare, incontrare gli altri che oggi arrivano da noi. Chi ha memoria delle antiche pratiche dell’ospitalità può aprirsi agli erranti di oggi e con essi costruire un nuovo mondo, in luoghi che hanno avuto un senso. Restare significa riscoprire la bellezza della sosta, della lentezza, del silenzio, di un complesso e faticoso raccoglimento, stare insieme.

 

Coloro che restano potenziano il senso del viaggiare, e diventano approdo per quanti ritornano. Viaggiare e restare, viaggiare e tornare, sono pratiche inseparabili, trovano senso l’una nell’altra. Chi vive fuori scopre una vicinanza impensabile al luogo di origine, mentre chi resta si misura con lontananze e solitudini inaspettate. Rimasti e partiti non possono fare a meno gli uni degli altri, anche se il loro legame non è sempre amicale, ma basato talora su malintesi, su immagini distorte che ci si scaglia contro vicendevolmente. Se è vero che anche chi resta in qualche modo si sente in viaggio, è anche vero che chi è partito in qualche modo si sente rimasto.

 

 

Tornare o ritornare non restituiscono il tempo e i luoghi perduti. Non si torna come si era e al mondo com’era. Si torna nel paese per guarire, per pacificarsi, per morire, per creare una nuova vita, ma niente è più lo stesso. Tutto è cambiato. Le persone di prima non ci sono più. Quelli di prima sono diventati altri. Noi non siamo più gli stessi. Bisognerebbe camminare nei paesi, ascoltarli come si fa con gli anziani, proteggerli come si fa con i bambini, ma pure pretendere da essi che fioriscano e diano frutto, come cose vive.

 

Riguardare i luoghi significa guardarli altrimenti, con la levità di chi non vuole farsi soffocare dal passato, con la gioia di chi parla di cose amate. Riguardare i luoghi significa riconoscerli per quello che oggi sono diventati, senza rimpianti, nostalgie. Significa riconoscere genealogie, case, antenati, ma anche pensare ai bambini, a quelli che verranno. Sulla scena geografica del vecchio e nuovo mondo si affacciano individui e gruppi che hanno bisogno d’inventare il villaggio, le origini, la piccola patria come luogo di una diversità da recuperare, di una superiorità da ostentare. Riguardare significa rispetto, attenzione, ma anche riflessione sulla necessità di un nuovo senso comunitario, di un nuovo senso pubblico.

 

Al Sud la casa bella all’interno diventa brutta all’esterno: ci si difende dall’altro. Le case bene arredate all’interno sono inguardabili da fuori. Si pensa che il dentro riguardi noi, l’esterno riguardi soltanto gli altri, visti come ostili. Le costruzioni vengono lasciate incompiute. Si rimanda a tempi migliori, sperando che poi i figli in qualche modo le ultimeranno. Non accade più come con la prima emigrazione: gli emigrati partivano per fare un po’ di soldi, tornavano e acquistavano un podere, avviavano la costruzione della casa, ripartivano, fino a quando non riuscivano a terminare i lavori, magari dopo dieci-quindici anni. Oggi invece gli scheletri di cemento, alzati e non finiti, pilastri svettanti, senza tempo e senza meta, si alzano come una superba ipoteca sul futuro, come un desiderio di controllare il tempo e quello che verrà, mentre in realtà raccontano un presente indistinto e senza telos.

 

Non verranno terminate quelle case: i figli se ne sono andati, se ne andranno, non torneranno. Intanto intorno a noi impera un’esplosione d’ incompiutezza, di disordine e approssimazione, di assenza di regole e progetti. Allora, riguardare significa anche intercettare sguardi di cui non ci siamo accorti prima, avvolgere e coinvolgere altri occhi. Tessere una fitta rete di orizzonti che scardini il silenzio, che stimoli i forestieri, che turbi la politica, che la chiami a sé. I paesi vivranno se riusciranno a collegarsi, a interpellarsi, a trovare un senso anche nella solitudine e nei piccoli numeri. Riguardare i luoghi significa avere riguardo per tutti quei luoghi con cui abbiamo un legame, un pezzo di storia comune. Significa ripensare oggi il senso del nostro essere figli di emigrati e anche le modalità di stabilire un legame diverso con i discendenti degli emigrati che sono andati via.

 

Riguardare i luoghi significa sentirsi abitante di una zona, di un territorio, del mondo. Quello dell’abitare e dell’esserci è il tema che ci lega agli abitanti dei non luoghi, dei non ancora luoghi, agli abitanti delle megalapoli, delle banlieues, delle periferie del mondo, anch’essi al centro di uno sconvolgimento che richiede un altro senso dell’abitare. Riguardare i luoghi significa rispettarli, non deturparli. Tutto questo non chiama in causa soltanto gli amministratori, ma anche le associazioni, il singolo cittadino. Riguardare i luoghi comporta avere riguardo per le persone, per gli anziani, per i giovani, creando forme di assistenza e di socialità. Possiamo essere critici, ostili, avere voglia di fuggire, essere vinti dall’ira, ma ognuno di noi ha un obbligo con il proprio luogo e non può disertarlo. I legami sono fatti anche di mediazione e di tolleranza.

 

Riguardare significa avere cura. Cura è parola densa, che parte dalla sfera emozionale, oscillando tra sollecitudine, premura, attenzione, riguardo, preoccupazione e inquietudine fino ad indicare l’amore e la pena amorosa. La cura ha un senso vivo anche nella sfera pratica e parla di coltivazione delle piante e di allevamento degli animali, di un’attenzione che si espande alla natura e alla terra, oltre che alle persone. I luoghi hanno bisogno di amore vero, quello che nasce da una salvifica schiettezza, quello che mette a nudo bellezze e bruttezze per esaltare la profonda complessità del reale. Cura dei luoghi significa anche farsi carico delle verità drammatiche, quelle che tutti vorremmo tacere o imbellettare, nascondere o rifiutare in ogni modo. Cura è anche saper fare i conti con il dolore.

 

L’avere cura non è soltanto un fatto etico, morale, estetico è anche una pratica concreta. L’agire superficiale non prevede cura, ma l’occultamento dei problemi, o una loro falsa soluzione. Cura significa avere attenzione per le persone, per i rapporti, per i legami. La cura ha una visione globale del corpo, del corpo-paese, del corpo-comunità e dell’alterità che al corpo si accosta. Riguardare per cambiare significa muoversi a piedi in quei luoghi che sembrano condannati all’inesorabile marginalità, e che invece potrebbero trasmettere vitalità al mondo. Riguardare è attraversare paesi e campagne, conoscere quelli che arrivano, apprendere l’arte del camminare vigile, silenzioso, spesso solitario.

 


 

Vito Teti è professore di Antropologia Culturale presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria, dove ha fondato e dirige il Centro di Antropologie e Letterature del Mediterraneo. Tra le sue pubblicazioni: La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, manifestolibri, 1993 (n.e. 2011); La melanconia del vampiro. Mito, storia, immaginario, manifestolibri, 1994 (n.e. 2007); Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea, Meltemi, 1999; Il senso dei luoghi. Memoria e vita dei paesi abbandonati, Donzelli, 2004 (n.e. 2014); Maledetto Sud, Einaudi, 2013. Presso Quodlibet ha pubblicato Pietre di pane. Un'antropologia del restare, 2011 e Il Patriota e la maestra. La misconosciuta storia d’amore e ribellione di Antonio Garcèa e Giovanna Bertòla ai tempi del Risorgimento, 2012

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